Parasite (Gisaengchung), di Bong Joon-Ho (Palma D’Oro 2019)
(visto da Chiara M. Coscia)
Bong Joon-Ho era già uno degli artisti più interessanti al mondo già dieci anni fa, quando ha girato il suo segmento di Tokyo! – film collettivo (con Michel Gondry e Leos Carax) che mette insieme tre sguardi diversi sulla capitale giapponese di tre registi non giapponesi – raccontando il micromondo di un hikikomori e lo sconvolgimento che gli prende a contatto con l’esterno: 30 minuti scarsi di rapimento totale. Oggi, dopo aver vinto la Palma D’oro al Festival di Cannes, è addirittura candidato agli Oscar, e in odor di vittoria, con un film che è per certi aspetti un volume di arte cinematografica esposta in tutta la sua potenza.
Parasite non è solo la storia di una guerra tra poveri nel tentativo di accaparrarsi una fetta di ricchezza. Non è solo il racconto di un’impossibile scalata sociale impedita all’origine, dal principio, mostrata in tutta la sua bugia. Non è solo la rassegnazione di come, in fin dei conti, l’intelligenza, la sapienza e l’ingegno non bastano a chi vive più in basso della pavimentazione della città – così in basso che quando piove le fogne riempiono letteralmente le case, mentre in cima alla collina le siepi alte fanno da catena montuosa protettrice, mitigando la tempesta e trasformandola in uno spettacolo naturale lussureggiante. Parasite racconta la spinta umana alla rivoluzione, al cambiamento, che si scontra con l’altra spinta, quella dello stanziamento, della conservazione. Quella che vediamo è una doppia forma di abitazione, di colonizzazione: da una parte la governante integrata, che si tramanda con la casa, come se fosse la casa stessa e la sua potenza simbolica a ribellarsi agli intrusi, dall’altra la famiglia Kim, che si aggrappa alla speranza di una pietra portafortuna (pietra che, negli infiniti rimandi a Hitchcock di questo film, sappiamo che vedremo sparare prima della fine), che non smette di provare a salire quella scala, a entrare di diritto in quelle stanze, a occupare quel giardino che non può essere loro per pura casualità.
Perché cosa c’è di più casuale della nascita?
A Jimmy Fallon che lo intervista, Bong Joon-Ho dice: “They are all very human, it’s just a funny and scary movie.” In queste due battute c’è la potenza archetipica di Parasite, una storia umana che si spagina in strati. I generi si mescolano e si svelano uno dopo l’altro: la commedia, la satira, il thriller, l’horror, il dramma, in un montaggio che è una sinfonia di immagini che si srotolano. Bong Joon-Ho mostra una sapienza certosina nella gestione di tutte le lingue possibili in cui raccontare una storia che è insieme una storia del suo paese e di tutti i paesi.
Un film ambientato in Corea che finisce per essere un sunto delle contraddizioni dolorose del capitalismo occidentale.
Marriage Story, di Noah Baumbach
(visto da Francesca de Lena)
Se di una narrazione si accetta il realismo, si accettano anche le cose più banali del realismo, quelle talmente vicine alla “vita vera” che nella trasposizione propria della finzione appaiono meno credibili, più forzate, o almeno poco intelligenti, poco sofisticate, imperfette: di Marriage Story bisogna accettare i personaggi-avvocati-divorzisti, disegnati in modo (che a Fitzgerald non piaceva: “non fate dei vostri personaggi dei tipi“) che siano i (tipici?) squali iper-costosi cinici e spregiudicati avvocati divorzisti statunitensi, nel merito una Laura Dern candidata all’Oscar forse un po’ troppo stereotipicamente cazzuta, che non si risparmia in battute abusate, descrivendo gli uomini come quelli che “all’inizio ci coprono di attenzioni e poi una volta che arrivano i bambini, che diventiamo madri, si stancano di noi”.
Il realismo però è quello spazio in cui puoi accomodarti sapendo che assisterai a una storia molto semplice, molto lineare, classica, in cui non dovrai fare nessuno sforzo intellettivo, e ne uscirai distrutto. Impossibile non piangere dei momenti di cui è costruito il film: forse non originali, ma sempre portatori di uno scarto, di una chiave inaspettata, che li rende piccole splendide fratture:
- le voci fuori campo dei due protagonisti, che recitano la lista dei pregi l’uno dell’altra, mentre la camera mostra i bei momenti familiari: nulla di inaspettato se non fosse che quel racconto è l’inizio della burocrazia del divorzio: il compito assegnato dal mediatore familiare.
- i suoni che accompagnano il monologo in cui Nicole racconta l’inizio e la fine dell’amore: naso soffiato, biscotti sgranocchiati, lingua che pulisce i denti. Suoni di un realismo a cui non siamo abituati, e che quindi li amplifica, rendendoli inaspettatamente intimi.
