Tanti anni fa durante la lezione di un laboratorio di scrittura consigliarono questo libro: “I dieci comandamenti di uno scrittore” di Stephen Vizinczey. Chi lo consigliò disse: Non fate caso al brutto titolo da lista banalizzante, respingente, da blog (la parola blog era ancora spesso accompagnata da una smorfia di disprezzo), perché in realtà dentro ci sono scritte cose di altissima levatura morale e letteraria.
All’epoca io prendevo dal discorso sulla letteratura tutto quello che potevo prendere, e anche compravo tutti i libri che potevo comprare, così comprai anche questo. Lo avrò poi solo sfogliato qua e là, nel corso del tempo, ma mai letto per bene.
Lo sto leggendo adesso. Non sono più una ragazzina e non sono più alla ricerca di maestri, anche se ne ho. So però che sono fallibili – eccome se lo sono – e so che le liste da blog possono racchiudere analisi tra le più interessanti mentre un libro cartonato di un autore con un nome impossibile da pronunciare non è assicurazione di alcunché.
E dunque.
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Uno degli articoli di Vizinczey raccolti nel libro s’intitola “Il potere della critica” e a leggerlo oggi ritrovo quello che non sopporterei mai di leggere da un giovane scrittore qualunque, ai primi passi, in cerca di consenso a suon di “dalli alla casta”. So bene di decontestualizzare, so che è per prima la mia percezione a essersi modificata, ma sono persuasa del fatto che guardare alle cose e agli altri sotto la lente che usa Vizinczey (disonesti! immeritevoli!) sia sbagliato oggi come lo era alla fine degli anni ’80.
Il drammatico incipit dell’articolo non lascia alcuno spazio all’interpretazione: con quello che a me pare un olimpionico sforzo retorico Vizinczey dà alla critica letteraria il potere di vita o di morte di uno scrittore:
“L’immenso potere della critica – il suo potere di stabilire che cosa la maggior parte dei lettori leggerà, e di conseguenza quali scrittori vivranno bene e quali resteranno poveri, il suo potere di fare la differenza tra la vita e la morte di uno scrittore – […]”
Seguito a un accapo di distanza dalla dimostrazione delle grandi cantonate che questi uomini pieni di potere (nello specifico i critici statunitensi) possono prendere. Quale esempio usa per la dimostrazione? La più oggettiva: la cantonata presa a proposito di un suo libro (“Elogio delle donne mature” – ma non è questo il punto). Vizinczey sa che la tesi non basta: ci vuole un’argomentazione che risponda alla domanda: “Perché tali critici si sarebbero comportati così?”. E dunque per argomentare etichetta un’intera cultura (?) basandosi sulla propria, personale – legittima ma semplificatoria -, ideologia:
“[…] Quasi tutti i più importanti giornali americani lo ignorarono o lo attaccarono, offesi (credo) dal fatto che vi si ritraeva il sesso senza ammantarlo di fantasie o disgusto, gli ingredienti basilari della cultura puritana.
Più avanti s’incontra l’ineleganza di citare con nome e cognome lo scrittore Edmund Wilson che si sarebbe profuso in complimenti privati al romanzo convinto però che privati sarebbero rimasti. La delusione di Vizinczey, che si vede rifiutare la richiesta di renderli pubblici, diventa la pretesa di indovinare il perché di quel rifiuto: qual è il perché?: l’assoggettamento al potere di Wilson.
C’è poi la cosa più interessante, già presente negli anni ’80 in forma di colpa solita e conosciuta – di chi/cosa? della globalizzazione? dell’alfabetizzazione di massa? degli strumenti culturali alla portata di tutti? era meglio quando si stava peggio? – causa della catastrofe per cui:
“Migliaia di nuovi romanzi vengono pubblicati ogni anno, e ciò richiede un numero crescente di recensori, il che equivale a un abbassamento del livello in ogni campo, di modo che la maggior parte dei romanzi pubblicati sono scritti da persone che non sanno scrivere, e la maggior parte delle recensioni sono scritte da persone che non sanno leggere”.
