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Riletture dell’American Dream tra “Nomadland”, “Furore” e “The Walking Dead”.

“L’avvenimento in sé e per sé è del tutto irrilevante. Una certa cosa può essere accaduta, ed essere una totale menzogna; un’altra cosa può non essere accaduta, ed essere più vera della verità.” scrive Tim O’Brien in “Come raccontare una storia di guerra”. E in effetti, la manomissione narrativa della realtà è necessaria al suo resoconto veritiero, anche quando si tratta di eventi reali. Ecco perché anche un’inchiesta giornalistica è, prima di tutto, un racconto. Maggiore sarà la sua evocatività, la sua ricchezza di dettagli, la vitalità narrativa, la letterarietà, maggiore sarà la sua risonanza. Sta anche qui il successo di Nomadland, un racconto d’inchiesta, di Jessica Bruder, in Italia pubblicato da Edizioni Clichy nella traduzione di Giada Diano. Lo sappiamo già da quel titolo, tradotto egregiamente, perché nonostante salti il riferimento alla sopravvivenza del titolo originale (che pure è rilevante), ci troviamo di fronte all’immediata assunzione della verità di un genere: Nomadland è un racconto d’inchiesta.

Il racconto di inchiesta

Il giornalismo d’inchiesta negli USA ha una lunga e rigogliosa storia, costruita su narrazioni immersive dai toni avvincenti. Dai reportage narrativi su manifestazioni più o meno locali (tra le scritture recenti penso subito alla fiera dell’Illinois raccontata da David Foster Wallace, o al comizio di Trump visto attraverso lo sguardo di Dave Eggers) alle lunghe inchieste socioeconomiche degli ultimi anni, come Factory Man, di Beth Macy, i momenti di gloria del genere corrispondono spesso ad altrettanti fasi di dislocazione della coscienza collettiva e crisi sociale. La scrittura svolge così il duplice compito di rivitalizzazione degli animi e formalizzazione in un testo e in una dimensione narrativa. Un’operazione potente e, se ben fatta, di grande fascino. Jessica Bruder si inserisce, con la sua opera, in questo filone, con un’ampia passione e conoscenza delle sottoculture e con una penna scorrevole, dal tratto ampio, né condiscendente, né tantomeno giudicante. Dopo aver scritto un articolo su Harper’s, “The end of Retirement”, Bruder è partita per un viaggio lungo tre anni in cui ha raccolto il materiale con cui ha dato forma a Nomadland. Questo libro è un lungo reportage e racconto di viaggio che mostra gli aspetti più cupi della differenza di classe e dell’economia negli Stati Uniti, dove ogni giorno ci sono persone che si trovano di fronte alla scelta di vivere o pagare un affitto. Alcune di queste sono nomadi del terzo millennio, le cui storie rivelatrici ci mostrano l’orrore di un sistema disumanizzante, ma anche la bellezza di una comunità umana e solidale. Osservatrice laterale e attenta, mai cinica e lontanissima da ogni tentativo di romanticizzazione, Bruder è il punto di vista interno che guida il nostro sguardo in questa storia. 

Il libro, nel raccontare un fenomeno socioeconomico contemporaneo, si inserisce in una tradizione di racconti migratori che hanno costituito e raccontato l’impianto ideologico di base degli Stati Uniti. Vagabondi, diseredati, reietti, marginali. la storia dei bianchi poveri che, pur non essendo marginalizzati di partenza, lo diventano perché hanno “perso” al gioco dello standard, è una storia che si muove, come altre storie di margine, sulla diaspora: dai puritani alla corsa verso Ovest, dalla Grande Migrazione successiva alla Dust Bowl e alla Grande Depressione, ai lavoratori stagionali.

Prima di lei tante e tanti hanno usato il giornalismo, “madre della letteratura” come lo definisce John Steinbeck, per raccontare le storie umane del proprio presente. Lo stesso Steinbeck – la cui opera non-fiction non è nota ai più quanto la sua grandezza letteraria, nonostante le due cose siano inesorabilmente connesse. 

