Nell’incontro con un personaggio, se prestiamo attenzione, non ci mettiamo molto a intercettare le battute rilevanti, le linee di dialogo che ci serviranno dopo a indirizzarci nella storia. La percezione di dettagli del genere, ovviamente, si allena, finché arriva un momento in cui precede la nostra consapevolezza, e prima ancora di accorgercene siamo lì a ricordarci una frase letta o ascoltata il giorno prima, e a ripeterla ad alta voce nel bel mezzo di una conversazione.
“This is the only country in the world that wonders what it is”, questo è l’unico paese che si domanda che cos’è, dice Wednesday a Shadow all’inizio di American Gods, parlando dell’America. Eppure è un paese di cui tutto il resto del mondo pensa di aver capito tutto, ho pensato io. Esattamente come scrive Francesco Costa in Questa è l’America: “Ci sono molti posti del mondo di cui sappiamo meno che degli Stati Uniti d’America, ma non ci sono posti con un divario più ampio degli Stati Uniti tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo effettivamente.” Ecco, American Gods riesce a colmare un po’ di quel vuoto narrativo di cui alla maggior parte di noi non giunge notizia, portando alla luce un passato spirituale e storico degli Stati Uniti che ci aiuta a comprenderne, se non altro, gli aspetti di complessità intrinseca, nonché a chiarire alcune questioni del presente, di tutti.
American Gods, il romanzo
Il romanzo American Gods si apre come il più classico dei viaggi dell’eroe: Shadow è un detenuto che viene rilasciato a pochi giorni dalla fine della sua condanna perché la moglie è morta in un incidente d’auto. Comincia così il ritorno verso casa, durante il quale incontra un uomo misterioso che si rivela essere un antico dio e che lo convince a lavorare per lui, nell’impresa di radunare tutti gli antichi dei portati nei secoli su suolo americano dagli immigrati in una guerra contro le nuove divinità “create” in America nel tempo. Parte da qui il viaggio di Shadow alla ricerca della sua verità, in un road trip insieme a Wednesday, costellato di personaggi attraverso tappe reali o oniriche, disseminato di luoghi che si caricano di sacralità. Le attrazioni turistiche, come la House on the Rock, sono i perfetti luoghi di culto in un paese regolato da logiche di consumo rampanti e di intrattenimento rocambolesco. Sono i luoghi in cui si consuma la spiritualità.
In questa sorta di teogonia degli Stati Uniti, Neil Gaiman scrive e riscrive le divinità posizionandole nel presente. Le divinità antiche sono ormai scese a patti con la realtà contemporanea, mimetizzandosi nella folla di avventori di bar e lavoratori. Le divinità contemporanee sono emblema del materialismo e dell’individualismo più radicato, incarnano a tutti gli effetti il Sogno Americano, la consumer society, l’intrattenimento. E così ci muoviamo tra un Odino vecchio truffatore, un leprecauno alcolizzato che fa giochi di prestigio con le monete, un genio ridottosi a fare il tassista, tutti in aperto scontro con il ragazzo tecnologico, con l’egemonia culturale di Media, e il misterioso Mr World, un villain manipolatore e meschino dalla voce suadente che è la perfetta incarnazione del capitalismo più subdolo e rapace.
Muoversi intorno all’opera di Neil Gaiman, per una non esperta come me, significa farlo con enorme rispetto e contrizione, partendo dal presupposto che della gigantesca mole di discorsi che possono farsi intorno ad American Gods riuscirò qui a sollevarne solo alcuni, ridotti probabilmente a un’analisi minima. Perché American Gods è molte cose. Di sicuro, è perfetto emblema di quella definizione di romanzo che Michail Bachtin ha dato nel 1979: “Il romanzo come totalità è un fenomeno pluristilistico, pruridiscorsivo, plurivoco.”(p.69). Questa pluridivocità si muove su generi e linee narrative multiple, portandosi dietro qualcosa che solo apparentemente è lontana dal romanzo: un libro di Storia. American Gods è infatti, sotto molti aspetti, un manuale di storia degli Stati Uniti, potrebbe essere anzi un manuale di come si dovrebbe scrivere un manuale di storia degli Stati Uniti, e cioè tenendo conto delle diverse facce. Di tutte.
Ad ogni modo, bisogna essere pazienti e non farsi stancare dall’ansia di mettere assieme tutti i pezzi. In un tentativo di immersione assoluta, ho fatto l’esperimento di leggere il libro e vedere la serie contemporaneamente, e le parti si sono unite in un unico quadro che completava gli spazi vuoti lasciati dall’altra narrazione.
