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Scrivere in memoria della madre

di Alessandro Melia

“Mia madre è morta giovedì 22 novembre, davanti ai miei occhi. La trovai agonizzante sul pavimento della cucina, con la pancia gonfia e la mascella serrata. In ginocchio, urlando, cercai di spalancarle la bocca per farla respirare, ma fu un tentativo inutile. Più tardi, in ospedale, mi dissero che aveva avuto un aneurisma dell’arteria splenica.”

Questo è l’incipit di un testo (non un romanzo, non un racconto, non una biografia, semplicemente un testo) che scrissi pochi mesi dopo la morte di mia madre. Sono passati quasi sei anni e quel testo, mai concluso, è conservato nel mio pc dentro una cartella denominata Sulla morte. Ricordo con precisione quando decisi di iniziare a scriverlo. Ero a teatro e stavo assistendo all’adattamento de Il Soccombente di Thomas Bernhard. Per qualche motivo, durante il monologo finale dell’io-narrante interpretato da Roberto Herlitzka, ripensai alla morte di mia madre, a cui avevo assistito contro la mia volontà, e sentii il bisogno di scrivere di lei. Quando tornai a casa, accesi il pc e raccontai gli istanti della morte, l’obitorio, il funerale, la tumulazione, la difficoltà di toccare le sue cose, la sensazione di smarrimento e solitudine. Scrissi ininterrottamente fino all’alba. Nei giorni seguenti non feci altro che rileggere e riscrivere, cercando di ordinare il testo, di dargli una forma. Pensai che fosse il modo migliore per onorare la memoria di mia madre, che in vita, di tutti i miei tentativi di scrittura, aveva potuto leggere solo pochi racconti. Oggi posso dire che non sono nemmeno dei racconti, ma appena dei frammenti. In uno di questi, che avevo intitolato Il portagioie, descrivevo una donna che si aggirava per un mercatino di antiquariato. Le era successo qualcosa di doloroso, che la preoccupava, e cercava di distrarsi concentrandosi sugli oggetti in vendita. Un portagioie attirava la sua curiosità. Lo prendeva in mano, lo apriva e si accorgeva che dentro c’era un piccolo specchio rettangolare. Mentre si osservava, sforzandosi di sorridere, veniva colpita da un’improvvisa fitta alla pancia e cadeva a terra priva di sensi. A quella donna avevo dato il nome di mia madre.

Da quel momento, però, iniziai a torturarmi con le domande. Perché ho bisogno di scrivere proprio della morte di mia madre? A chi interessa l’ennesima storia di un figlio che racconta la scomparsa di un genitore? Non è forse un modo per continuare a rimanere in sua compagnia? Passai settimane a interrogarmi; di fatto non scrissi più. In compenso incominciai a leggere libri dedicati alla morte della madre. Mi imbattei nella Lettera a mia madre di Georges Simenon, che soltanto a distanza di tre anni e mezzo dalla sua scomparsa ha la sensazione di capirla. Scrutandola morente nel letto d’ospedale, le dice:

“Madre, siamo noi due qui a guardarci. Tu mi hai messo al mondo, io sono uscito dal tuo ventre, m’hai dato il primo latte, tuttavia non ti conosco, come tu non conosci me”

Lessi “Dove lei non è”, il diario di Roland Barthes, scritto per due anni consecutivi dopo la morte della madre. Trovai di grande intensità Un altare per la madre di Ferdinando Camon; mi immedesimai con Peter Handke, che in Infelicità senza desideri confessa:

“Il bisogno di scrivere di mia madre, anche se ogni tanto si fa sentire violento, è d’altra parte talmente vago che sarà necessario uno sforzo per non finire col battere a macchina sempre una medesima lettera, l’unica cosa che mi andrebbe di fare”