Prendiamo Furore, ad esempio, non a caso opera richiamata all’interno dell’inchiesta di Bruder per le somiglianze dei presupposti di base: in seguito a una crisi economica, la povera gente è costretta a mettersi in viaggio. Al di là del contenuto, Furore ha una forma che resta impressa: mette insieme una storia, quella della famiglia Joad, e la Storia, nei capitoli dispari, documentaristici, in una struttura ricercata da Steinbeck per fare da cassa di risonanza alle tematiche sociali che vediamo accadere, così da argomentare la rabbia collettiva. Quegli inter-capitoli, così brucianti e vivi da leggere nel 2021, sono il commento di Steinbeck a un’esperienza vissuta in prima persona. Lui stesso conobbe i protagonisti delle tragiche vicende che racconta nelle pagine di Furore, e secondo un articolo comparso su Prologue, la rivista dei National Archives (USA), molte di queste vicende sono realmente accadute, ma solo la trasformazione in fiction ne ha consentito la circolazione ampia sotto forma di romanzo. “La vera storia di guerra si riconosce dalle domande che fai. Mettiamo che qualcuno racconti una storia, e alla fine tu chieda: «È successo davvero?» e se la risposta è importante, hai saputo quel che volevi sapere”, scrive Tim O’Brien.

Questioni di forma: personaggi, coralità, spazio.

In Nomadland i protagonisti sono un coro di voci che l’autrice accorda tra loro in risonanze e contro canti: Linda May, Swankie, Bob Wells parlano, gesticolano, si muovono nello spazio seguendo clima, ideali, lavoro, come la famiglia Joad si muoveva alla ricerca di una nuova casa, verso quella California immaginata che compare come una rigogliosa oasi superato il deserto. In entrambe le narrazioni, l’antagonista – il cattivo – non è una persona. Il villain è il sistema economico strutturante del paese – sebbene, potremmo obiettare, quel sistema sussista sulle azioni quotidiane individuali. Le banche di cui echeggiano le pagine di Steinbeck, le corporations, sono fatte di persone, eppure le azioni individuali formano e si conformano in un superorganismo che si autoalimenta, che perdura, lasciando indietro molti, moltissimi. 

La maggior parte.

In questi due racconti esiste una voce narrante, anche lei protagonista del viaggio, da spettatrice o partecipante, che inserisce le singole storie in un’opera corale che diventa man mano spaccato sociale e commento al contemporaneo. In Furore, Steinbeck dà corpo a quella voce narrante in una rapsodia che si muove nell’osservazione onnisciente dei personaggi e della Storia, in Nomadland, Bruder racconta in prima persona partecipante, ponendo le domande giuste, e mostrandoci le risposte. Ma sono soprattutto le scelte lessicali a portare avanti un discorso molto preciso, una lingua comune con una storia lontana, parole come tribù, nomadi, migranti, erranti, diaspora

“Mentre scrivo, sono sparpagliati in tutto il Paese.”, l’incipit del libro di Bruder. “Le strade pullulavano di gente assetata di lavoro, pronta a tutto per il lavoro” scrive Steinbeck. Somiglianze fortissime, ma c’è un punto di evidente divergenza tra le due opere che solo a uno sguardo superficiale possono sembrare l’una la versione contemporanea dell’altra: “La gente è il posto dove vive. E la gente non è più intera se l’ammucchi in una macchina e la mandi da sola chissà dove.” leggiamo in Furore. Ecco, il distinguo: i migranti di Steinbeck sognano la casa, sognano il ripristino di una condizione interrotta dalla Grande Depressione e dalla Dust Bowl. I nomadi di Nomadland riscrivono questa narrazione nella loro testa, nella loro vita, nella loro “scelta”. Ci dicono (e si dicono) che non vogliono giocare a un gioco truccato. Vogliono scendere dal treno dell’ideologia dominante, non ci vogliono stare: 

Stanno sopravvivendo all’America. Ma per loro – come per chiunque – sopravvivere non basta. […] Essere umani significa agognare qualcosa in più della mera sussistenza. Abbiamo bisogno di speranza, tanto quanto ne abbiamo di cibo e riparo. E c’è speranza sulla strada. È un effetto collaterale dello slancio in avanti. Un senso di possibilità, vasto quanto il Paese stesso. Una convinzione radicata nel profondo che qualcosa di meglio arriverà.

