“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.
La lettera di oggi è per Eleonora e il suo racconto “Salsi colui”.
[Chi è Eleonora: Scrivo da sempre e credo che non smetterò mai. Sono d’età. Sono totalmente dedicata alla forma del racconto pur con esperienze di tutti i tipi in passato, teacher d’inglese mi servo spesso della letteratura nelle mie lezioni, contemporanea, nel senso più triviale del termine. Pesco dai Social, You tube, Netflix.]
Cara Eleonora,
per dirti come mai il lettore non riesce a seguire la tua storia ti mostro tutti i punti in cui gli viene spontaneo farsi una domanda e non ottiene risposta, e tutti quelli in cui è costretto a impegnarsi in un grosso sforzo per figurarsi le immagini che la tua scrittura costruisce, e non viene ripagato.
Le domande sorgono ogni volta che dai al lettore delle informazioni sulla trama, cioè su “quello che succede al personaggio” oppure su “qual è il contesto della storia”. Queste informazioni possono, sì, essere progressive e creare suspense, ma non rimandare all’infinito la chiarezza, non diventare ripostiglio di ermetismo: la scrittura è comunicazione.
- dopo le ultime tragiche notizie (quali?)
- l’idea si stava formando (che idea?)
- se lo sentiva (come?)
- Una vittima (perché?) con stile
- Altri punti del pianeta (quali?) cambiavano (come?) per sempre (addirittura? dunque come?) gli esseri che vi soggiornavano (chi? quali?)
- e mai si saprà quanto a lungo dormì e se fu lì che la sua gonna si macchiò. (chi lo vuol sapere? da quale spazio/tempo? perché bisognerebbe saperlo? la gonna che si macchia è una metafora? di cosa?)
- Dicasi che le due sedie a sdraio sotto i cipressi di fronte alla casa erano deserte, poi qualcuno le abitò e poi furono deserte di nuovo.
Dicasi che passi frettolosi sulla strada ci furono ma nessuno la notò e le voci non lasciarono traccia nelle sue orecchie. (di cosa si parla? da quando si parla?) - Piangeva, sua madre (perché?)
- attonita dallo sgomento (chi? perché?), le sue orecchie morte (di chi? perché?)
- La notizia arrivò (quale? quando?)
Le immagini complesse ed evocative non sono necessariamente un problema, se prese una alla volta e se maneggiate con consapevolezza e ordine, ma lo diventano quando ingombrano il testo, si mettono in prima fila, puntano i riflettori su sé stesse invece che occuparsi di impreziosire la storia e darle un diverso senso: le “immagini preziose” non si scrivono tanto per, si scrivono perché la storia acquisti una specifica voce, uno specifico taglio.
- […] l’aria conteneva sacche di profumi che scoppiavano come bolle perforate dal suo naso
- La sua mente annaspava registrando il flusso continuo dei pensieri
- […]e per qualche secondo il suo cervello tramortito, fattosi bianco e inerte (?)
- Arcana architettura di terre e schiume di rocce, una vagina di colline soffici, da cui trasudavano acque calde e profonde, un orifizio della terra.
- Nessuno era più in grado di dimenticare la sensazione di fraterna accoglienza che invariabilmente si insinuava in chi si iscriveva in questo spazio (?)
- Anche una bacheca di sughero sulla parete e la volta a vela che convergeva esattamente sul suo posto a sedere. Convogliando energie cosmiche… (?)
Mettiamo anche il caso che il lettore voglia seguirti in questo lavoro di traduzione del linguaggio, perché riesci ad affascinarlo e a coinvolgerlo: dove lo porti, poi? Arriva un personaggio/indagatore (Cellini) al terzultimo capoverso. Neanche il tempo di guardarlo e di (ri)conoscerlo, e la sua azione viene interrotta da un corsivo (riprende il corsivo dell’incipit? È un nuovo corsivo?) non identificato, che lascia il finale con delle ipotesi, una terzina e un ritorno alla Lucille incontrata all’inizio, di cui, però, chi legge non ha capito la parabola e non può dunque capirne la conclusione.
Direi che la chiave per rimetterti al lavoro sul tuo racconto è qui: nella parola “capire”. Il lettore è tuo complice se tu gli permetti di diventarlo. Se pretendi che faccia lui tutto il “lavoro sporco” ti abbandonerà.
