Dopo aver letto Il mio anno di riposo e oblio ho ascoltato diverse interviste ad Ottessa Moshfegh e ho cercato la sua voce negli articoli pubblicati in giro, quella voce che è la cifra della potenza della sua scrittura. In un’articolo dello scorso marzo uscito sul Guardian, Moshfegh dice:
Spesso rifiutiamo di riconoscere la bruttezza in noi stessi e nel mondo, per vergogna, o vanità.
Lo dice parlando di un autore che considera un suo punto di riferimento: Bret Easton Ellis. American Psycho, per Moshfegh, è il libro che ha stabilito la misura del confine, o meglio dell’assenza di confine dove avrebbe potuto spingere i suoi personaggi e la sua storia. Nel suo romanzo infatti ritroviamo una certa atmosfera rarefatta e pesante insieme, l’accordatura delle voci su quello che si può dire e quello che forse no, ma si può dire lo stesso. E una New York che vediamo senza vederla veramente mai, chiusi nel confino in casa con la narratrice e uscendo solo in rare occasioni: il caffè, la psichiatra, la farmacia, un funerale.
C’è un’altra storia, però, che ho ritrovato tra le pagine del libro di Moshfegh. Una storia di reclusione, di differenza, di rifiuto. Anche questa ambientata a New York, nello specifico a Wall Street: Bartleby lo scrivano, di Herman Melville.
New York
Il mio anno di riposo e oblio è un romanzo in cui succedono poche cose, quasi nulla, e le cose che succedono riescono tuttavia a riempire le pagine con laghi di dolore, amarezza, momenti esilaranti, sconcerto diffuso, e vergogna, quel senso sordo di vergogna che si prova quando leggi e ti ritrovi nella forma di un personaggio spregevole o, magari, solo pietoso. La narratrice senza nome è una ragazza bellissima, bionda, ricca, che vive nell’Upper-East Side, e che decide di lasciare il suo lavoro in una galleria d’arte di Chelsea e prendersi un anno di pausa dal mondo per dormire. Un progetto di ibernazione momentanea, nella speranza che al suo risveglio la vita le possa sembrare meno invivibile. Siamo nel 2000, la mancanza di azione “produttiva” si contrappone a una società rampante, guizzante di colori luccicanti, abiti haute couture, vernissage, feste, completi intimi di Victoria’s Secret, una New York ancora libera dal peso della tragedia, che però si sente che aleggia, sospesa, nelle pagine, e permea non tanto il racconto quanto la lettura del racconto. Un patto tacito con chi è in ascolto, e sa che se una storia comincia nel giugno del 2000 e si protrarrà per l’anno successivo, quella storia andrà a finire in un posto molto preciso, tra l’angoscia, lo stupore, l’ammutimento dopo il quale nessuna narrazione di quelle strade potrà mai più essere la stessa.
“Non ci sono terremoti a New York” dice la narratrice a un certo punto, e una coltre cupa crolla sulla lettura. Questo passaggio assume, più avanti, le forme di una mise en abyme quando Reva, l’amica della protagonista, ci annuncia che verrà trasferita alle Twin Towers. Non si può citare quel luogo senza evocare il fantasma di ciò che accadrà. “Ho sempre voluto lavorarci”, dice Reva, “è così tranquillo lì” – ed è impossibile non cogliere l’humor nero di questa frase, senza però sentirsi male per averlo colto.
La New York di Moshfegh è la stessa di Bartleby, una storia di Wall Street, come recita il sottotitolo. Lo scrivano di Melville, che si manifesta all’improvviso alle porte dello studio di un avvocato e, dopo essere stato assunto, man mano, smette di lavorare senza però lasciare lo spazio che occupa, sembra essere riscritto in forma contemporanea nella storia della nostra narratrice. A partire dallo spazio. Con un secolo e mezzo quasi di distanza l’una dall’altra, le due versioni della città, o meglio, di quel poco che ci viene detto, si somigliano molto. Broadway brulicante di vita, la gioia e la vivacità di chi partecipa al gioco sociale si contrappongono nel racconto di Melville al silenzio di Wall Street, “deserta come Petra”. Bartleby vive la sua miseria al riparo dall’operosità e dalla vita della città, rinchiuso in un edificio che “di notte rimanda l’eco del nulla”.
New York esce fuori dalle pagine della Storia e delle storie come luogo in cui esisteva la leggerezza assoluta, l’operosità assidua, la superficialità splendente che non doveva chiedere scusa di nulla, mai. Una città di cui la protagonista del romanzo di Moshfegh è l’emblema, con la sua perfezione stupefacente, da copertina, e che però rifiuta, chiudendosi e diluendosi in una pozza di medicinali, qualunque cosa pur di dormire.

foto di Daryan Shamkhali
Resistenze passive
“Oh, dormire. Nient’altro poteva darmi altrettanto piacere, libertà, il piacere di muovermi e pensare e immaginare, al sicuro dalle miserie della mia coscienza da sveglia.”
