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Chiunque io sia

A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti e selezionati dalla classe di Apnea ’20/’21, ne sono infine stati scelti 13 per la pubblicazione.


Questo è il decimo, lo ha scritto Luca Dore e ha richiesto un editing che sciogliesse nodi troppo criptici e allusivi in modo da chiarire al lettore lo sviluppo degli eventi e rendere più visibili le azioni e i movimenti. Ci ha lavorato il corsista di Apnea Edoardo Baldi prima e la redazione poi.


Un piccolo truffatore, dopo essere stato picchiato per un regolamento di conti, si finge qualcuno che non è con una famiglia di scout che se ne prende cura in modo fiducioso. Tornato a casa troverà ad attenderlo chi è stato raggirato da lui qualche tempo prima. Cinismo e compassione per un racconto dall’ironia tagliente e non scontata.


di Luca Dore


Poni il tuo onore nel meritare fiducia

Entri per un tramezzino. E non stai pensando a fottere nessuno. Poi il vecchio dice: «La birra la più poco che costa è qui.» Questo lo condanna. Questo, e le pantofole in sughero a forma di nuraghe, in un cesto tuttauneuro. Mi levo la giacca e perlustro il locale: «Quanti coperti fa il sabato sera?» Lui stringe gli occhi e passa lo straccio sul bancone, segue le mie briciole cadere sulle mattonelle. Dopo un’eternità risponde: «Eh, certe volte anche venti.» Io faccio una risata di testa, con le mani giunte, «Se lei ci piazza uno di questi, comincia a viaggiare sui settanta coperti al sabato», mi avvicino e stringo la bocca per sussurrare, «e cento la domenica. Le partite migliori sono tutte la domenica.» «Eh, mio figlio pure me l’ha detto…» «Vede? Vede che mi dà ragione? Faccio così, io glielo mostro e lei decide.» Sul mio quaderno c’è un solo obiettivo per il fine-settimana: ingresso nel privé di Madame Falena. Piazzare un decoder prima dello svincolo per Santa Teresa è già un terzo del biglietto vip, un ottimo inizio. Dal retro compare pure il ragazzino, maglia di viscosa gialloverde e calzoncini di raso. «Eccolo qua, il calciatore», avvito e inserisco la presa scart sul televisore e poi nel vecchio lettore dvd trovato al mercatino dell’usato. Come ottenere un decoder perfetto: rimuovete il pannello posteriore, sradicate il piatto per il disco e riempite con polistirolo abbondante. Reinserite il piatto per il disco, una bella passata di lucido nero e le scritte adesive al posto giusto. «Già pronto per l’uso, come vi dicevo. Piuttosto… ecco, un po’ mi vergogno», scendo dallo sgabello e mi appoggio al bancone, «Io ho l’esclusiva per il nord Sardegna, posso farvi ogni anno uno sconto personalizzato sul pacchetto sport, ma purtroppo non ho nessun potere sulle batterie del telecomando.»

Al bambino e al suo pallone dico: «In Italia c’è una lobby delle batterie. Ormai è venerdì sera, quindi il negozio specializzato è chiuso. Lunedì mattina la prima cosa da fare è comprare queste che vi ho segnato: Vuppiù alcaline», batto sul cartoncino, «è la solita vigliaccata all’olandese.» L’uomo strizza ancora gli occhi, forse il tic che ha fatto innamorare sua moglie. Vuole firmare con una penna squadrata vinta a qualche lotteria per zotici, ma io gli allungo la mia Sailor stilografica che gli sguscia tra le dita sporche di carciofi. Dopo il suo scarabocchio e la mia ricevuta che vale esattamente quanto il suo straccio, finisco la birra ed esco. Infilo nel mio nuovo portafoglio in pelle di bufalo i cento euro dell’installazione standard realizzata da Sasselli Gianni global representative. Le cosce di amianto di Madame Falena, bocca di strega, cuore di Sardegna, braccia di contadino, sono sempre più vicine, stanotte non mi faranno problemi: supererò il suo giardino incantato, bunker di lussuria di una costa che si crede ancora Smeralda. Il vecchio e suo figlio metteranno fuori una lavagna con la partita del giorno, spargeranno la voce per tutto il paese, ma sarà troppo tardi quando si accorgeranno della difficile reperibilità delle alcaline V+, sempre ammesso che le abbiano brevettate. Intanto il video di presentazione continuerà a girare in un loop costante come è possibile fare solo con dei vecchi dvd. E questa gente arricchitasi con i panini al formaggio agli autotrasportatori con il loro bisogno di pisciare e fumare, mi maledirà.