Un caro saluto,
Francesca de Lena
SALSI COLUI
“Vi penserò.
Partite riposate, vi aspetta ancora un bel pezzo di strada. E poi, nel corso del vostro viaggio, vi racconterò la vera storia.
… Del violinista ungherese le cui orecchie morte continuarono ad ascoltare Ligeti per giorni, nella stanza al primo piano, da cui arrivava quella musica che non smise mai. Trattasi di colui che aveva dovuto separarsi da sé in un pomeriggio di vento e strame insanguinato in cima a quella collina gialla, la più secca, al centro dell’oceano di colline abitate da viaggiatori di passaggio, dove noi, in sosta estatica davanti alle case, immobili dietro agli occhiali da sole, restammo muti come dipinti. L’eccellenza di un marketing turistico specializzato nella vendita di paglia, nuvole, cipressi e vuoto, l’aveva convocato lì, proprio lui, e nessuno poteva immaginare che fosse per derubarlo di cotanto bene!”
Dopo il temporale notturno l’aria conteneva sacche di profumi che scoppiavano come bolle perforate dal suo naso. Rise, all’idea, continuando a camminare. Lucille si chiamava, veniva da Brighton. Studiava arte e lavorava lì. Una tesi sul paesaggio delle terre di Siena ferma in un punto cruciale oltre il quale non riusciva ad andare. La sua mente annaspava registrando il flusso continuo dei pensieri, perché dopo le ultime tragiche notizie, l’idea si stava formando, se lo sentiva. Aveva capelli rossi e vesti lunghe, Lucille. Una vittima con stile.
Il percorso tra la casa principale e la dépendance, sulla collina di fronte, era il momento migliore del suo lavoro. Mezz’ora di salita a piedi subito dopo colazione. Lo faceva volentieri con ogni tempo e guardandosi intorno non poteva dimenticare che stava camminando dentro il poster pubblicitario della Regione Toscana, l’immagine di un calendario che non scorreva. Arcana architettura di terre e schiume di rocce, una vagina di colline soffici, da cui trasudavano acque calde e profonde, un orifizio della terra.
Questo si vedeva da una delle colline, la più gialla, la più secca, al centro dell’oceano di colline abitate da viaggiatori di passaggio, in sosta estatica davanti alle case, immobili dietro agli occhiali da sole, muti come dipinti. Altopiani con spazi dilatati da fughe di luce e ombre fornivano le adeguate proporzioni per una visione non gregaria, non sottomessa, del cielo, e riversavano sull’uomo di passaggio il senso di una gloriosa appartenenza e la misura della potenza della sua specie. Questo era più forte di qualsiasi altra cosa, sull’uomo di passaggio. Nessuno era più in grado di dimenticare la sensazione di fraterna accoglienza che invariabilmente si insinuava in chi si iscriveva in questo spazio, in chi si immergeva in quelle acque. Altri punti del pianeta cambiavano per sempre gli esseri che vi soggiornavano. Ma quel paesaggio così illustre, ritratto, misurato e specchiato e rimpianto, generazione dopo generazione si era intriso di una specie di auto-esaltazione, anzi, una specie di tirannide. Sì, una specie, e anche un po’ sordida, di… tirannide, si disse. E i quadri dei pittori erano pieni di un senso di aliena complicità tra uomo e cielo, sullo sfondo dei ritratti di uomini santi e di uomini principi, di poeti, di assassini, ministri, banchieri, madonne, dame velenose e prostitute leggiadre.
No, Lucille non sapeva come e quando se ne sarebbe potuta distaccare. Tanto valeva semplicemente camminarci dentro per il tempo concesso… uff! Ma che caldo oggi! …yes, some kind of awesome weird tyranny. Questi erano i pensieri di Lucille. Lucille ansimava per la salita. Per giungere alla casa c’erano solo trecento metri, ma aveva caldo e aveva mangiato troppo. La colazione sontuosa del migliore agriturismo della Val d’Orcia era la colazione più pesante della Val d’Orcia. Saliva, la fantesca inglese, verso la casa sulla collina, la più gialla, la più secca, al centro dell’oceano di colline abitate da viaggiatori di passaggio, in sosta estatica davanti alle case, immobili dietro gli occhiali da sole, muti come dipinti. I suoi pensieri oziosi tradivano la mancanza di ossigeno, decise di fermarsi un attimo, si inoltrò di qualche passo nel campo e si distese sulle stoppie di paglia gialla e asciutta, non troppo confortevole. Tuttavia abbastanza confortevole perché lei lì si addormentasse di colpo e mai si saprà quanto a lungo dormì e se fu lì che la sua gonna si macchiò. Dicasi che le due sedie a sdraio sotto i cipressi di fronte alla casa erano deserte, poi qualcuno le abitò e poi furono deserte di nuovo. Dicasi che passi frettolosi sulla strada ci furono ma nessuno la notò e le voci non lasciarono traccia nelle sue orecchie.