Niente più che luoghi comuni scritti in bella copia – trova le differenze con le attuali grida di dolore “Tutti vogliono scrivere!”; “Tutti vogliono dire la propria!”; “Non c’è più qualità!”; “Nessuno sa fare il suo mestiere!”; “Si pubblica robaccia!” ecc. Chi resta fuori da queste denunce apocalittiche? Ma naturalmente chi le pronuncia. Come in un’equazione matematica, chi denuncia sciagure si pone al riparo da esse: le pretese sono quelle degli altri, la non qualità è quella degli altri, la robaccia avete capito.

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Ma Vizinczey raggiunge il fondo quando tenta la critica a singoli scrittori contemporanei – agli scrittori, non alle loro opere – con l’intento di paragonarli a Honoré de Balzac, a Thomas Mann, a Miguel de Cervantes – e già quest’intento mi pare inutile, inappropriato, conservatore e forse addirittura sciocco – sulla base non di un’analisi di ciò che hanno scritto, ma del proprio privatissimo e infastidito insulto:
“[…] ciarlatani accademici come Jacques Derrida pubblicano un fiume continuo di libri pieni di teorie prive di valore e scritti in un gergo deliberatamente incomprensibile che ingombra le scrivanie degli editor […]”
Ed ecco palesato il motivo di tanta preoccupazione sullo stato della letteratura e della critica. Ieri come oggi sempre là si torna: alla convinzione che le scrivanie degli editor siano ingombre della spazzatura altrui invece che della propria virtù.
Nella conclusione dell’articolo, e al contrario di quello che fa sui testi di Derrida, su “Il pendolo di Foucault” di Umberto Eco Vizinczey concede almeno una propria lettura:
“[…] menzionare fatti poco conosciuti, citare oscuri documenti, parlare a vanvera di tutto e di niente, mescolare frasi incomprensibili con luoghi comuni.”
Ma esprimersi legittimamente su un altro autore non gli basta, e non gli basta neanche dare sfogo a motivazioni classiste sul successo del libro:
“Il successo artefatto di questo illeggibile romanzo mette insieme i deleteri effetti del denaro (!) e l’insolenza accademica […]”
Vuole fare di più. Allora costruisce il racconto di quando, durante una presentazione di Eco a Viareggio, notò tante persone ammassate in libreria “come pecore a cui fosse stato miracolosamente insegnato a dire quattro parole” e si prese la briga di avvicinare una giovane coppia nel tentativo di dissuaderla dal comprare il libro, invitandola invece a rivolgere la sua attenzione verso i più meritevoli (i soliti Balzac ecc, anzi no, di più: voleva “interessarli al Decameron”).
E insomma questo eroico Vizinczey che va alle presentazioni dei colleghi per riportare sulla retta via i lettori ingenui (“Questa povera gente, buona parte della quale veniva dai paesi sulle colline”) non solo non si rende conto della cosa miserabile che ha fatto, ma si rammarica di aver visto infine la giovane coppia uscire dalla libreria proprio – guarda un po’ – con “Il pendolo di Foucault” tra le mani.
Ancora una volta deluso, Vizinczey chiude il suo articolo di un’altissima levatura morale e letteraria così:
“Dopo cinquanta pagine al massimo i due devono aver deciso che i libri non facevano per loro e sono tornati a guardare la televisione per il resto della loro vita”.
Nella morale dello scrittore ungherese il mondo resta inadeguato, ma a chi di noi ha letto il suo articolo deve aver fatto un gran bene liberarci per dieci minuti della tv, del cinema?, di internet? – i capelloni, la minigonna, il grammofono (cit.) – e dei libri scritti dagli altri.

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E’ la dimostrazione che da grandi firme ci aspettiamo molto, da grandi giornali le analisi obbiettive, da grandi case editrici romanzi importanti. Poi succede invece che pubblicano cose da sotto-blog di infima categoria, ma guardando la copertina ci convinciamo che devono essere valide, e magari alla fine ci persuadiamo che sono anche ben fatti. Mentre dal blog non ci aspettiamo niente (perché può scriverci veramente chiunque), ma la sua democraticità è la sua forza, e quindi possiamo trovare delle vere perle.
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