di Chiara M. Coscia
Una voce fuori campo e una cassetta della posta. Il percorso di un pacchetto, l’inevitabilità del processo direzionale mittente-ricevente, un processo che non si concede pause – dice la voce – per riflettere sull’eternità, o per contemplare la bellezza. E poi l’esplosione. Così comincia una due giorni di immersione in Manhunt: Unabomber, la serie TV di Discovery Channel che ricostruisce la vicenda della cattura del famigerato Ted Kaczynski.
L’episodio 6, completamente focalizzato sulla storia personale di Kaczynski, sulla sua infanzia da bambino prodigio solissimo e già vagamente problematico, sulla giovinezza passata a fare da cavia per il progetto MKUltra della CIA¹, fino alla narrazione della sua quotidianità in romitaggio nei boschi intorno alla minuscola Lincoln, Montana, dove Kaczynski viveva in una capanna di legno senza elettricità né acqua corrente (in quasi completo isolamento), è uno degli episodi più commoventi e ben costruiti del 2017.
E questo al di là della prevedibile e scontata fascinazione verso l’antieroe solitario e antisistema di turno. E anche al di là del Kaczynski vero: per cui non è con Unabomber che si empatizza, ma con il personaggio Unabomber.
L’aspetto più notevole di Manhunt è la perfetta rappresentazione della detective fiction che sfugge a ogni glamourizzazione della parte criminale.
Non c’è passione forzata, non c’è utilizzo drammatico della colonna sonora, né ci sono momenti destinati a diventare presumibilmente cult. La rappresentazione scenica è scarna e vagamente desaturata. L’uso narrativo della fotografia ci riporta agli anni novanta, a un certo immaginario tipico da film TV noir, dove la rappresentazione degli ambienti, l’enfasi sui toni emotivi, la drammatizzazione per scale di colore e per inquadrature di determinati oggetti svolgevano una precisa mansione narrativa, più che manipolativa (o, peggio, didascalica). Tutto sommato, quella che stiamo vedendo è una storia la cui attualità non ha alcun bisogno di essere enfatizzata da colori, immagini, outfit o giustapposizioni instagrammabili.
Il parallelismo tra James Fitzgerald – il profiler dell’FBI che nella serie di Andrew Sodroski ci viene mostrato come il primo a utilizzare quella cosa che si chiama “Linguistica forense” – e Ted Kaczynski, entrambi outsider, entrambi irrequieti e scalcianti nei meccanismi di cui non vogliono essere semplici “ingranaggi”, non è l’unica cosa interessante. La quest eroica e la ricostruzione dell’intera vicenda in funzione della ricerca del finale perfetto, il più giusto per tutti, probabilmente l’unico che di fronte alla realtà dei fatti renda minimamente “giustizia” anche allo stesso Ted, procede con dei tempi dosati ad arte e con la costruzione stratificata della tensione che non ha bisogno di impennate improvvise e momenti zanzaaan! (aka abuso dell’effetto sorpresa o raffiche di colpi di scena).
La costruzione della narrazione alterna i due tempi della storia, il 1995 e il 1997, che si equilibrano perfettamente nell’intreccio, tra flashback che ricostruiscono le esplosioni (e la quotidianità della vittime poco prima delle esplosioni – ecco dove la serie non cede al richiamo dell’esaltazione criminale ma si mantiene comunque plurivoca nei punti di vista) e momenti a totale focalizzazione interna sui due personaggi principali: Fitzgerald e Kaczynski, le cui voci mentali (Fitz) e scritte (le lettere di Ted) si alternano a guidare lo spettatore nella storia. La suspence è costruita in maniera talmente raffinata che no, non ci si addormenta mai, e bisogna costringersi a fare una pausa ogni tanto, per non ritrovarsi all’alba attaccati allo schermo senza aver accumulato neanche mezz’ora di sonno. Non si tratta di quella tensione insopportabile da film horror, quella fisica che ci fa salire l’ansia e smascellare compulsivamente. Niente del genere. La tensione che si prova qui è una tensione elegante, intelligente, cristallina. Una tensione più di testa che di pancia. Ed è per questo che Manhunt: Unabomber non è tanto per appassionati di thriller e crime, quanto per appassionati di puzzle e cruciverba.

