di Eduardo Savarese
Ho fatto la quarantena in casa con Lisetta e Rodrigo, i miei gatti. Poiché sono attratto da tempo dalla vita claustrale o, per meglio dire, monacale (soprattutto per quanto attiene alla regolarità del ritmo quotidiano), ho preso la palla al balzo e ho cercato di organizzare la mia giornata-tipo come quella di un monaco. Dopo un po’ di attività fisica, lavoro e preghiera. Nel lavoro, molti studio e lettura.
Partiamo dalla preghiera/meditazione (seduto in silenzio per unità temporali di trenta minuti con una candela accesa e ben coperto, ma scalzo). Dopo le prime settimane più misticheggianti, è sopravvenuta la fatica di liberarmi dal peso dei pensieri (di ogni genere). Insomma, più la quarantena procedeva, più sentivo ingombrante il mio io. Più meditavo, più mi appesantivo. Come mai?
Credo la risposta sia nell’eccesso di solitudine: sono gli altri che scavano uno spazio in noi, gli altri che ci forniscono gli strumenti per trovare le parole, per raccontare la vita. Quindi ho bisogno degli altri, e dei corpi degli altri, per fondare un equilibrio solido di invenzione delle idee. A questo aspetto negativo dell’isolamento, se ne affianca un altro positivo.
La contrazione del tempo – molte sue perdite sono infatti state azzerate – mi ha aiutato nello studium otiosum, potremmo chiamarlo, cioè nell’applicazione a letture più vaste, più libere, più disordinate del solito. È capitato allora di riprovare la gioia di avere il tempo di vedere maturare le connessioni tra idee, assistere al loro sorgere e consolidarsi, tra campi, epoche, protagonisti apparentemente lontani: si è ricomposto il mondo delle relazioni tra grandi principi che avevo provato in modo compiuto soltanto negli anni del liceo. Dopo quel periodo, infatti, è venuto il tempo di un sapere/conoscere parcellizzato, specializzato.
Assaggiando questa unitarietà intuitiva di folgorazioni ideali (nutrite soprattutto da Giordano Bruno e i suoi fenomenali Eroici Furori), sono finito nel mezzo di un labirinto, che coincide con le mura di casa mia. Dentro le mura della casa/labirinto, mi sono venute incontro delle connessioni ideali: una riguarda l’ombra, e investe la domanda “Perché scrivo?”.
Partiamo dall’ombra. Nel De Umbris Idearum, Giordano Bruno riprende e utilizza uno dei temi portanti del Cantico dei Cantici, libro dell’Antico Testamento tra i più studiati nei secoli, grazie alla potenza delle sue immagini d’amore. Si tratta, in particolare, dell’immagine della protagonista che attende l’incontro con lo Sposo, con l’Amato, sedendo all’ombra (sub umbra).
In questa posizione, di quiete riparata e protetta, è possibile avere accesso alla conoscenza della realtà superiore della divinità. L’intelletto non reggerebbe, infatti, alla visione diretta di Dio: l’ombra permette di conoscere in modo attutito (limitato, dunque) ciò che sarebbe altrimenti impossibile osservare, perché ci abbacinerebbe e, infine, accecherebbe. In questo senso, l’ombra è non solo necessaria, ma ha un valore specificamente positivo.
Negli Eroici Furori, Giordano Bruno davvero furoreggia (nella lingua, nella costruzione della frase, nello svolgersi ardimentoso e appassionato del pensiero). Il tema dell’amore (della sofferenza d’amore, della percezione dolorosa della mancanza d’amore) viene tradotto in immagini e considerazioni che esigono di elevare l’amore dal livello delle cose terrene a quello delle cose divine. Per cercare Dio, a partire dal mondo, e nella vastità sconfinata dei mondi e degli universi, ci vuole una feroce determinazione, un furore, un furore eroico.
La figura mitologica prescelta per raccontare dialogicamente questo cammino dell’anima è Atteone che, andando a caccia, incontra Diana e la guarda senza intermediazione alcuna, direttamente nella sua nudità, e che per questo verrà dilaniato dai cani della dea cacciatrice.
