di Claudia Vanti
Al contrario di quanto si crede, i rapporti fra moda e piccolo o grande schermo non sono mai stati facilissimi. Il cinema nel corso di molti decenni ha contribuito a creare delle mode e ha dato popolarità a tanti stilisti attraverso la creazione dei costumi di film iconici, come quelli di Givenchy per Audrey Hepburn. Ma negli anni del pieno splendore di Hollywood si trattava di un rapporto a senso unico: il cinema era il grande artefice del mito e dell’immaginario collettivo e la moda era resa da esso ancora più seducente.
Gli anni della nuova Hollywood e della Nouvelle Vague hanno però causato una cesura, il cinema ha smesso di alimentare la ricerca della bellezza assoluta e irraggiungibile e, anzi, già da qualche tempo propone modelli più accessibili: immagini di star e celebrities “della porta accanto”, mentre l’esibizione della perfezione estetica può essere ritenuta inappropriata ai tempi. Dalla fine degli anni ‘90 il glamour è divenuto territorio esclusivo della moda, attraverso eventi e sfilate spettacolo che al pari di vere e proprie performance interpretano al meglio i nuovi codici di una bellezza sicuramente non più legata soltanto a canoni tradizionali, ma leggermente crudele e inaccessibile nell’espressione di un linguaggio estetico per addetti ai lavori o per pochi appassionati.
Su un altro versante la democratizzazione dell’immaginario di Hollywood è coincisa con il grande successo del piccolo schermo, con il proliferare dei canali televisivi e degli show trasmessi fin dalla prima mattina, ma la moda non ha trovato nella tv un habitat favorevole. La necessità, soprattutto con l’irrompere anche in Europa delle televisioni commerciali, di produrre programmi generalisti e graditi a un vasto pubblico che si immagina poco selettivo, ha privilegiato un immaginario estetico poco sofisticato e i costumisti raffinatissimi che per esempio la TV italiana ha messo in luce nei grandi show del sabato sera degli anni ‘60 sono spariti in favore di un mainstream dozzinale e di una sessualizzazione immediata del corpo femminile. Un palcoscenico un po’ troppo semplicistico, al di là delle valutazioni di contenuto, per una moda che progressivamente è andata concettualizzandosi, con brand e stilisti alla ricerca di proposte sempre più mediate e stratificate per distinguersi dai diretti concorrenti.

Qualcosa è cambiato, e molto in profondità, però, con l’affermazione delle serie TV: show dai costumi estremamente ricercati, period drama (un genere che ha avuto enorme successo nella Golden Age delle serie e che come tanta moda odierna pesca nell’infinito bacino della nostalgia) e show che attraverso uno stile definito e riconoscibile anche per quanto riguarda i costumi (o meglio gli abiti, visti i frequenti scambi con maison e griffe del panorama moda internazionale) hanno creato una consuetudine di scambio fra creativi del mondo moda e showrunner che hanno trovato ispirazione spesso proprio nelle tendenze e nelle ultime collezioni del pret à porter.
Già 10 anni fa, dopo la sfilata di una collezione di Prada con silhouette e tessuti che rimandavano in qualche modo ha un atmosfera di inizio anni ‘60, Vogue America uscì con il titolo di Mad Men Fashion, riconoscendo nell’allora popolarissimo show di AMC una fonte evidente di ispirazione; allo stesso modo Marc Jacobs, qualche tempo dopo, riconobbe che una sua collezione per Louis Vuitton non era altro che una lunga appassionata citazione del mondo di Downton Abbey.
In senso opposto può essere quasi superfluo ricordare nella costruzione dei personaggi di Sex and the City il contributo essenziale di tutti i capi e le griffe selezionati da Patricia Field per la creazione di look che probabilmente hanno segnato l’immaginario di una generazione. Con l’avvicinarsi a tempi più recenti è indiscutibile come dietro a parte del successo di Killing Eve ci sia anche l’elaborazione di uno stile assolutamente personale – a metà fra il lusso e le piccole griffe di stilisti emergenti – per la protagonista Villanelle, e la definizione, con stili più tradizionali ma ugualmente connotativi, di tutti i personaggi femminili.
