studio & analisi critica
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Shelley Jackson: morte, pelle e parole.

di Antonia Caruso

«Mi hanno scritto chiedendomi: se due Parole si dovessero incontrare, innamorare e avere un bebè, la prole sarebbe una nota a piè di pagina?»1

Shelley Jackson è forse un’autrice più interessante da esplorare che da leggere, ed è quasi del tutto inedita in traduzione italiana. (Non che le due cose siano correlate).
È un’autrice bizzarra, che gioca continuamente sullo scarto tra testo e supporto, dove le parole scritte possono avere la stessa immaterialità della lingua parlata, i supporti possono disfarsi e soprattutto morire. Skin è il suo progetto più famoso (famoso in termini di super nicchia, quindi relativamente famoso). Jackson lo definisce “a mortal piece of art”, un’“opera d’arte mortale”. Non perché letale, ma perché morente e perché letteralmente scritto sui corpi mortali e umani. 2095 volontarie e volontari da tutto il mondo si sono messi a disposizione per tatuarsi, senza possibilità di sceglierne l’oggetto, una singola parola che faceva parte di un racconto scritto da Jackson.
Ai volontari e volontarie poteva capitare un sostantivo o un avverbio o un verbo. Inizialmente poteva anche essere solo una virgola, poi i segni di interpunzione sono stati gentilmente uniti a una parola. Una delle regole era di non tatuarsi la parola che indicasse una parte del corpo su quella specifica parte del corpo. A parte “skin”, perché non può esistere un tatuaggio senza che coinvolga della pelle.
L’autrice aveva anche immaginato un progetto fotografico dei ritratti delle Parole, il nome con in quale sono chiamate le persone che hanno partecipato a Skin. L’ordine è quello delle parole del racconto, ma delle Parole verrebbero mostrati solo i volti, non i tatuaggi che compongono il racconto. Solo chi ha partecipato ha avuto l’esclusiva di poter leggere per intero il racconto. Una fruizione privata, solo per i partecipanti, per un progetto organizzato pubblicamente. In questo caso sembra più la particolarità dell’operazione che il testo in sé a colpire.

Questa versione breve e pubblica di Skin comprende solo 895 Parole e non è detto che resisterà sui server più di quanto resisteranno in vita le Parole (scrivere delle “Parole” fa sentire anche me in una utopia letteraria, dove gli umani sono piccoli elementi funzionali a qualcosa di collettivamente creativo e di ordine superiore. Le Parole sono piccoli movimenti di una coreografia nascosta).

«Mentre le Parole si muovono nel mondo Skin non smette mai di autoremixarsi, la mia storia originale è solo una delle innumerevoli storie che racconta. Il video che ho montato racconta una di queste storie, potrebbe anche essere interessante dare la possibilità ad altre persone di assemblare le proprie storie partendo dallo stesso materiale di partenza».
Una strategia creativa combinatoria che probabilmente funzionerebbe anche senza tatuarsi addosso una parola a caso, usando solo un fogliettino puntato sul petto.
In Skin e soprattutto nel video, dove ogni singola frase è un mostro fonetico, si vede già tutta la passione bricoleur per Frankenstein che Jackson aveva esplorato in Patchwork Girl. Una narrazione ipertestuale non cronologica disponibile solamente su CD-ROM e USB.

Jackson ci tiene sempre a trovare nuovi supporti, come ad esempio la neve: ogni parola è scritta nella neve, fotografata e caricata su un account Instagram. La neve che racconta la neve. Forse il racconto più animista di sempre.
La premessa di Patchwork Girl è questa: e se Frankenstein raccontasse dei fatti realmente accaduti dove Mary Shelley stessa ha creato il mostro di Frankenstein che era anch’esso una donna che si innamora dell’autrice?
Come dire: e se un testo si innamorasse dell’autrice? E se poi un testo vivente assistesse al funerale della propria autrice, (sempre a proposito delle Parole): «La maggior parte delle Parole ha tra i 25 e i 30 anni, probabilmente morirò io molto prima di loro. Forse manderò a ognuno di loro una boccetta con le mie ceneri. Riuscite a immaginare se venissero al mio funerale – parole che piangono la propria autrice?»3

