A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti e selezionati dalla classe di Apnea ’20/’21, ne sono infine stati scelti 13 per la pubblicazione.
Questo è il terzo, lo ha scritto Emanuela D’amore e ha richiesto un editing che lo aiutasse a svelarsi, ampliarsi, strutturarsi e chiarirsi, concretizzando la lingua e tendendo le immagini evocative verso un obiettivo, così da valorizzarle. L’editing è a cura della corsista di Apnea Allegra Fornaro con il supporto di Francesca de Lena, correzione a cura della redazione. Molto brava l’autrice a far proprio ogni suggerimento ricevuto.
Una vedova e le sue due figlie gemelle in un microcosmo familiare tutt’altro che rassicurante. La prospettiva straniante della voce narrante ci offre l’affresco vivido di una donna che affronta il lutto scivolando nella paranoia, al punto di credere che la maternità sia stata la sua maledizione.
di Emanuela D’amore
La Sicilia è una terra calda, si impasta nelle mani tra le spine dei suoi fichi d’india, il sale e il giallo degli agrumi. Io ero una donna del Sud, ma lui mi ha portato più a Sud e ha detto che tanto era uguale. Mi ha riempito la pancia e sono nate due bambine. La mia casa è fatta di pietre bianche. Stendo panni tutti i giorni, i gatti ci ballano intorno. Questo paese odora di pomodori scaldati.
La casa che avevo “più su” era marrone come pelle scottata dal sole che a tratti viene via. Non stendevo panni. Non crescevo bambine. Cantavo e mangiavo ciliegie. Tante. Mia nonna, seduta sulla porta, mi pettinava i capelli. La sua faccia era una mela rigata. E io le davo retta. Dicevano che ero bella e so che lo sono ancora. Non ho più seni acerbi o ossa che premono contro i fianchi, ma le mie cosce sono più calde e accomodanti e il sorriso più ampio. Canto ancora, a volte, quando il sole batte, chiude tutte le strade e attorno non c’è nessuno.
Le bambine sono uguali. Hanno nomi, ma per me sono semplicemente le bambine.
Ridono per tutto il tempo, corrono e parlano tra loro. Fanno gesti strani, lo so che fanno cose strane. Non giocano e non hanno amici e si controllano l’ombelico di continuo, sedute a gambe incrociate nella polvere. Odorano di uova sode, mentre i bambini di solito sanno di latte e panna cotta. Ma sono le bambine, e io ci sono abituata.
Alle bambine non piacciono le storie.
Quando mi avvicino al loro letto, di notte, per rimboccare le coperte, mi cacciano via con sguardo ostile; hanno da parlare tra loro a mezza voce mentre si intrecciano i capelli. Solo a volte mi sorridono e mi dicono “Come è morto papà?” con occhi feroci da gabbiano. Alle bambine non piacciono i giocattoli. Per Natale ho cucito loro delle bambole di pezza e le ho lasciate sul comodino. Il giorno dopo, rassettando, non le ho più trovate.
«Dove sono le vostre bambole?»
«Non respiravano più. Sono morte. Le abbiamo sepolte in giardino.»
Spesso parlano insieme, come se pensassero insieme, come se per tutto il giorno decidessero cosa dire a un’unica voce, una voce incolore. Sono uguali le bambine: non un capello scomposto, un neo, un inciampo della pelle le distingue. Le bambine sono selvagge. Pettino di continuo i loro capelli, ma quelli riprendono ad annodarsi un attimo dopo, come per una magia.
A volte mi chiudono in bagno per un giorno intero. Mi aprono solo a sera. Non so cosa facciano durante tutta la giornata. Ho nascosto le chiavi di tutte le porte, ma loro riescono sempre a trovarle. La prima volta ho pensato fosse un gioco, una variante di nascondino. Ridevo dietro la porta. Le chiamavo. Cantavo, spostando la tendina e ripassando il nome delle nuvole. Aspettavo mi aprissero per correre a cercarle tra le stanze, sotto i letti, dentro gli armadi. Dopo mezz’ora ho iniziato a battere i pugni contro la porta. Poi a gridare.
L’acqua del lavandino non è buona. Sa di ruggine e calcare. Alla sete segue la fame.
Aprono senza dire niente. Spesso non me ne accorgo nemmeno. Capita che mi sia addormentata con la testa contro la porta o con un gomito sul bidet. Sento il rumore della chiave nella serratura o mi sveglia di notte il cigolio delle stelle, provo a ruotare la maniglia e la porta si spalanca. Le trovo a letto. Strette l’una all’altra, con quei capelli vivi. «Mamma, ti vogliamo bene», mi baciano e io mi ritrovo a piangere in un’altra stanza.