Lucille sognò sua madre curva sulla spesa scaraventata sul selciato, sferzata da uno stormo di gabbiani urlanti tra raffiche di vento gelido sotto Elsinore Crescent, a Brighton, nel quartiere di Gillian Bay. Piangeva, sua madre, raccogliendo il pane zuppo di pioggia. Fu allora che si svegliò, di colpo, con un singulto d’angoscia e il sole in faccia. Si alzò e, trasognata, lasciò vagare lo sguardo per le colline. Il suo occhio registrò un movimento laggiù vicino alla casa principale, era il Castelli che stava scaricando la cesta del pane. Il pane!!! Era già arrivato il pane. Allora Lucille, con uno scatto improvviso, si mise a camminare velocemente in discesa. Aveva deciso di tornare in giù a sbrigare le camere dell’appartamento grande, la pulizia nella dépendance per oggi saltava o sarebbe tornata nel pomeriggio se le fosse rimasta qualche ora. Non erano previsti nuovi arrivi fino a sabato e l’unico ospite era il violinista che alloggiava nell’appartamento al piano di sopra. Ma la sua station wagon era ancora parcheggiata sul retro, non era ancora uscito dalla sua stanza, non si era fatto vedere a colazione, neanche ieri. Forse era un solitario, il violinista.
Intanto nella stanza al piano di sopra della dépendance attonita dallo sgomento, le sue orecchie morte continuavano ad ascoltare Ligeti da tre giorni. E fuori da quell’universo sonoro, mute le luci del giorno si erano per tre volte avvicendate e le ombre delle nubi avevano viaggiato come greggi sulle colline brucando lentamente le ore, una dopo l’altra. La notizia arrivò prima di tutto alla vineria di M.me Olga una ricca franco- canadese che gestiva la più piccola osteria di S. Quirico. La pantalonaia della piazza entrò trafelata, molto scossa ripetendo oddio oddio oddio. Tornava dal servizio in chiesa, il giovedì era il suo turno per le pulizie e quel giorno era salita fino in cima alla torre campanaria. E guardando in giù, da lassù, aveva visto qualcosa nel cortile sotto il cimitero, a ridosso del muro, in un angolo invisibile dall’esterno. Un cadavere, sì, la sagoma di un corpo. Era scesa a precipizio dalla torre, aveva trovato la chiave del cancello, era entrata nel piccolo cortile recintato da muri coperti di muschio e l’aveva visto. Il corpo portava un abito da viaggio color sabbia, di fattura tedesca, scarpe di pelle chiara e al polso un Rolex d’oro, all’altro polso un legaccio di cuoio, come quello per le pecore. La camicia e le spalle erano intrise e nere di sangue rappreso. E sopra le spalle il nulla. Il cadavere era senza testa.
Tornarono nel piccolo cortile, scortate dai carabinieri e anche dal parroco. Il
cadavere partì per Firenze. E da Firenze arrivò, verso le sette di sera, l’ispettore Cellini, per le indagini. Prese alloggio all’ Hotel Falcone, con finestre sulla piazza.