Da cacciatore diventa preda: ma è proprio questo il destino di chi si mette in cerca della divinità e delle cose eccellenti dell’essere, ed è il destino d’amore, poiché l’oggetto d’amore finisce col possederti e trasformarti. A differenza del De Umbris Idearum, questa conoscenza è narrata negli Eroici Furori non più solo nella sua forma intellettuale, ma come processo integrale, che investe tutte le attitudini vitali dell’essere umano, il cuore, il corpo, la ragione e l’intelletto. Una cosa è certa: la “caccia” richiede uno sforzo continuo e defatigante, questo sforzo ha un nome preciso, si chiama “contemplazione”, e spesso, molto spesso, tu insegui e non raggiungi, pensi di cogliere ma resti con le mani vuote. È la frustrazione a rendere eroico il furore del cacciatore di Dio (che è il cacciatore della bellezza, della verità). Anche negli Eroici Furori ritorna il tema della gradualità dell’accesso alle realtà superiori, della propagazione dell’essenza divina in tutte le cose in misura differenziata, così che possiamo ascendere alla conoscenza per tappe: altrimenti saremmo travolti, ustionati, accecati. Disintegrati.
Ritorna quindi l’immagine dell’ombra amica.
È questa che (riferendosi alla vecchiaia e allo svanire della vista) restituiscono gli ultimi versi di Borges, nella raccolta Elogio dell’ombra (pubblicata nel 1969, in occasione dei 70 anni dell’autore), e nella poesia che dà il titolo all’intera silloge.
Vivo tra forme luminose e vaghe
Che ancora non sono tenebra
…
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre per un dolce declivio
e assomiglia all’eternità.
….
Giungo al mio centro
Alla mia chiave e alla mia algebra,
giungo al mio specchio.
Presto saprò chi sono.
L’ombra è amica anche nel senso che coesistiamo con le nostre ombre, che sono il segno di riconoscimento della nostra corporeità. Gettiamo ombre fino a che siamo vivi: tanto che le divinità possono invidiarcela, e tentare di rubarcela, come accade in Die Frau ohne Shatten (La donna senz’ombra), sublime testo poetico di Hugo von Hofmannstahl, scritto per la musica di Richard Strauss, nel quale la Principessa divine incontra una povera donna del mondo, intrappolata in un matrimonio infelice e cerca, con l’aiuto spietato dell’astuta nutrice, di sottrarle l’ombra che a lei manca.
L’ombra è anche il segno della nostra inerente ambiguità e insuperabile trascendenza. La nostra vita è attraversamento di luce e tenebra; l’ombra assorbe e trattiene, e ricorda a noi stessi che l’inquietudine ci è compagna perenne. Questo movimento è evidente in una pagina del romanzo di René Frégni, I vivi al prezzo dei morti (edito in Italia da Jimenez), che ho letto durante la quarantena grazie al consiglio dell’amica libraia Chiara Calò. Frégni può essere ascritto al solco del “noir mediterraneo” di Izzo: anche lui è un autore marsigliese e questo romanzo vive nei dintorni (campestri) della città francese. Dopo alcune pagine di ostentato idillio naturalistico, nella vita del protagonista arriva il terremoto di un evaso, suo ex allievo in un corso di scrittura in carcere, che gli chiede aiuto e al quale René darà ospitalità. L’ingresso della violenza trasforma le passeggiate in campagna in inquiete meditazioni, sino a che l’io narrante prende coscienza della presenza (ancora una volta) dell’ombra, una sorta di sdoppiamento della sua identità o di riflessione allo specchio, oggettivazione (comunque sfuggente) dell’inquietudine:
“Mi sono rimesso in cammino su strade in cui non ero solo.
Camminavo con un’ombra. Tutti abbiamo la sensazione di camminare con un’ombra, non c’è dubbio. Ho passato periodi, nella vita, in cui questa ombra si allontanava. Ho sempre fatto in modo di camminare accanto a un’ombra che non era la mia. Un’ombra che mi inquieta e di cui ho bisogno. Come se non avessi mai potuto accontentarmi delle gioie tranquille che mi offre questa vita” (p. 34).
E allora, io scrivo
perché mi riparo all’ombra di un’essenza più vasta dei confini della mia vita quotidiana;
perché sotto quest’ombra, talvolta sedendo, talvolta partendo per la caccia, ho necessità di ricercare tracce di verità, di bellezza, e di restituirle a me e agli altri mediante il linguaggio scritto;
perché prendo coscienza del mio corpo, nell’ombra che getto;
perché le mie ombre prendono corpo, ambiguamente, nei miei personaggi, e ogni volta che ciò accade torno a me stesso, “giungo al mio specchio”, prima di morire (e costruisco la mia redenzione ante mortem, quindi: la scrittura è storia di salvezze);
perché riconosco la compagnia di un’ombra che mi cammina a fianco, e mi smuove dall’illusione di una quiete posticcia.
E scrivo perché mi commuovo quando leggo degli eroici furori di chi nella libertà della scrittura ha creduto, fino a morire bruciato.