Sembra che il desiderio di frontiera non possa abbandonare l’immaginario collettivo americano, quella frontiera che, dopo giri immensi, ritorna dove è nata, nella wilderness, nel deserto, nella vastità dello spazio. Non solo: il sogno della società dell’abbondanza sembra passarsela male, al suo posto ritorna il sogno dell’individuo libero, indipendente, e l’incubo del crollo economico, un incubo che potremmo definire post-apocalittico, sembra essersi trasformato nel racconto innescante del manifest destiny che guidò le prime traversate (le scoperte dell’America, come le racconta meravigliosamente Neil Gaiman in American Gods.)

Lo scetticismo nella reale esistenza dell’American Dream fuori dal mito è cresciuto con la creazione stessa di quel mito, senza dimenticare che l’origine di quel sogno era la fuga da un altro mondo, un vecchio mondo. Il deserto di Steinbeck è un ostacolo al percorso, ma anche un’anticipazione del deserto umano che viene successivamente nel racconto, in Nomadland ritorna a funzionare invece come enorme land of opportunity, laddove il mondo nuovo dà una nuova possibilità alle persone di essere diverse, migliori, di prima. 

Da un lato quindi c’è sempre stata la ricerca disperata della casa, dall’altro però se è lo spostamento, il rinnovamento, l’idea fondativa, come può esserci stanziamento senza sporcare quell’idea pura? 

Identità americana: la strada e la casa.

Lo spirito identitario americano oscilla da sempre fra due spazi mentali opposti: l’idea della frontiera, dell’esplorazione, della scoperta, della corsa verso ovest, che è sempre solitaria e sempre guidata dallo spirito di avventura, e l’idea stanziale della comunità utopica, della city upon a hill faro di speranza, del villaggio sicuro e prospero, luogo del bene e della visibilità della propria predestinazione. Le contraddizioni irrisolte di un paese dove libertà, fallimento e successo sono sempre individuali, un paese socialmente disgregante, eppure ricco di un’umanità capace di costruire tribù e ripercorrere quel sogno originario di un’alternativa, rimbalzano in questa tensione. I margini di quest’identità si sono inspessiti, si allargano e invadono anche i luoghi del sogno – suburbia cambia volto, le facciate scrostate, le case che si svuotano, le città in cui la gentrification si mescola a macchia d’olio con la povertà – e Bruder cattura tutte le sfumature. Non assistiamo a una cartografia millimetrica del coefficiente di povertà individuale, bensì vediamo come l’umanità trova il suo modo di perseguire un’alternativa. Una sorta di equilibrio di specie, di “evoluzione” (passatemi un termine quanto mai problematico, qui nella sola accezione di passaggio di stato) da un sogno all’altro. Quello, più che mai originario, dell’indipendenza assoluta, dell’autosufficienza, che si riconfigura diventando mutualistica, per far fronte al sistema che si sgretola e alle cittadine aziendali si svuotano – e mai nome fu più iconico di Empire, la factory town che chiude i battenti e sfratta le persone: l’Impero, che ti assicura un sogno, una casa, certezze di familiarità, vicinato, utopia suburbana, sicurezza economica, all’improvviso ti lascia solo, ti caccia via. Si rivela in tutta la sua bugia. 

Di reazione alla perdita del capitale economico e di status di cittadini interni allo standard, si costituisce una comunità reticolare di voci che si intrecciano. Come diceva Ma Joad in Furore, “Quando stai male o magari hai bisogno o sei nei guai… va’ dalla povera gente. Soltanto loro ti danno una mano… soltanto loro”.