American Gods, la serie TV
Dal romanzo di Gaiman è stata tratta, a quasi vent’anni di distanza (cifra da tenere presente) l’omonima serie TV, ancora in produzione, di cui scrittura e riprese sono state realizzate con il supporto e la supervisione dell’autore, cosa che le ha consentito di diventare una vera e propria integrazione a posteriori di quella storia. Ai vecchi personaggi e a quelli appena accennati nel romanzo viene dato spazio e respiro negli episodi, grazie alla caratteristica intrinseca della narrazione seriale di potersi muovere a un livello di profondità che supera i limiti della pagina scritta. Negli adattamenti nel passaggio tra libro e video hanno agito gli anni intercorsi: compare New Media come evoluzione di Media, vediamo anche uno spaventosissimo Vulcano, dio delle armi a capo di una fabbrica di proiettili in cui gli incidenti sul lavoro diventano i nuovi sacrifici umani di cui il dio si nutre. Soprattutto, la serie aggiunge l’esperienza visiva: le scene curate e ricche di dettagli, gli effetti sonori roboanti, la magnificenza dei colori e della rappresentazione. È un’esperienza sensoriale complessa e stimolante, in cui spesso mi sono ritrovata a pensare a Twin Peaks, non tanto per la trama ma proprio per il sovrapporsi di generi, ritmi e evocazioni tanto legate alla storia quanto al territorio, ai luoghi, alle atmosfere.
Un’epica postmoderna
Scene splatter si alternano a momenti onirici, road trip, detective fiction e perfino tracce di fantascienza, American Gods è un compendio di generi letterari e ne oltrepassa i confini, spingendo tutto in un unico contenitore che è l’epica. È una storia fatta di storie vecchie e nuove, in cui ci viene chiaramente detto, dal narratore interno Ibis, che la verità non è ciò che conta, perché quello che conta è l’interpretazione e la memoria di quella verità. L’epica, lo sappiamo, è la narrazione della civiltà, il cui scopo primario era quello di creare un senso di comunità, di ordine e di stabilità. Tuttavia, se l’epica classica si muoveva nel confine binario tra bene e male, l’opera di Gaiman sfonda questo limite camminando costantemente nell’ambiguità e nella complessità, moltiplicando le direzioni interpretative in una perdita di univocità. Sotto la coltre di immaginario ricchissimo c’è infatti una storia di potere, di fede, ma soprattutto una storia di quell’immigrazione che ha contribuito a definire la cultura americana, nonostante i tentativi da parte della dominante di questa cultura a ricodificarla, ometterla, cancellarla.
La molteplicità
In un’eco Whitmaniano (“I am large, I contain multitudes”, Song of Myself) si dipana la frammentazione delle micronarrazioni. Gli elementi metanarrativi cominciano nel romanzo (tutti gli interludi in cui Ibis parla direttamente al lettore, e in cui, contemporaneamente, il narratore esterno racconta Ibis) e continuano nella serie (Mr World che rompe la quarta parete e ci istruisce sul motore del mondo: la paura). Non esiste un passato americano unificato e unificante in un unico mito di fondazione perché l’unicità della storia americana sta proprio nella sua molteplicità di voci interpellate, a partire dalle sue origini. Come scrive Oliviero Bergamini: “La storia delle colonie inglesi nel Nord America, e poi degli Stati Uniti, va dunque meglio compresa come interazione ricca e complessa delle tre popolazioni: bianca, nera e nativa. Un’interazione di cui oggi il ricordo spesso è andato perduto, anche se gli effetti perdurano al di sotto delle semplificazioni strumentali imposte dalle rappresentazioni elaborate dai vincitori.” E in una presa di posizione autoriale, è proprio di queste rappresentazioni elaborate dai vincitori che in American Gods c’è pochissima traccia.
La spiritualità riscritta di un Paese fondato nel nome di un Dio Arrabbiato
La storia mette in discussione e riscrive l’intera esperienza del mito di fondazione dei Padri Pellegrini, che vengono appena citati. In un passaggio che introduce la narrazione delle colonie penali (nel romanzo) e delle navi negriere (nella serie), ci viene detto:
“È importante capire, scrisse il signor Ibis nel suo diario rilegato in pelle, che la storia americana è il frutto di una fantasia […] Una buona invenzione che l’America sia stata fondata dai Pellegrini in cerca di libertà di fede, venuti nelle Americhe per moltiplicarsi e diffondersi e occupare dello spazio vuoto.”(p.89)
Ecco, al di là del fatto che quello spazio non era vuoto per niente, questa è solo parte della storia, una versione, quella dei vincitori appunto, che si celebra ogni anno a fine novembre con il Ringraziamento. La narrazione collettiva dominante è quella dei Padri Pellegrini giunti nella Terra Promessa per trovare la propria Gerusalemme, in questa land of freedom, land of opportunity, come l’America ama definirsi e immaginarsi. Questa narrazione ha delle profonde radici spirituali in un monoteismo assoluto rappresentato da quello che era, da sermone, un Dio Arrabbiato, il Dio monolitico dei puritani, che non trova spazio in American Gods. Abituati come siamo a vivere immersi nella costante egemonia culturale degli Stati Uniti, talvolta ci dimentichiamo che non c’è niente di più potente e meno vicino alla verità di una narrazione che nasce con il preciso scopo di farsi leggenda. Si chiama propaganda, e probabilmente è cominciata nel bel mezzo dell’Atlantico, addirittura prima che i Padri Pellegrini mettessero piedi in quello che poi è diventato il New England. Ma la storia degli Stati Uniti, ripetiamolo ancora una volta, è una storia di immigrazione, è la Storia di immigrazione più netta di tutte, e questo comporta una complessità intrinseca in termini culturali.