- i momenti inutilmente romantici in cui i due ex indugiano a guardarsi l’un l’altro, come durante la chiusura di un cancello che infine li separa: inutilmente perché non promettono alcuna ricomposizione, che infatti non ci sarà, eppure ce la fanno desiderare come se fossimo dei bambini – come ci capita di fare a volte nella realtà – e per questo più che romantici: romanticissimi.
- Il crollo di Charlie al termine di un litigio esplosivo e ipnotico, urlato non perché sia la norma tra i due, come lo è alle volte nei film mediocri, ma anzi proprio in chiusura di cattiverie trattenute, e che si conclude comunque con un I’m sorry.
E poi dettagli, scelte precise, sottolineature, ancora una volta realistiche: la troupe del film di Nicole che la scorta nel camerino camminando all’unisono come in una marcia: un tipico movimento teatrale, nel momento che segna il definitivo addio al teatro di Nicole; l’assistente sociale con la faccia più ottusa che si possa immaginare, Charlie che soffia nel microfono quando canta, che si taglia e si ricopre di un sangue che sembra eccessivo (il sangue che non ti aspetti quando ti tagli), che sorprende la sua amata suocera giocare con il nuovo fidanzato di Nicole.
La vita è quella cosa che può capitare a tutti e Marriage Story ci ricorda che quella di Charlie e Nicole, magnificamente interpretati da un Adam Driver e una Scarlett Johansson davvero da Oscar, è, potrebbe essere o sarà la storia di ognuno di noi.
1917, di Sam Mendes
(visto da Primavera Contu)
Sono andata a vedere 1917 senza saperne nulla e senza aspettative. Sapevo solo ciò che il titolo può facilmente suggerire, cioè che si trattava di un film ambientato durante la Grande Guerra (la meno battuta, tra le due guerre mondiali, in termini di rappresentazione made in USA), e che ci avrei trovato le due star della serie inglese Sherlock, Benedict Cumberbatch e Andrew Scott (l’amato “Hot Priest” di Fleabag). E già qui la prima sorpresa: i due attori compaiono sullo schermo per pochi minuti, uno all’inizio e l’altro alla fine. Non li vediamo mai insieme, come forse ci aspetteremmo; vediamo, invece, per tutta la durata del film, il viso e il corpo instancabile di George MacKay, attore britannico dalla presenza magnetica. Tutto appare come se fosse girato in un unico take (pardon, due unici take): questo ci incolla allo schermo, ci tiene vicini ai personaggi e non ci permette un solo respiro, almeno fino alla fine del primo atto. Siamo lì, in tempo reale, a inseguire una deadline insieme al protagonista: qualcosa di più urgente della guerra in sé, quasi una missione a sé stante, spinge l’azione avanti.
Il plot è semplice: due soldati inglesi ricevono l’ordine di portare una lettera al generale di un plotone che sta per essere annientato dalle truppe tedesche, ma per arrivare a destinazione devono attraversare le linee nemiche. Un uomo di cui non sappiamo quasi nulla deve raggiungere un obiettivo e il suo continuo scampare alla morte durante la sua corsa sembra quasi accidentale: siamo costretti a tifare per lui mentre stiamo in apnea. Cos’altro potremmo fare?
C’è un momento, verso la fine del secondo atto, in cui ci è concesso di riprendere fiato. Fiato che viene spezzato dalla commozione immediata: è un pianto che non ha nulla di melodrammatico, che non funziona come reazione speculare a ciò che i protagonisti fanno. È il pianto di chi si ferma dopo una maratona, di chi trova un fiore dopo chilometri di terra arida, di chi ha passato troppo tempo da solo e viene investito da uno scorcio di comunità. È il bisogno (atavico) di un gesto collettivo e rituale.
1917 ha una fotografia che non ti aspetti in un film di guerra: c’è il verde smeraldo dei prati, ci sono i ciliegi in fiore, c’è una poesia visiva che riesce a fare capolino tra le macerie, senza fronzoli e senza sottolineature se non, forse, le espressioni di stupore negli occhi dei protagonisti. La sua velocità quasi non appartiene al genere, o forse ne è una perfetta evoluzione, poiché risponde alla domanda: “come raccontare la Prima Guerra Mondiale al un pubblico un secolo dopo?”. La perfezione tecnica è funzionale all’immersione (difficile non pensare al Dunkirk di Nolan): ci trascina dentro la storia, con un iper-realismo che evita la facile retorica. 1917 è un trionfo del “come” a scapito della mera materia trattata: emergono fortissimi i temi poiché non vi è enfasi sul racconto né tantomeno sui dialoghi.
Si entra in sala credendo di vedere un film di guerra e di strategia, si assiste alla potenza di un Mad Max, di un videoclip, a una storia umana semplice e disperata.
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