Nomadi e pionieri, eroi solitari della frontiera che lasciano indietro l’immaginario del self-made man per rileggerlo in self-made community nella frontiera, i protagonisti di questo racconto sono una sorta di ritorno all’immaginario originario degli USA, amplificato. Per sopravvivere all’America, la speranza resta quella originaria dell’America stessa: la ricerca della libertà, laddove “L’ultimo luogo libero d’America è un parcheggio.” (Bruder).

Le apocalissi non sono tutte uguali, ma la risposta sembra sempre la stessa 

Furore comincia con il racconto di una terra devastata dalla tempesta, con l’immagine delle case divelte dal trattore. Le case e le strade vuote di Empire, in Nomadland, vengono paragonate a Le colline hanno gli occhi, film horror ambientato nel deserto mutato dagli esperimenti nucleari. Prima ho usato un termine, post-apocalittico, e non a caso. La narrazione delle esperienze di migrazione successiva al crollo e alla tragedia come quella di Steinbeck e di Bruder ha un che di post-apocalittico, si inserisce in un certo senso nel genere, forse ancora più che nel racconto on the road

C’è un filo che collega Nomadland a una serie come The Walking Dead

Quel filo è l’America stessa. Quel lessico di cui parlavamo, la tribù, i nomadi, gli erranti, la diaspora, quell’immaginario western di cui sembra impossibile non vedere le tracce, sono idee che pervadono le narrazioni americane dalle origini alla serie di Frank Darabont. 

Non a caso, The Walking Dead, man mano che procede nelle stagioni successive alla prima, sembra articolare la narrazione post-apocalittica in una sorta di dimensione utopica e primordiale. Perché è questo il segreto del successo delle narrazioni post-apocalittiche. L’incubo di un disastro che faccia tabula rasa oscilla tra l’agghiacciante e il liberatorio. 

Quello che si portano dietro tutti i sopravvissuti (ecco che ritorna la rilevanza del titolo originale di Nomadland) è un’idea di fallimento del sogno del benessere, della famiglia nucleare, della villetta con giardino. Ma questo sogno non è sempre stato solo questo, un mito assoluto? Resta, tra tutte le ricerche, quella ricerca della “libertà”, foss’anche in un parcheggio, che è diversa dalla libertà di spesa, di cui una casa rappresenta il sintomo, più che il simbolo. La libertà economica data dal lavoro, che è ancora vista come la libertà della casa, in Furore, la libertà dalla casa, dalle “quattro mura” dell’istanza imposta dalla società – lavoro, famiglia, mutuo, risparmi, debiti – in Nomadland.

La casa, in The Walking Dead, arriva tardi, dopo cinque stagioni trascorse in costante migrazione, e quella stessa casa diventa luogo di aggressioni, attacchi, è costantemente in pericolo, va costantemente difesa. A sopravvivere, nonostante tutto, è la famiglia, che non è biologica come la famiglia Joad, ma “logica”, come le famiglie costruitesi nel tempo in Nomadland. Un’affermazione definitiva della potenza della tribù e dei legami di parentela costruita, reticolare, di kinship, di cui parla anche Donna Haraway in Chtulucene

Nomadland è stato pubblicato nel 2017, oggi è più risonante che mai, e non solo per il film di Chloé Zhao candidato agli Oscar (tra l’altro, ottima trasposizione di non-fiction in fiction). La sua rilevanza è legata a quel senso di impermanenza che si è fatto strada nelle nostre vite nell’ultimo anno. La casa, dove stiamo, chiusi, dove releghiamo le nostre esistenze provando a contenere la minaccia del contatto-contagio, è passata da luogo di conforto e sicurezza a prigione. Guardare le strade e i paesaggi desertici, lo spazio, ma soprattutto guardare le comunità, ci pone domande profonde su cosa significhi essere umani, e se non è questo il compito della letteratura, non so davvero quale possa essere.

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