di Luigi Loi
Parafrasando Cormac McCarthy si potrebbe dire che l’unica cosa bella della vecchiaia è che finisce. Tentare di descriverla è difficile. Si tratta di un sapere più pratico che teorico perché se per un verso la vecchiaia è una condizione pubblica, è pur vero che ognuno di noi ha in potenza una vecchiaia da esprimere (o la sta già esprimendo) con tutta la soggettività psicologica/fisica/culturale/emotiva del giovane che è stato. Cercare allora di divinare queste tracce dai romanzi è pressoché impossibile, perché i meccanismi narrativi dicono solo quanto dichiarano di dire. Ma come lo fanno, che trucchi usano? In poche parole: che forma ha il dito che indica la luna?
Gli estremi del vecchio
La vecchiaia è fatta di posizionamenti e aspettative: che ruolo hanno nella nostra società e a cosa ambiscono i vecchi? Cosa si aspettano i giovani dai vecchi? E i vecchi dagli altri vecchi, cosa si aspettano? A sentire Simone de Beauvoir piccole aspettative e posizionamenti estremi:
Se i vecchi manifestano gli stessi desideri, gli stessi sentimenti, le stesse rivendicazioni dei giovani, fanno scandalo; in loro, l’amore, la gelosia, sembrano odiosi o ridicoli, la sessualità ripugnante, la violenza irrisoria. Essi devono dar l’esempio di tutte le virtù. Prima di tutto si pretende che siano sereni; si afferma che lo sono, il che autorizza a disinteressarsi della loro infelicità. L’immagine sublimata che si propone di loro è quella del venerabile Saggio, aureolato di capelli bianchi e ricco d’esperienza, che guarda alla condizione umana da un’altissima cima; se loro non ci vogliono stare precipitano molto in basso (de Beauvoir, La terza età).
Sui piatti della bilancia abbiamo due estremi: il vecchio Omero (che radicalizza la propria saggezza con la cecità) e all’opposto (per eccesso) i vecchi scontrosi, lussuriosi, severi, maliziosi, avari, logorroici e rincoglioniti di tutte le letterature. Sembra quasi che la vecchiaia non possa essere descritta come normalità.
Per esempio: due romanzi italiani, che recentemente hanno avuto un certo riscontro di pubblico e critica, fondano il proprio meccanismo narrativo sulla maschera dell’anziano: La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone e Neve, cane, piede di Claudio Morandini. Gli esiti delle opere di Marone e Morandini mostrano un arco di trasformazione del personaggio ben strutturato, credibile e accorato, ma partono da una condizione di stereotipia del personaggio, sottolineata dalle alette degli stessi romanzi. Ecco la descrizione del protagonista di Marone: «Cesare Annunziata potrebbe essere definito senza troppi giri di parole un vecchio cinico e rompiscatole. Settantasette anni vedovo da cinque e con due figli, Cesare è un uomo che ha deciso di fregarsene degli altri e dei molti sogni cui ha chiuso la porta in faccia». Questa invece è la descrizione di Adelmo protagonista di Morandini: “«Il romanzo è ambientato in un vallone isolato delle Alpi. Vi si aggira un vecchio scontroso e smemorato […] che la solitudine ha reso allucinato».
La quarta di copertina nella propria telegrafica descrizione della materia è volutamente un bozzetto, ma è sintomatica di come posizioniamo la vecchiaia nella società.
La salute del vecchio.
Secondo Nikolas Coupland la vecchiaia non si può tematizzare attraverso lo svelamento dell’età anagrafica: solo l’anno scorso, con un colpo di penna si è stabilito che la vecchiaia comincia a 75 anni: la vecchiaia è più un concetto culturale, e il suo inizio una convenzione. Non si può tematizzare nemmeno attraverso la menzione di ruoli e professioni caratteristiche dell’età (per esempio: l’essere nonn*, l’essere pensionat*, essere poet* o romanzier* ecc).
L’unica tematizzazione possibile sembra allora quella dei fenomeni fisici. Qui la letteratura sembra indicare con più agio il colore della vecchiaia e gli esempi sarebbero troppi: gli altissimi Montaigne, Tolstoj, lo sconcertante Eguchi Yoshio di Kawabata per dirne alcuni. Ma la virtù sta nel mezzo, così come la verità alla grossa: nel popolare, là il dato fisico (mortificante) e il decadimento cognitivo sono commedia. Lo indicano perfettamente alcuni passaggi dal romanzo di Marone giocati sul grottesco di un corpo brutto e vecchio:
È giunto il momento di alzarsi. Vado in bagno. Non dovrei dirlo, ma sono vecchio e faccio quel che mi pare. Insomma, io urino seduto, come le donne. E non perché le gambe non mi reggano, ma perché altrimenti col mio idrante innaffierei anche le mattonelle di fronte. C’è poco da fare, quel coso dopo una certa età inizia ad avere vita propria (La tentazione di essere felici, p.11)
Seduto sul letto, con la pancetta adagiata sul pube, le braccia flaccide, i pettorali che assomigliano alle orecchie di un cocker e i peli bianchi sul torace, mi faccio schifo. Sì, proprio schifo […] “Forse è il caso di togliere lo specchio” commenta. “Sì” ribatto, “mi sa di sì”. (La tentazione di essere felici, p.32)
La salute di Aldo Busi
La tematizzazione fisica, quella che viene definita painful self-disclosure è quindi più statisticamente presente nei libri, anche se sono rari i casi che conciliano popolarità e bellezza. Aldo Busi è un felice esempio con il suo auto-biografismo (che non si esaurisce nella coincidenza onomastica). Se sfogliassimo il suo ipotetico Meridiano vedremmo un’opera tutta incentrata sul corpo: prima trasfigurato nel giovanissimo Barbino di Seminario sulla gioventù, in Angelo Bazarovi di Vita standard, nell’uomo di Sodomie in corpo 11, fino al settantenne de Le consapevolezze ultime. In questo percorso che dura da quasi quarant’anni emergono chiaramente due elementi che ci interessano: il primo è la perdita di contatto con l’attualità a cui non fa più da contraltare la curiosità per il nuovo, quell’adattabilità che ha consentito a Barbino non solo di sopravvivere, ma di diventare l’agiato personaggio pubblico d’oggi. E con la curiosità anche il corpo arretra a semplice pretesto per dare ritmo e scansione al testo; come se le intemperanze corporali fossero il sipario tra un atto e l’altro. Ecco com’è fatto il dito che indica la luna della vecchiaia:
con tutte le precipitose fughe in bagno perché alla mia età la vescica, come la capacità di sopportazione, ormai è quel che è, e anche questa rientra nelle mie consapevolezze ultime che prima, quando lo stimolo alla minzione era normale come la pazienza di cui ero capace pur nell’irruenza dell’età, non avevo, non solo perché non ne avevo bisogno ma perché non volevo rassegnarmi a metterle talmente in conto da anticiparle anticipando le cose che le suscitano; parafrasando un famoso santo dalla gioventù lussuriosa, non avevo niente contro la temperanza, la prudenza, la continenza, la sobrietà, la riservatezza, l’equilibrio, la discrezione e la morte stessa, ma non subito (Le consapevolezze ultime, p. 5).