È ovvio a questo punto come le estetiche elaborate dal sistema moda siano un argomento potenzialmente interessante che si presta allo sviluppo di narrazioni dedicate, anche per un certo alone di straordinarietà e di spettacolarità di cui i meccanismi, i processi creativi e le vite stesse di molti protagonisti di questo settore sono circondati. Si tratta sicuramente di un mondo che affascina, anche in virtù di quelle che si potrebbero bonariamente definire punte di colore, rappresentazioni di ritualità e piccoli isterismi quotidiani che decontestualizzati risultano appunto soltanto tali ma alimentano le variabili dello storytelling.
La vita eufemisticamente definibile complicata di molti creatori di moda, da Yves Saint Laurent ad Alexander McQueen – entrambi divenuti oggetto di biopic o docufilm – è un plot potenzialmente perfetto per una versione pop e scintillante della fiction biografica tanto amata dalla TV generalista. In più si ha spesso a disposizione un percorso di ascesa e caduta già assimilabile, di fatto, a una sceneggiatura.

Quando poco più di un anno fa è stato reso noto da Netflix che Ryan Murphy, uno degli showrunner di punta del canale e del mondo seriale in genere, era al lavoro su un biopic dedicato alla figura dello stilista americano Halston la notizia forse non ha avuto particolare risalto al di fuori del pubblico degli addetti ai lavori, ma all’interno di questo microcosmo si è generato da subito l’hype di un grande evento.
Una vita da rockstar, quella di Roy Halston Frowick, che ha avuto il suo culmine verso la fine degli anni ‘70, quando la moda americana scontava ancora un forte pregiudizio in termini di creatività e qualità, e quando ancora non era esploso – negli anni ’80 – il fenomeno del pret à porter e di stilisti iconici come Giorgio Armani o Gianni Versace.
Halston, lo stilista dell’Indiana – definizione che ne collocava l’origine in quel Midwest che è praticamente l’antitesi del glamour -, comincia la sua carriera nel modo più classico di uno storytelling pensato per lo schermo: decorando i capelli e modificando i vestiti della madre e della sorella. Da qui, in una esemplare realizzazione dell’American dream, comincia un percorso che conduce al primo negozio di cappelli a Chicago e poi al reparto modisteria di Bergdorf Goodman, a New York, trampolino di lancio verso il successo attraverso un cappellino indossato da Jacqueline Kennedy alla cerimonia di insediamento alla presidenza di JFK. Questa è l’occasione che nel giro di pochi anni porterà Halston a cimentarsi con una linea di pret-à-porter assolutamente innovativa, con linee pulite e semplici esaltate da tessuti scivolosi e morbidi: una moda che rielaborava il mood folk di fine anni ‘60 in una versione rarefatta, essenziale ed elegantissima, che in un certo senso ha anticipato il minimalismo degli anni ‘90.
Halston era anche un uomo bellissimo, l’icona perfetta per un mondo di fascino esibito, di divertimento continuo, che trovava nell’esplosione della disco music il proprio territorio di elezione, e per l’atmosfera di liberazione sessuale che, ancora di più dopo I moti di Stonewall e la legalizzazione dell’industria del porno nei primi anni ‘70, ebbe una sua sintesi nelle nottate dello Studio 54, in un’ultima fiammata prima del dilagare dell’AIDS.
Il mondo di Halston era perennemente in bilico fra un’espressione creativa di grandissimo livello condivisa con collaboratori di talento, come l’illustratore John Eula e la designer di Tiffany Elsa Peretti, e il palcoscenico notturno sul quale ritrovarsi con Andy Warhol, Liza Minnelli, Margaret Trudeau, Bianca Jagger… celebrities e socialities che oggi sarebbero influencer da milioni di follower.
Questa scalata al successo, dalle origini provinciali alle “Mille luci di New York” è raccontata nella miniserie ideata da Murphy nei primi tre episodi su un totale di cinque, prima dell’inevitabile caduta, con un percorso ascensionale che ha il suo apice nel terzo episodio, quello centrale. Ognuno dei cinque episodi è dedicato a una fase precisa della vita di Halston, quasi a racchiudere in capitoli chiusi le tappe di un percorso evidentemente segnato: nascita, ascesa, successo, caduta e, naturalmente, fine. The Rise and Fall of a Fashion Rockstar.