Sii leale

Cara ragazza che agiti il bargiglio a ogni respiro, che dedichi un pezzo al padre morto, uno alla madre in lacrime, uno al tuo paese, Nuova Gorollè, e infine uno anche al sottoscritto, il caro signor Barone, sperando di trovare in lui lavoro e amore, due caselline dell’oroscopo che fanno clic in un colpo solo (certo, come no!), sappi che la tua vista per me è solo un castigo che troverà consolazione appena uscirò da questa merda e salirò fino allo zenit della mia settimana. «Prima di proporti qualcosa», parlo con lei, ma guardo sua madre, «vorrei capire qual è la tua predisposizione a viaggiare, a muoverti per l’Italia, fare dei provini.» Quella fa sì sì con la testa e col bargiglio, tira su dalla cannuccia. Mi impongo di ficcare gli occhi nella scollatura, per non fargliela sprecare. «Questo è un lavoro durissimo, pieno di gente pronta ad approfittarne.» La madre si tampona il naso con un fazzoletto, poi lo apre e ci sputa dentro un nocciolo di oliva. «Vincenzo Barone vuole essere leale con voi fino in fondo. Sì, insomma, cosa ne pensa la mamma?» Ma la giovane Giuseppa Severa R. non la lascia parlare, «Sono pronta!» i brillantini le si dispongono sul mento in modo casuale. Sospiro e sollevo la cartella di pelle nera. «Vi prego di leggere tutto con attenzione…  puoi firmare solo se sei convinta al cento per cento.» La donna accende una sigaretta elettronica al gusto di rabarbaro. Dovrò darci dentro con il Mangiaodori per levarlo dalla giacca. «È più felice o più spaventata per sua figlia?» «L’importante è che sia contenta lei. Io, da vedova, non le posso dare tanto.» Oh, sì, è una bella commedia. Ha tutta l’aria di quelle che versano il vino sul calzone dell’uomo per toccargli il pacco.

«Un’ultima firma, le due fototessere le tengo io, e questi… vi ringrazio», infilo in una bustina nera i due pezzi da cinquanta ricevuti, un altro terzo del biglietto vip, «… servono per il sito web professionale. Come nome d’arte pensavo a Shara, ti piace Shara? Per adesso il cognome lo teniamo nascosto. Magari poi su Wikipedia ci dilunghiamo.» Ultimo ostacolo alla fuga dal locale è un bis tutto gorgheggi e voci da posseduta. Applaudo, con la gamba sinistra della madre che ormai mi stropiccia il calzone. Prima che mi inondi di vermut le ringrazio e saluto; sul tavolo un cartoncino con un numero verde e i miei recapiti; lascio che mi bacino. Il rabarbaro evapora del tutto solo al portone cremisi del privé. Fuori è uno dei tanti capannoni pieni di arnesi, dentro è la sala del trono di Madame Falena, gran cerimoniere dell’orgia, mantide vendicativa. Il cassiere affastella le buste nere, anonime, gonfie di denaro, l’unghia del mignolo fatta apposta per strappare il biglietto d’ingresso lungo la linea tratteggiata. Rabbocco la busta con quello che avevo messo da parte e gliela allungo. «È già stato dei nostri? Sa come funziona?». Io, chiunque io sia, sorrido.