La dimensione in cui si muove la narratrice è una dimensione di rifiuto, di chiusura. In una società in cui il consumismo era al suo apice, oltretutto privo della connotazione immorale con cui lo viviamo oggi, lei si rifiuta di consumare. La sua è una forma di resistenza passiva, di chiusura da quel mondo a cui sembra appartenere senza sforzo, che però non esercita su di lei il richiamo delle sirene che esercita su chi non è dentro.
Non si può parlare di resistenza passiva al sistema dominante senza citare Bartleby, il racconto che ha dato una lingua precisa a questa resistenza. Il “preferirei di no” dello scrivano echeggia tra le pagine del romanzo di Moshfegh. Non umano, fantasma, Bartleby si ribella silenziosamente, passivamente, mettendo in discussione le richieste che gli vengono mosse, richieste elaborate “sulla base dell’uso e del senso comune”, quello stesso uso e senso comune che vorrebbe che la narratrice vivesse con entusiasmo e vivacità di consumi il proprio privilegio di classe. Entrambi hanno scelta, potrebbero non opporsi, potrebbero partecipare al meccanismo su cui opera il sistema. Entrambi preferiscono di no.
Il romanzo di Moshfegh è una storia di reclusione, di mura di casa e porte chiuse a chiave, telefoni impacchettati nelle scatole per essere disinnescati dal loro potere di trait d’union con il resto del mondo. Le mura di casa sono emblema della condizione umana, separano, chiudono, dividono, fortificano, proteggono, portatrici di quell’interrogativo atavico: un muro chiude dentro o chiude fuori? In questo senso di inettitudine alla vita, dormire, per la narratrice, diventa la cosa più produttiva da fare:
“Finalmente stavo facendo qualcosa che aveva davvero senso. Dormire mi sembrava produttivo, come se qualcosa venisse risolto.”
E così, chiusa in casa, guarda film poco impegnativi e ingoia una quantità catastroficamente enorme di farmaci, Ambien, ibuprofene, sciroppo antibiotico e ipnotici immaginari. Man mano che ascoltiamo la sua voce affannarsi nella ricerca farmacologica certosina per indurre un sonno ininterrotto, scopriamo il racconto della sua storia, dell’infanzia trascorsa tra le mura di una casa ricca, con genitori distanti e anaffettivi, e scopriamo che sin da bambina aveva operato una ribellione silenziosa: “Volevo le attenzioni, certo, ma non volevo abbassarmi a chiederle. Mi ribellavo in silenzio, con i pensieri. […] Avevo imparato a galleggiare su affetti superficiali racimolati dalle insicurezze altrui.” Insicurezze come quelle di Reva, una voce che sembra talmente uscita da dieci sit-com mischiate insieme da risultare, paradossalmente, credibile, esilarante e tragica nello stesso tempo. Viene dalla provincia, da Farmingdale, cittadina “squallida”, lame la definisce la narratrice, e fa di tutto per essere parte di quella sfera sociale glamour e vincente. “Vedeva la mia lotta con l’infelicità come una crudele parodia delle sue stesse sfortune”. Bulimica, ossessionata dall’apparenza, dai libri self-help, in costante auto-costruzione aspirazionale, Reva è la controparte della nostra protagonista, nella sua ricerca della scalata sociale. La conosciamo attraverso i commenti piuttosto spregevoli della voce narrante, a cui però non riusciamo a fare a meno di sentirci vicini, seppure destabilizzati dalla sua totale mancanza di empatia. È forse una delle voci più egoiste ed ego centrate mai sentite, eppure le lasciamo dire tutto, ci affascina. Forse perché è così bella da suscitare quella fascinazione spaventosa che suscitano i mostri.

foto di Roberto Junior
Il mostro
La sua bellezza è la sua chiave di ingresso nel mondo, ed è anche il motivo per cui non potrà mai essere null’altro che questo, bellissima. Lo sguardo di Trevor, ex fidanzato vagamente sociopatico, la cui cosa preferita è infilare il pene nella bocca della protagonista mentre lei finge di dormire, che le dice che il suo aspetto è il suo “tallone d’Achille”, è anche un po’ lo sguardo di chi legge. È una bellezza talmente universale e perfetta da risultare mostruosa. “Il corpo straordinario è un elemento fondamentale della maniera in cui concepiamo il corpo ordinario.” scrive Rosemary Garland Thompson. Rappresenta il confine tra normalità e anormalità, e in un certo senso il corpo della protagonista, incarnando tutta la norma possibile, ne esce fuori, risultando anormale, sovra-normativo. L’accento sulla sua bellezza è richiamato costantemente da Reva, ma anche dal suo stesso sguardo allo specchio. Non abbiamo una descrizione accurata, somiglia ora a Charlize Theron, ora ad Amber Valletta, ma è proprio quest’inaccuratezza a renderla ancora più sconcertante. Sublime, nel senso preciso e originario del termine. Il suo confinamento in casa è l’emblema della sua mostruosità: i mostri sono creature di confine da sempre, il mostro più classico e antico della letteratura anglosassone, Grendel, è merc-strapa, colui che vaga per i confini (Beowulf).