Ho imparato a prendere per il collo la notte e a strangolare i sogni.
Lo avevo seguito senza rimorsi. Trasformava le mie emicranie in pomeriggi di coccole e sussurri a letto. Estirpava i miei sensi di colpa passandomi una mano tra i capelli, li pettinava con le dita. Quando il mal di testa mi prendeva di notte, poggiavo la fronte contro la sua tempia, tra le coperte, e provavo a figurarmi la forma dei suoi sogni. Chiudevo gli occhi e dietro alle palpebre comparivano bestie che non avevo mai incontrato, città che non avevo visitato. Mi addormentava la cantilena di idiomi sconosciuti. Mi sono vista deforme in un suo incubo. Mi sono scorta lucente come una santa sul fondo del suo sonno.
Capitava che nelle notti di temporale scoppiassi a piangere se lui, per gioco, tra un risolino e un pizzicotto, mi chiamava tocca. Perché la vertigine dello strazio a volte veniva di nuovo a divorarmi. Quando la spossatezza mi bloccava a letto per giorni interi, si occupava lui della casa. Nella stanza, le mattine scurivano in fretta.
«Grandina, bisogna portare il bucato dentro», gli dicevo con i nervi percossi dal fragore violento della natura contro i vetri chiusi.
«Ma no, amore, fuori c’è il sole».
Si occupava lui delle bambine. Tra le sue braccia diventavano docili e affettuose. Li sentivo oltre la porta. I corpi delle bambine sembravano abitati dalle risa di qualcun altro, risate da uccello. Le immaginavo saltellare scalze nel corridoio con un’ilarità che non gli avevo mai riconosciuto. Forse avrei dovuto tenerle di più dentro di me. Sono nate premature. Non sono riuscita a trattenerle.
Lo spessore delle sue braccia. La geometria perfetta di ogni suo respiro. Mi misuravo con le sue mani, per scoprire quante sue dita era lunga una mia gamba. Mi scriveva parole indecenti con la punta della lingua lungo la nuca, per svegliarmi al mattino. Carezze cocenti e un rosario di risate, scorze di sole. Quando fumava le Chesterfield rosse gli si addormentava il piede. Il destro. Solo con quelle. Con tutte le altre marche di sigarette non succedeva. Gli levavo la ciabatta e gli succhiavo l’alluce. Non sentiva niente e rideva. Di quella risata gonfia e succosa che era uva. Di quella risata sua, un po’ acerba. Appena ho scoperto di essere incinta, ha buttato le sigarette. «Deve essere te in miniatura». Quando ha saputo che erano due, ha detto «E adesso che ne facciamo dell’originale?», pizzicandomi un fianco.
Se l’è portato via un dente cariato.
Era in fabbrica per il turno di notte. Il dente gli doleva da giorni e lui continuava a rimandare una visita dal dentista con quella smorfia del viso, con quel suo sorriso di lato e il gesto vago della mano. Uno spasmo di dolore, un sussulto improvviso, un movimento sbagliato e un macchinario gli ha tranciato la gamba. Quella destra. Non si distingueva il rosso dei pomodori delle conserve da quello del sangue. Un’unica poltiglia densa e schiumosa. È rimasto incastrato. Hanno dovuto aspettare l’ambulanza per tirarlo via. Gridava, mi hanno detto. Ha gridato per tutto il tempo.
Me l’hanno portato a casa spezzato. E muto. Non ha parlato per giorni. Poi mi ha preso la mano e mi ha detto «Tu mi devi aiutare o io mi lascio morire di fame e di sete». Ho rifiutato con l’egoismo del pianto. La barba prese a crescergli incolta, non voleva lo radessi. Per me era più bello. Gli occhi si cerchiarono di fiacchezza. Per me era più bello. Presto si sarebbe abituato a quella nuova condizione. Bisognava dargli tempo. L’avrebbe accettata, avremmo trovato il modo di conviverci, un modo nostro, fatto di premure e piccole attenzioni, di gesti e rituali complici. Avremmo ricominciato a ridere a una voce.