timothy-l-brock-1128491-unsplash

In questo modo si crea un rapporto di mutua assistenza funeraria: «Quando le Parole moriranno la storia cambierà; quando l’ultima parola morirà anche la storia sarà completamente morta. L’autrice farà in modo di essere presente al funerale delle sue Parole.»4
Testo sul corpo, corpo del testo, corpus d’analisi. La pelle animale è stata uno dei supporti per la scrittura e per secoli la rilegatura in marocchino – pelle caprina – è stata preziosissima.
Il corpo spezzettato e ricomposto è anche l’oggetto ipertestuale autobiografico di My Body – a Wunderkammer. L’idea del corpo frammentato è anche l’idea portante dell’unico libro tradotto (da Martina Testa) in italiano, la raccolta di racconti La melanconia del corpo, purtroppo fuori catalogo. Edito da minimum fax che aveva già incluso un suo racconto in Burned children of America dove compare il suo ex marito (non dico chi è per non farla diventare l’ex moglie di), che firma anche il blurb di quarta dell’antologia dell’ex moglie. Credo si vogliano ancora bene, d’altronde Shelley Jackson sembra una persona veramente adorabile. Genere della raccolta: fantastico anatomico.
Frammenti di corpo – capelli, spermatozoi, nervi, feti, cancri, catarri – che prendono vita, hanno comportamenti animali, autonomi. Oggetti sui quali non abbiamo il controllo. L’implicito invito è quello di togliere l’io dal corpo. Scorporarci – letteralmente – lasciarci andare alle possibilità della corporeità immaginaria ma non scientificamente plausibile.
Non consiglierei questa raccolta come un libro da divorare tutto insieme, nonostante Jackson dichiari che «se il consumare è un tema particolarmente forte nei miei racconti è perché ingerire e essere ingeriti letteralizza questa metafora dell’attraversare un confine fra sé e l’altro. Quel che mangiamo diventa noi. Quel che ci mangia, diventiamo.» 
Il meccanismo del frammento che prende vita e succedono cose bizzarre (come il feto galleggiante che «apprezza l’eleganza dei gesti di cavalleria all’antica e si aspetta di essere ringraziato quando li compie») alla lunga e senza trame molto solide risulta spesso ripetitivo (almeno per me).
Credo che si possa considerare l’opera di Jackson un’alternativa onirica alle bavosità organiche del fin troppo presente Cronenberg nelle immaginazioni semi-mostruose sul corpo. La melanconia del corpo se non è un libro da binge-reading è però un libro da spizzicare ogni tanto, da tenere sul vassoio che tenete sul letto da mesi insieme a quella tazzina sporca e a mille briciole putride. Poi c’è anche Libro liturgico della Chiesa della Parola, o Chiesa della Lettera Morta, tradotto da Giulio D’Antona sulla rivista «Cadillac». Uno scritto più che un racconto, un’articolata trattazione di una inventata liturgia della Parola (“liturgia” e “parola” le avete già sentite nella stessa frase ma mai così), trascritta dalla Fondatrice dopo un viaggio «nel regno dei morti (o, come lo chiamerebbe lei, Terra delle Bocche)» e dopo aver trovato, al risveglio, una parola sul cuscino.
La Fondatrice compila un dettagliato manuale liturgico dove la bocca crea, distrugge, sussurra, vomita, balbetta e dove «ogni tanto un allievo muore durante gli esercizi. […] A prescindere dalla causa di morte, il ragazzo (anche il più cattivo e infido) deve essere restituito al Vocabolario con tutte le cerimonie del caso. Un tappo di sughero deve essere inserito nella gola del morto e la bocca attentamente riempita di inchiostro. Una piuma d’oca va poi intinta nell’inchiostro e utilizzata per scrivere il nome del ragazzo su un foglio bianco. Dopo aver restituito la penna alla bocca, il foglio va piegato a forma di aeroplanino e mostrato ai congregati che risponderanno scrivendo i propri nomi sui propri fogli di carta. Vengono distribuiti alcuni cerini. Trecento aeroplanini di carta che bruciano in volo danno vita, statene certi, a una scena molto bella.» (p. 43)
Jackson riunisce molti dei suoi temi: scrittura, parole, morte, oralità. «La terra dei morti è fatta di linguaggio […] ogni volta che apriamo bocca creiamo un mondo.» (p. 23)
Jackson ha scritto molto altro. Un ipertesto sulle bambole insieme alla sorella. Un romanzo su due gemelli siamesi, Half-Life e col suo ultimo libro Riddance: Or: The Sybil Joines Vocational School for Ghost Speakers & Hearing-Mouth Children Jackson ha voluto spostare l’attenzione dal testo scritto all’oralità, in questo caso balbuziente, ancora una volta parole imperfette.
Tutto molto onirico, molto anatomicamente controverso e avventuroso, con la speranza di non dover aspettare la morte di Shelley Jackson e di tutte le sue parole per poter leggere altro in italiano.

«People have written to me saying that if two Words met, fell in love and had a baby, would that offspring be a footnote?», da Why this new brand of fiction is a life sentence, di Joanna Walters, «The Guardian» [t.d.a.].

«Skin is ceaselessly remixing itself as its words wander around the world, and in a sense my original story is only one of countless stories that it tells. The video I’ve put together is one way of gesturing toward that, but it would also be interesting to open up a space for other people to assemble their own stories out of the same material», da Shelley Jackson’s Skin Project 2.0 [t.d.a.].

«Most of my Words are in their mid- to late twenties so I will probably die before a lot of them. Maybe I will send everyone a vial of my ashes. Can you imagine if they turned up to my funeral – an author mourned by her words?», da Why this new brand of fiction is a life sentence, di Joanna Walters, «The Guardian» [t.d.a.]

4  «As words die the story will change; when the last word dies the story will also have died. The author will make every effort to attend the funerals of her words.» [t.d.a.]

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