Il giorno seguente alle 8.30 Adele, la segretaria dell’agriturismo La Ruga era ferma davanti alla porta del piano di sopra nella dépendence. Bussò, forte, ancora, forte, e poi aprì con le sue chiavi. Guardò il bagno deserto alla sua sinistra, poi percorse il corridoio e bussò ancora alla porta della stanza. Attese, non si sentiva alcun rumore. Aprì. Nella stanza sfrecciavano isteriche tre grosse mosche e un odore selvatico e aspro vi aleggiava come una disgustosa nebbia, nel caldo insopportabile. Non ci fu l’urlo che pur l’orrore produsse, la sua gola si chiuse per un conato di vomito. Il letto era nero di sangue rappreso, il morto, appoggiato sul cuscino, gli occhi chiusi, sembrava ancora ascoltare da un paio di cuffie rimaste conficcate nelle orecchie. Barcollando e tenendosi la mano sulla bocca, Adele avanzò verso il cadavere, le sue gambe incerte inciamparono in un filo e improvvisamente la musica si riversò nella stanza come un’onda gigantesca. Lei sobbalzò e rimase esterrefatta e per qualche secondo il suo cervello tramortito, fattosi bianco e inerte, non registrò altro che musica e odore. Aveva sollevato il lenzuolo e sotto quella testa c’era il niente. Nel bianco candido delle lenzuola solo una chiazza, piccola e frastagliata, di sangue rappreso. Adele vomitò nel water poi corse fuori. La porta, dietro di lei, sbatté, rinchiudendo le tre mosche nere.
Cellini si era “accomodato” nell’ufficio di portineria della stazione dei Carabinieri di S. Quirico. Aveva linea e connessione, questo importava. Anche una bacheca di sughero sulla parete e la volta a vela che convergeva esattamente sul suo posto a sedere. Convogliando energie cosmiche…comunque non particolarmente efficaci, pare, a risolvere casi della vita, idioti e complicati come questo. Erano le due del mattino e non aveva ancora cenato. Crampi di fame lo convinsero a lasciare la postazione.
Non era venuto a capo di niente. N I E N T E.
“Nell’oceano di rimembranze e correnti solide in cui siete immerse, voi non potete
realizzare il disquanto macabro di questa storia , mentre nella calura e vacanza proseguite per la Spagna del nord, con soste programmate, al riparo da chiavi perdute e reception deserte, nell’itinerario del ritorno. Insomma, avete altro a cui pensare. La testa da una parte, e il corpo dall’altra, potenzialmente già unite dalle carte sulla scrivania di Cellini, ma distanti ancora nel dirsi della vicenda. La telefonata che sta per accadere ha il compito di modellare il fatto.”
Finale numero uno. Un collare di acciaio. Portava il numero e non poteva essere ottenuto che con la decapitazione. Il numero corrispondeva a una cassetta di sicurezza della banca di Pienza dove era custodito un prezioso Stradivarji. Cellini che mangia e indaga, trae una conclusione e beve. Un Maigret, ma bello e ugualmente solitario.
Finale numero due. Un ex-amante SM vendicativo aveva messo in scena un detto del
musicista. “Ascolterei questo di Ligeti anche se avessi la testa staccata dal corpo”. Torbide passioni e musica sublime. Tsk!
Finale numero tre. Vi ricordate la botola nel nostro bagno? Ecco. Vi ricordate che “il cerimonioso” ci disse che era fatta su misura perché ci passassero le spalle di un uomo? Ecco. Lì era nascosto il vero corpo di quella testa. Sotto la paglia, non lontano dalla strada dove Lucille si era addormentata, c’erano ancora tacce di sangue. E poco lontano, sotto un cipresso, un’altra testa. Due teste divise da due corpi, le teste verranno scambiate, muovendo le indagini in direzioni impreviste. Costruendo, di fatto, due Frankenste illetterari. Ma ecco l’ineffabile terzina…
“ricordati di me che son la Pia.
Siena mi fe’ disfecemi Maremma
salsi colui che inanellata pria,
disposando, m’avea con la sua gemma.”
(Purgatorio, Canto V, vv. 130-136 . Pia de’ Tolomei)
È quel “disfecemi” che mi indirizza verso il macabro, Lucille tornò da Brighton.
Tornò e sparì.
Non lasciò mai più quel luogo, rimase per sempre in quella pagina, del calendario, della
Regione Toscana che, sontuosamente, la disfò.
ma quanto sei generosa tu? 😉
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Pingback: La verità vi prego: se il lettore non ti capisce, non ti legge — I LIBRI DEGLI ALTRI – bibolottymoments
Ottima analisi. Complimenti. Ci proverò.
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Sospetto che, alla radice, la grande scrittrice abbia dei vuoti mentali, trapiantati da raccapriccianti velleità.
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