Me l’avevano portato a casa salvo. Poco importava se il resto della sua gamba lo aspettava in una scatola di metallo al cimitero, dove si parcheggiano gli arti amputati in attesa della ricongiunzione dei corpi nel giorno del giudizio. A un certo punto quello che restava della sua coscia ha iniziato a svuotarsi. Come una pianta grassa scavata dall’interno da un parassita, ha iniziato a collassare su sé stessa con un odore di aceto. La cancrena gli ha mangiato il moncherino sotto agli occhi e gli hanno dovuto amputare di nuovo quello che restava della gamba, stavolta fino all’inguine.
Poi hanno parlato di complicanze. Hanno parlato di infezioni.
Oggi è un nuovo giorno e Dio suona gli uccelli. Quando pettino i capelli alle bambine a volte mi taglio le dita. Hanno capelli spessi e affilati. Loro prendono i miei polpastrelli e li succhiano. Prima li succhiano, poi li mordono. Anche gli insetti scappano da casa mia. Appena nate, quando le allattavo al seno, mi morsicavano i capezzoli. Io tastavo incredula quelle gengive rosa candite, prive di denti, eppure l’areola del mio seno continuava a sanguinare.
Da bambina, nei pomeriggi dopo la pioggia, correvo a raccogliere limacce, le lumache grasse senza guscio. Escono con l’umidità, quando nell’aria sfrigola un odore di ruggine e le nuvole sono coricate sul vento. Me le facevo camminare sulle braccia, mi rilassava quella carezza viscida raso pelle. Con l’indice gli premevo le corna e quelle le ritiravano nel corpo di polpa collosa. Mi facevano ridere quei movimenti lenti e svagati. Vesciche molli che si lasciavano dietro uno scarabocchio lucente.
Un pomeriggio ne ho raccolte una ventina e le ho nascoste nel vasino della cacca sotto al letto. Le ho coperte con molto terriccio, per evitare che scappassero. Al ritorno da scuola non le ho più trovate. Il vasino non c’era. Le avevano buttate. Le avevano uccise. Sono corsa in bagno e mi sono chiusa dentro. Mi sono accovacciata sul fondo della vasca e ho aperto l’acqua. Il mio grembiule col fiocco tricolore ha preso a inzupparsi. Si è fatto pesante. Ho iniziato a piangere. Volevo annegare. Volevo morire, come le mie limacce. Quello è stato il primo dei miei cronici mal di testa, lancinante e affilato come un parto.
Poi le ho viste.
Erano due. Strisciavano sul bordo della vasca proprio di fianco a me. Le ho prese. Le ho infilate in bocca. Le ho protette. Un sapore metallico e burroso mi è scivolato lungo la gola.
Le donne del paese pensano che le bambine portino sfortuna, le guardano con sospetto, si tirano i figli al petto, quando passano. Solo l’arrotino le saluta. D’estate vende lupini. È l’unico che le chiama per nome. «I monozigoti sono una benedizione», dice. Nel suo paese li portano sul fercolo durante le processioni, ai piedi delle statue dei santi. La gente si sbraccia per toccarli. «Portano bene», dice. Gli fanno baciare i biglietti del lotto e il parroco se li porta dietro quando va a benedire le case.
A un tratto mi suona come un atto d’accusa. Mi irrigidisco. Invece lui sorride.
Suo figlio è morto bambino. Se ne avesse avuti due uguali, ora il fantasma di suo figlio si aggirerebbe con disinvoltura per casa, ironizza con amarezza, invece gli ha lasciato un cane spelacchiato, una moglie isterica e una bicicletta a cui avevano tolto da poco le rotelle. Regala spesso alle bambine un cartoccio di lupini. Lo ringrazio. Dice ridendo che forse lo fa più per egoismo, che per altro. Spera di ingraziarsi la sorte. Odora di pasta abrasiva e ha le mani squamose.
Le bambine raccolgono pietre a forma di nasi, conchiglie a forma di orecchie. Cercano stralci di corpo tra la sabbia e il fogliame scrupolosamente, per ore, in silenzio. Li misurano, tarano le proporzioni. Ho paura di svegliarmi e di trovare quel raccolto accanto a me nel letto, disposto come un corpo freddo tra le lenzuola matrimoniali.
Il medico, prima di andare via da casa mia, quando mio marito spirò: «Non si preoccupi, signora, diremo che si è trattato di morte naturale. Soffriva. Il dolore era lancinante. Sarebbe stata comunque solo questione di giorni. Era troppo debole. Si era lasciato andare.»
Confusione, mal di testa. Tuttora non capisco.
«Diremo che è si è trattato di morte naturale…»
Le bambine erano dietro la porta. Lo sguardo aguzzo.