Le antiche divinità riconfigurate, inserite nel presente, talvolta snaturate, sono emblema del paradosso sostanziale del melting pot: alle minoranze viene chiesto costantemente di assimilarsi (tanto da creare una gerarchia interna tra quelle brave a farlo e quelle meno brave), ma è un’assimilazione che non le porta mai ad uscire dalla discriminazione di partenza: quella razzista. Gli antichi dei che scendono a patti con le nuove divinità sono emblema di questa assimilazione, che corrisponde (guarda caso) a una mercificazione: la dea dell’amore Bilquis ha un account Tinder, Vulcano è proprietario di una fabbrica di armi, Kali è una cameriera nella catena Motel America.
Il rapporto umano-divino si ribalta: sono gli dei ad avere bisogno degli esseri umani, per mantenere viva la propria memoria. Questa necessità di conservazione oltrepassa lo spirituale e parla della memoria storica di per sé, nonché della legittimazione di una cultura di esistere in tutti i suoi aspetti. Perché un dio è un sistema di pensiero e di credenze, e così le nuove divinità non dipendono come le vecchie dalla fede dell’uomo perché la loro “preghiera” si risolve nel costante uso di ciò che rappresentano. L’intrattenimento e la concretezza delle nuove divinità sono rappresentate come un limite alla creatività umana e alla capacità umana di spiegarsi il mondo, di creare una narrazione.
“Il mio unico limite è la tua immaginazione”
Attraverso questo viaggio, infatti, Neil Gaiman sembra interrogarsi sullo scopo intrinseco della creatività: che funzione svolge nella vita dell’uomo e nella comprensione del mondo? Gli dei antichi erano fonte di ispirazione, rassicurazione. Il mondo delle nuove divinità invece è il mondo della materialità, dell’intrattenimento, della distrazione da quel vuoto esistenziale che l’assenza stessa di divino ha creato.
“Le persone credono e la fede fa succedere le cose.” sancisce Wednesday. In questo senso, American Gods racchiude un potenziale di attualità che sembra pressoché eterno, almeno finché esisterà un certo tipo di società occidentale. C’è un enorme mancanza nell’umanità lasciata dalla perdita della fede, e lo scrivo da atea convinta. Dobbiamo prendere atto del fatto che se per millenni l’umanità ha utilizzato una qualche ritualistica per gestire tutto ciò che ha a che fare con l’ignoto, e per ignoto intendo soprattutto la morte, forse questa ritualistica svolge una funzione importante nel nostro essere persone, che pensare di vivere nel totale disincanto è qualcosa che necessita di un lavoro su se stessi che non tutti sono in grado di fare. La maggior parte di noi semplicemente vive nella distrazione, altri rimandano il pensiero, facendo i conti con quel vuoto esistenziale quando si presenta. Nel frattempo, però, non è che abbiamo mai smesso di nutrirci di storie.
“Noi controlliamo le storie”, dice Media, in uno dei dialoghi più potenti della serie, alla fine della prima stagione, ed è quel sistema di pensiero che si è fatto largo nelle nostre vite, ed è lo stesso che ci porta a credere di conoscere perfettamente un luogo di cui usiamo costantemente i racconti. Non si può fare a meno di pensare a quello che diceva Mark Fisher, e cioè che l’aspetto peggiore del capitalismo è che ci ha rubato la fantasia, la possibilità di pensare che un’alternativa esiste. L’unico limite, infatti, come dice il ragazzo tecnologico, è la nostra immaginazione. Alla luce di questa consapevolezza, il finale del libro assume l’aspetto ancora più sinistro del tentativo costante del potere di perpetrare se stesso, nutrendosi della paura e del caos e trangugiando ogni tentativo di rivoluzione.
Trangugiando. Ogni sforzo. Di rivoluzione.
Pensiamoci in questi giorni, quando vediamo le scene delle rivolte antirazziste negli Stati Uniti. Teniamo presente da che parte sta il potere, proviamo a riflettere, in un profondo sforzo di onestà, da che parte siamo noi. E chiediamoci, sempre, perché.
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