Anch’io avevo voglia di scrivere una lettera a mia madre, e così feci. Senza alcuna velleità letteraria, in quelle pagine c’è la mia dichiarazione d’amore e di ringraziamento nei suoi confronti. Ad ogni modo, tutte quelle letture non avevano dissipato i dubbi sulla necessità di trasformare il mio dolore in un testo. Dubbi che si accentuarono quando mi imbattei in un’antologia di scrittori italiani del 1972: “Le madri”. Mi trovai d’accordo con quanto affermava il critico Carlo Bo nella prefazione: “Credo che nessun altro argomento riesca a bloccare lo spirito dello scrittore come quello del parlare della propria madre; il discorso che dovrebbe per sua natura essere il più facile diventa il più difficile, il discorso che non si può fare. La madre non ha letteratura, ha soltanto la vita ma è un ‘soltanto’ che porta alla più sicura delle nostre grandi verità”. Dopo quella lettura salvai il testo nella cartella del pc e non lo aprii per tre anni.

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photo by priscilla du preez on unsplash

Oggi pronunciare la parola morte fa paura. Il linguaggio si è modificato in favore di una percezione della morte che non deve disturbare né tantomeno impressionare. La società sembra voler imporre il silenzio. I bambini non devono vedere i morti. In famiglia il dolore si reprime, si va a piangere di nascosto dall’analista. La morte c’è, ma non si vede. La prima morte che io ricordi fu quella di mio nonno. Avevo diciannove anni. Lo vidi nel letto, con la bocca spalancata e il volto sofferente. Due uomini gli misero un rialzo sopra la testa e un panno bianco sotto il mento per chiudergli la bocca, lo pettinarono e lo vestirono con un completo blu. Ricordo la pelle del viso tirata, lucida. La stessa scena la rividi sei anni dopo quando morì mia nonna. Entrai nella camera da letto all’alba e la trovai con la stessa bocca spalancata e la testa inarcata verso l’alto, tesa nello sforzo di afferrare l’ultimo respiro. Mio nonno morì di cancro alla prostata, mia nonna di infarto. Entrambi avevano superato gli ottant’anni, le loro morti sono da considerarsi naturali. La faccenda cambia quando a morire è una ragazza di vent’anni per un raro cancro al cervello. Si chiamava F. Quando la conobbi io avevo appena iniziato il liceo, lei era ancora alle medie. Frequentavamo lo stesso istituto e io aspettavo l’ora di ricreazione per parlarle nel cortile della scuola. Non ricordo in che modo ci conoscemmo, ma diventammo amici. A volte dopo la scuola pranzavo a casa sua. F. viveva con sua madre. Aveva una camera grande, zeppa di vestiti, cd e libri. Ascoltavamo musica rock, guardavamo telefilm e ci raccontavamo cosa volevamo fare da grandi. Era una ragazza timida e sincera. Quando finii il liceo e mi iscrissi all’università, le nostre frequentazioni diminuirono. L’ultima volta che la vidi, nell’autunno del 1999, andammo a passeggiare allo zoo. Ho conservato una foto che ci facemmo scattare davanti alla gabbia delle antilopi. Si era tagliata i lunghi capelli ricci; portava un paio di occhiali con le lenti gialle, i jeans e una maglietta blu. Nella foto lei è appoggiata a una balaustra, io le cingo la vita e sorrido. Un paio d’anni dopo incontrai per caso sua madre per strada. Mi disse che F. stava morendo in ospedale. Era dimagrita, aveva perso i capelli e non parlava più. Mi sentii gelare. Nei giorni successivi riflettei sulla possibilità di andarla a trovare, ma alla fine decisi di non farlo. Temevo che vedendola in quelle condizioni non sarei stato più capace di ricordarla come l’avevo conosciuta. Fu una decisione dolorosa, mi sentii un vigliacco. “Felice quella morte che non concede tempo sufficiente per i preparativi di un tale apparato”, ha scritto Montaigne. Mia madre, allora, ha avuto una morte felice.