«Come è morto papà?»
Quando le bambine ridono, la loro faccia si allarga, diventa sgraziata.
Torno dal mercato con sacchetti gonfi di susine e una stanchezza mediterranea. La stanchezza femmina del sole che scotta tra i banchetti del pesce e gli Apecar degli ambulanti. Voglio fare una crostata. Canto a mezza voce. Vorrei andare al mare. Portarci le bambine. Fargli respirare aria buona. Odore acido e salato sulla pelle. Sentire i pettegolezzi chiusi nelle conchiglie. La brezza che si infila tra la gola e i capelli e prolunga le sillabe. I fischi delle onde e il cielo appoggiato sopra. La pelle caramellata dal sole. Vorrei vederle correre contro l’azzurro sbeccato con quei corpicini teneri, morbidi di sudore, offerti all’estate. Stringermele al petto. Inglobarle. Riportarle dentro di me. Riempirmi nuovamente di loro con un gonfiore che mi fa più bella. Mi sorprendo a ripensare alle loro prime parole, pronunciate a una voce con grazia malferma.
Apro la porta di casa e sento odore di sugo. Odore acre di pelati. Aglio soffritto in olio buono. Basilico. È da quando è morto che non entra un pomodoro in casa mia. Mangiamo in bianco. Pesto. Vellutate. Salse e fondi chiari o besciamella. Entro in cucina e le trovo ai fornelli. Scalze, in punta dei piedi su uno sgabello. Aggiustano di sale, girano col mestolo. «Mamma, sei già tornata? Ti stavamo preparando una sorpresa, stiamo cucinando per te», quel sorriso ambiguo. I capelli che scintillano di bava di lumaca.
Le scuoto. “Cosa avete fatto? Come avete potuto?” Le scaglio a terra, forse contro il muro. Me lo hanno ucciso. Ho partorito le limacce.
Le bambine gridano. Si coprono la faccia. Scappano piangendo, con le guance graffiate. Mi manca l’aria. Mi gira la testa. Arriva la vertigine. C’è pomodoro dappertutto. È tutto sporco. Sangue? Forse le ho scottate. Gli ho fatto male. Mi calmo. Corro a chiamarle in giardino. Inciampo. Non ci sono. Mi formicola la gamba. Resto svuotata. Mi vado a chiudere in bagno da sola.
Mi sveglia il rumore della porta di casa che si apre. Corro ad accoglierle. Invece c’è l’arrotino.
«Ho bussato. La porta era aperta…»
Mentre smontava il carretto di lupini giù al molo, durante i fuochi per il santo patrono, le bambine gli hanno detto – gridando con le mani premute sulle orecchie per i botti – che in cucina c’era un guasto, un lavoro urgente da sistemare. «Hanno detto che era urgente. Ho pensato che non potevate cucinare e mangiare.»
«Erano al molo?», chiedo. Mi sento spossata e intontita. Ho come una febbre estiva nelle orecchie.
«Certo», risponde, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, stupendosi che non ci fossi anch’io. Tutto il paese sta onorando il patrono, tra alici fritte e santini impregnati di sale.
I pescatori lo portano in spalla fino al mare. Lo caricano su una lampara e lo lasciano alle onde. Benedice le acque, le rende feconde, le libera dalle insidie. Le donne che vogliono avere un bambino fanno il bagno vestite, col santo. L’acqua rende fertili pure loro, le penetra. Gli infermi immergono un pezzo di pane biscottato nel mare e lo mangiano. Il cielo è crepato da fuochi d’artificio.
D’un tratto mi sento in imbarazzo per la cucina sporca, per il sugo che imbratta piano cottura, mobili e pareti. Ma mi guardo attorno e del pomodoro non c’è traccia. C’è solo una pentola con dell’acqua rovesciata sui fornelli ormai spenti e qualche piatto rotto. Ho mal di testa. Una patina viscida e burrosa sulla lingua.
Mi chiede del guasto. Lo guardo come se non riuscissi a metterlo bene a fuoco. Le sue parole mi arrivano da lontano. Non riesco a capire bene cosa dice, ma lo vedo muovere le labbra. Ha un tono affabile. Un pacchetto di Chesterfield rosse che sbuca dalla tasca posteriore dei pantaloni. È un attimo e mi sento le sue mani tra le cosce. È da una vita che un uomo non mi tocca. Premo il mio ventre contro il suo pube duro. Lo accolgo. L’empatia della carne.
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