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Se c’è infatti una serie TV accostabile a Manhunt è House M.D. (Dottor House), molto più di altre storie di “man hunting” – come Narcos, con la caccia a Pablo Escobar che si trasforma in una miniera di materiali iconici che restano tutt’ora nelle orecchie di tutti. James Fitzgerald è una sorta di Gregory House meno affascinante, ma altrettanto ossessivo e pieno di quella hybris necessaria a perseguire le battaglie infinite con i meccanismi collettivi istituzionali – quando sei un passo e mezzo avanti a tutti gli altri e non hai voglia di aspettare.
Nel volume Fiction, Crime, and Empire: Clues to Modernity and Postmodernism, Jon Thompson scrive che la letteratura modernista include in sé una costante ricerca della grande verità nascosta, svelando enigmi e inseguendo indizi che portano alla risoluzione dell’incubo della storia, the nightmare of history, e che questa ricerca è perfettamente emblematizzata nella detective fiction. L’eroe detective è un eroe che vede oltre ciò che vedono gli altri, ha uno sguardo pressoché onnisciente e abilità interpretative che lo rendono eroe alto, altro, superiore.
Le abilità intellettuali di House e Fitzgerald sono decisamente sopra la norma. Tuttavia, in entrambi i casi, non siamo di fronte a eroi perfetti, impeccabili, sfolgoranti nel proprio intelletto e nell’umana persona. A spiccare non è l’intelligenza (che pure, si vede, non manca) bensì la tenacia, l’ossessione, la ricerca forsennata che non concede spazio ad altro. E infatti House è un personaggio ferito, incrinato, prima di tutto fisicamente, e Fitzgerald ci appare in tutta la sua incapacità relazionale e chiusura al mondo esterno quasi autistica. Ecco perché, più che alla classica detective fiction di matrice modernista, quella dell’occhio privato, dell’investigatore che agisce osservando dall’esterno e che risolto il caso nella linearità del “chi ha commesso il fatto”(whodunit), se ne va, questi due eroi assomigliano a quelli della fiction “hard-boiled”: gli eroi dei polizieschi procedurali, che si sbattono anche fisicamente e che non si fermano né al “chi” né al “come” (howcatchem), ma vanno oltre, perché la ricerca della verità è ciò che li muove, sia in termini di ossessione che in termini di – pure se personalissima e talvolta discutibile – etica.
Come scrive Slavoj Žižek²: “Il detective della letteratura hard-boiled è “coinvolto” sin dall’inizio, intrappolato nel circuito: questo coinvolgimento definisce la sua posizione molto soggettiva. […] La “verità” a cui tenta di giungere non è solo una sfida alla sua ragione ma lo riguarda eticamente e spesso dolorosamente.” Il coinvolgimento è assoluto e soggettivante, e la ricerca della verità si lascia dietro, spesso, una “scia di cadaveri” (come afferma giustamente Tabby, la partner di Fitzegerald, nell’episodio 5) di cui il detective non può e non vuole farsi carico, perché il suo obiettivo finale è “onorare il suo debito”(Žižek) con il caso: scoprire la verità.

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L’approccio al caso, più che semplicemente enigmistico, diventa di natura accademica in senso lato. È affascinante seguire Fitzgerald che affronta una ricerca senza incorrere nell’errore (pericolosissimo) del confirmation bias, quella cosa per cui cerchiamo conferme alla nostra tesi, senza guardare l’oggetto di ricerca con occhi puliti e intellettualmente onesti. Allo stesso modo, House ripete sempre tutti gli esami ai suoi pazienti, non fidandosi mai del lavoro di chi c’è stato prima di lui.
La riuscita della serie risiede proprio in questa costruzione complessa ma profondamente logica della vicenda legata agli scritti incriminanti di Kaczynski. E se in House la scienza strumento di ricerca è quella medica, che ci interpella tutti nella nostra corporeità, in Manhunt la fascinazione si fa altrettanto potente e collettivizzante, perché non c’è niente di più profondamente umano della lingua che parliamo e che usiamo per comunicarci.
NOTE
¹Il collegamento tra Murray e la CIA è stato smentito da Kaczynski in questa lettera
ww.cinemablend.com%2Ftelevision%2F2316232%2Fwhat-unabomber- ted-kaczynski- thinks-about- discoverys-
manhunt-unabomber&tfw_site=cinemablend
²Slavoj Žižek, “Two Ways to Avoid the Real of Desire,” in Looking Awry: An Introduction to Jacques Lacan
Through Popular Culture pp.60 e 63
https://spat2013.wikispaces.com/file/view/Slavoj+Zizek+Looking+Awry+An+Introduction+to+Jacques+Lac
an+through+Popular+Culture+October+Books+1991.pdf