Se adesso sto scrivendo nuovamente di lei, è perché ho finito da poco di leggere un libro in cui ho trovato le risposte che cercavo cinque anni fa. Si intitola Una donna e l’ha scritto Annie Ernaux. Il libro si apre così:

“Mia madre è morta lunedì 7 aprile nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove l’avevo portata due anni fa. Al telefono l’infermiere ha detto: “Sua madre si è spenta questa mattina, dopo aver fatto colazione”. Erano circa le dieci”.

Subito dopo Ernaux descrive la stanza dove la madre è morta, la scelta della bara, il funerale, la sepoltura, ciò di cui si è dovuta occupare nei giorni successivi alla sua morte. Tutti passaggi che avevo raccontato anche io prima di bloccarmi. Da grande scrittrice, invece, Ernaux non si è fermata.

“Andrò avanti a scrivere su mia madre. Forse farei meglio ad aspettare che la sua malattia e la sua morte si fondano nel corso passato della mia vita, ma in questo momento non sono capace di fare altro” (pagina 21)

“Il mio progetto è di natura letteraria, poiché si tratta di un cercare una verità su mia madre che può essere raggiunta solo attraverso le parole. Ma, in un certo senso, spero di restare al di sotto della letteratura” (pagina 22)

“Passo molto tempo a interrogarmi sull’ordine delle cose da dire, la scelta e la disposizione delle parole, come se esistesse un ordine ideale, l’unico capace di restituire una verità su mia madre – ma non so in cosa consista – e nel momento in cui scrivo non conta nient’altro per me che la scoperta di quell’ordine” (pagina 41)

“Questa maniera di scrivere, che mi pare andare nella direzione della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine e dall’oscurità del ricordo individuale tramite la scoperta di un significato più generale” (pagina 49)

Ecco l’importanza della scrittura di fronte alla morte: ricerca della verità, scoperta di un significato generale che possa sostenere chi scrive e al tempo stesso diventare sostegno per chi legge. Quindi una trasmissione, o una condivisione, di sensazioni. Qualcosa del tipo: io provo questo, anche tu lo provi? Allora non sei solo. Ernaux non scrive soltanto di sua madre, la sua non è una biografia né il pianto di una figlia. “Era necessario che mia madre diventasse storia perché io mi sentissi meno sola e fasulla nel mondo dominante delle parole e delle idee”. Uno dei doni della letteratura è riuscire a esorcizzare la morte, parlando di morti.

Circa un anno fa, mentre sistemavo degli scatoloni in soffitta, ho ritrovato alcune fotografie che credevo di aver perso. Ce n’era una in cui mia madre è seduta sul mio primo motorino, un vecchio Piaggio, e sorride. Anche io sorrido al suo fianco. Presi carta e penna e cercai di descrivere quel momento di irripetibile spensieratezza. Ciò che venne fuori assomigliava molto a una strofa. Nei giorni successivi ci lavorai sopra, finché mi sembrò di aver composto una poesia. Più che la metrica in sé, ciò che mi entusiasmava ogni volta che la rileggevo era la gioia che mi trasmetteva e la sensazione di essere riuscito a fissare esattamente quel momento distante quasi venticinque anni. Presi le altre foto, stampai il testo e la lettera a mia madre e mi misi all’opera. Per nove mesi scrissi ogni giorno, nessuno escluso, combattendo contro i dubbi e la paura. Scrivere è difficile e nessuno può dirti come si fa. In certi momenti mi sentivo come Odisseo, che nel Libro 11 dell’Odissea, mentre visita l’Ade, prima scopre che sua madre Anticlea è morta; poi, dopo averle parlato, per tre volte cerca di abbracciarla, non trovando che il vuoto. Mi sentivo rappresentato da quella scena di devastante dolore e impotenza. Oggi quella fatica e quel dolore, quella gioia e quella vertigine, sono racchiusi dentro una raccolta di poesie che spero, prima o poi, possano essere pubblicate per consentire a me di provare, finalmente, il piacere liberatorio di perdere una parte di me stesso.

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photo by jonas jacobsson on unsplash

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