Ed è ai confini, sulla soglia, che Bartleby fa la sua prima apparizione nel racconto di Melville. Un motionless young man, un giovane immobile, che compare all’improvviso alla porta dell’ufficio, per poi collocarsi in uno spazio di confine tra lo studio dell’avvocato e la parte dedicata ai suoi collaboratori. È un personaggio ai margini, recluso dietro un muro o un paravento, così come la nostra narratrice è chiusa in casa. Non lo vediamo mai in strada, all’aperto, sempre in prossimità di un interno. È una sorta di fantasma che infesta il palazzo e non vuole andar via. Neanche Bartleby consuma, anche il suo corpo magro, indescrivibile se non con una terminologia vaga, anche qui, inaccurata, che si muove ai margini, è mostruosamente fuori dai bisogni corporei di tutti. Bartleby non mangia, ed è in un certo senso, come la narratrice, un emblema di dolore universale, invisibile e permanente, un dolore che non trova motivazioni comprensibili all’interno dei meccanismi abituali di significazione che applichiamo alla realtà. Il dolore dell’alieno, del depresso, la sensazione di essere walling out, murato fuori.
Il postmoderno
Si sente l’eco del postmodernismo che riverbera tra le pagine del romanzo di Moshfegh, nei personaggi, nei dialoghi, nell’assenza di una trama lineare precisa, nella rappresentazione spietata di alcuni aspetti della società, nei glitter rosa ovunque qua e là, che non possono non richiamare alla mente quelle famose diamond dust shoes di Warhol, iconica immagine del postmodernismo (copertina di Postmodernismo, ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, di Fredric Jameson, traduzione di Massimiliano Manganelli, Fazi editore).
La rottura della sacralità dell’arte è amplificata ed esplicitata dai commenti della narratrice, che affianca quel mondo allo stock market, un riflesso del capitalismo invischiante fatto di avidità, gossip, speculazioni e cocaina, dove il valore e la qualità del lavoro artistico non sono più legati all’idea del rituale umano ma al potere d’acquisto di un manipolo di ricchi che provano a “elevare” il proprio capitale culturale. Questo tentativo di elevazione e riempimento di senso lo troviamo anche nell’opera di Ping Xi, giovane artista di successo con dei brufoli tatuati sul mento (la performance dell’adolescenza forse?), che si masturba sulla tela eiaculando glitter e imbalsama cani infilando loro delle luci rosse negli occhi. Ping Xi viene eletto a “custode” del sonno della protagonista e prova a dare (o meglio, a estrapolare) un valore artistico alla sua ibernazione. Vuole incastrare la sua “azione” nelle categorie di identità, società, istituzioni. Ma la narratrice è molto lucida nella definizione di quello che le accade, la sua è una “quest for a new spirit”, la ricerca di un nuovo spirito, di rinascita nell’approccio al suo privilegio, e non di cambiamento di stato: “Sono nata nel privilegio e non lo voglio sprecare, non sono un’idiota.”
Questa fuga da una significazione univoca è il centro del racconto di Melville. Non esiste racconto più fuggevole all’interpretazione lineare della storia di Bartleby, tant’è che di lui è stato scritto tutto e il contrario di tutto. Bartleby è un impiegatuccio, una figura cristologica, uno spettro, l’incarnazione della disobbedienza civile di Thoreau, lo scrittore, l’artista, l’alieno. Tutte le interpretazioni sono plausibili, tutte valide. Anche Bartleby lo scrivano, a suo modo anzitempo, è un racconto postmoderno, con la sua angoscia intrinseca dissonante con la distanza ironica con cui osserviamo lo scrivano dal punto di vista del compiaciuto avvocato, i cui sentimenti contrastanti di pena e ribrezzo sono i sentimenti umani con cui si osserva la miseria: “quando la pietà non si traduce in un efficace soccorso, il senso comune impone all’animo di sbarazzarsene.”
Come sostiene Ping Xi, che fornisce una lettura critica del romanzo di Moshfegh interna al romanzo stesso: “Siamo tutti addormentati, indottrinati da un sistema che se ne sbatte di chi siamo veramente.” Un sistema che non vuol vedere i suoi “mostri”, e preferisce rimandare, ignorare, dimenticare, assecondare.
La resistenza di Bartleby, come quella della narratrice di Il mio anno di riposo e oblio, è una resistenza al sistema precostituito, sistema che è riluttante ad affrontarla e procrastina costantemente. A un certo punto la sua lingua permea l’ufficio, tutti cominciano a “preferire” qualcosa, e abbiamo la sensazione che il rifiuto di Bartleby possa diventare contagioso. Ma non succede. I mostri sono fatti per essere riportati nei confini, chiusi dietro i paraventi e le mura di mattoni, che si tratti di mura reali o di tutti i limiti precostituiti che ci disegniamo intorno, quei limiti che ci consentono di vivere un’esistenza socialmente accettata.