E la caduta in questo caso è stata veramente rovinosa, oltre che paradigmatica di un’epoca: difficoltà finanziarie dovute a sottovalutazioni e incapacità gestionali, abuso di alcol e droga e infine la morte per AIDS nel 1990 hanno chiuso la parabola di un creatore geniale il cui lavoro è stato letteralmente saccheggiato nei decenni successivi, a partire dagli “omaggi” di Tom Ford, una vera e propria dichiarazione d’amore incondizionato a un idolo, ma anche un répéchage estremamente funzionale al rilancio di Gucci attorno alla metà degli anni ‘90.

Ma a parte il contesto, le vicende personali e gli esempi più o meno riusciti di interazione fra schermo e moda che prodotto, è questo Halston di Ryan Murphy? La miniserie prodotta da Netflix può essere annoverata fra i cosiddetti prestige drama ormai in via di estinzione o si tratta semplicemente di un biopic ben confezionato e un po’ superficiale, lanciato come test nella prima incursione di Netflix nel mondo della moda con la realizzazione di una capsule collection dedicata di capi a marchio Halston e ispirati ad alcuni pezzi storici visti nello show? Prima di tutto è necessario chiarire che questo non è un prodotto con finalità filologiche e accuratezza che possano soddisfare gli addetti ai lavori. In questo, come in altri casi, una descrizione delle dinamiche del mondo della moda che risulti sia efficace dal punto di vista narrativo che rispettosa dell’amor proprio di chi è coinvolto direttamente in questi meccanismi e trova che non sia mai adeguatamente rappresentato l’impegno e il lavoro complesso che stanno dietro alla realizzazione di abiti e collezioni di moda è probabilmente impossibile da tradurre in chiave narrativa.
Quasi inevitabilmente un plot che si svolga in un ambito professionale affine alla moda (atelier o editoria) – sembra destinato a procedere per semplificazioni che assumono un carattere quasi macchiettistico
Why Is It So Hard To Make a Good Fashion Film?, ha scritto Rachel Tashjian in una recensione su GQ che è stata massimamente commentata e condivisa dalla platea degli addetti ai lavori e appassionati di moda. Tashjian imputa a Halston lo scivolamento nella banalità come è accaduto per molti altri film prima di questo. Ma in che senso?
Il casting, per esempio è ottimo: Ewan McGregor è un Halston particolarmente emozionante, fragile e irritante come l’originale e (quasi) altrettanto bello, mentre Rebecca Dayan ci restituisce un’idea realistica della classe di Elsa Peretti. E non vanno dimenticati Bill Pullman, Kelly Bishop e i cameo di lusso come quello di Vera Farmiga. L’immagine, le scenografie e i costumi (di Jeriana San Juan) sono curatissimi, da far morire d’invidia Tom Ford sia come stilista che come regista, e d’altronde Murphy ha più volte dimostrato di padroneggiare molto bene l’iconografia del glamour spingendosi a sane incursioni nel mondo camp.
Nel già citato articolo per GQ, però, Tashjian afferma che “Halston, non sorprende, fallisce dove falliscono tanti film e show sulla moda: come un brutto look da tappeto rosso, è semplicemente troppo ovvio”. Questo significa che ne resta soltanto una rappresentazione di superficie, senza lasciare intravedere nulla del processo creativo dietro alla realizzazione degli abiti (cosa che avviene, per esempio, e con urgenza, in Phantom Thread, nel quale la moda non è la protagonista ma lo è la natura ossessiva e tormentata dello stilista, e gli abiti sono addirittura brutti, antiquati rispetto all’epoca raccontata) e senza raccontare nulla di come, per lo meno nel caso di Halston (ma potrebbe valere anche per Saint Laurent o altri), gli abiti abbiano cambiato il modo di rappresentarsi di molte donne e di comunicare qualcosa di sé. E così la storia del geniale creatore Halston, ma potrebbe essere chiunque altro, rimane confinata a una parabola di ascesa e declino generica con bei vestiti di contorno.
Molti predecessori, anche illustri, come Robert Altman con il suo Pret à porter del 1994, non sono andati oltre la superficie, trasformando quello che poteva essere un grande racconto satirico e corrosivo in una raccolta di figurine caricaturali e noiose. Forse la lezione che se ricava è che i film e gli show più riusciti e più profondi nel raccontare la moda sono quelli nei quali si inciampa quasi per caso nei vestiti, ma il cui focus è altrove, e solo così se ne riesce a rivelare qualche dettaglio evocativo e a non svelarne del tutto il mistero.
Del resto anche Ryan Murphy c’era riuscito, con The assassination of Gianni Versace, ma il protagonista era l’assassino.