Renditi utile e aiuta gli altri, sii amico di tutti, sii cortese

Quando Madame Falena, stanca di cavalcare e mungere e strigliare i suoi armenti, sbatte fuori con le cinghie di spine la sua ciurma viziosa e anonima, è quasi giorno. Il cassiere svuota la moka nelle tazze e ci congeda. Fuori dal reame non c’è niente di buono, solo il parabrezza incendiato dal primo sole di luglio. Il contenuto dei tumbler viaggia ancora tra la gola e l’uretra, e nemmeno il caffè amaro sembra placare questa specie di lingua del diavolo che avvolge la mandibola. Esofagite da reflusso. O qualcosa di simile. Dopo una colazione acida esco dal bar della superstrada. Sul piazzale c’è una Stilo nera, due gambe nude e abbronzate. Sembra proprio che una femmina stia cercando di scoprire cosa fa muovere le macchine e cosa le fa improvvisamente fermare. Quando le passo vicino lei dice: «Non ci voleva, non ci voleva.» Dovrei lasciarla a bollire nel suo brodo; devo piazzare altri due decoder e tornare a casa, anzi devo piazzare altri due decoder se voglio tornare a casa. Invece chiedo: «Ci sono problemi?» «Penso proprio di sì», i capelli incollati su una guancia. Per un attimo sospetto che possa esistere una potenziale rivale di Madame Falena, una Biancaneve nel reame che insidia il trono alla splendida regina cattiva. Mi avvicino alla sua macchina e mi levo la giacca, lei mi allunga uno straccio e aspetta che faccia qualcosa, che mi infili corpo e anima nel suo carburatore annerito. «Che scherzo le ha combinato?» «Nulla. Stavo andando spedita e poi… tra tra.» Lei, capelli e dita ovunque, il filo delle chiappe sotto i calzoncini strappati. Lei capace di sovrastare con quell’invitante odore di pelle sudata la puzza di benzina cotta. «Guardi, qua ci vuole il carro attrezzi. Bisogna che chiami l’Aci», mi pulisco nello straccio e chiudo il cofano. «Eh, sì, buonanotte. L’ho fatto un’ora fa. Figurati…» è infastidita dalla mia soluzione, «solo che ho un appuntamento, e così sta andando tutto a puttane.»

Trattengo il respiro, mentre lei poggia il cellulare sull’orecchio e resta in attesa. «Se mi dici dove devi andare, ti accompagno io.» «Dovrei tornare a Cagliari, in tempo per il matrimonio della mia amica», le sue guance riprendono colore «… sennò quella mi ammazza proprio.» Io lascio che mi trafigga: «Andavo là anche io», perché no? Anche le città sono piene di imbecilli disposti a darti dei soldi in cambio di monnezza. «Forza, hai molti bagagli?» «Solo questa ventiquattrore», e la solleva all’altezza dei miei occhi. «E per la macchina che si fa?» «Arriva mio fratello, massimo un’ora. Si è messo d’accordo con l’Aci. Fanculo.» Mi presento con il biglietto da visita di Aldo Sant’Ercole, grafico e impaginatore freelance. «Al Corriere della sera, in passato. Adesso lavoro molto sul settore quotidiani della metro.» Lei fa il master, «perché, lo sai, che solo col bachelor in Europa manco ti guardano in faccia. Ecco, ecco… svolta alla prossima. Ovviamente, ti prego», mi tiene per le spalle, «sali a farti un drink. Io faccio velocissima, promesso. Una doccia, mi infilo il vestito e siamo fuori. La chiesa è a un paio di isolati, ma coi tacchi…» Non respira nemmeno tra una frase e l’altra, che tutto sembri più veloce, più vicino alla conclusione. Seguo lei e la sua valigetta nella scala del residence dalle porte celesti.

Sul divano una divisa da poliziotto chiusa nel cellofan. Premo il Campari ghiacciato contro le tempie, mentre lei fa scorrere l’acqua. La porta del bagno è difettosa, e così già dal corridoio posso vedere la spugna che corre sulle sue gambe, sul suo culo bianco. Come fossero di un altro, osservo i miei piedi avanzare in territorio minato; calpesto gli slip, la canottiera appallottolata, sempre più vicino alle piastrelle del bagno. Provo a urlare: «Sono reperibile, devo proprio andare», ma l’incavo del gomito di un uomo mi stringe sul collo.


Ama e rispetta la natura

Un sabba di mosche attorno al lago di sangue su cui siedo mi tiene compagnia. E non smetto di gocciolare. Dalla nuca. Dalle ginocchia. Succede quando ti trascinano dentro un sacco per lasciarti sotto un ginepro, il più bello del bosco. I polsi dove passa la canapa sono scavati. Col bastone ci sono andati pesante, ma non a sufficienza per la mia testa. Cerco di alzarmi, ma non ho nemmeno un po’ di energia residua e riprendo a dormire. Mi pento di essermi svegliato appena scopro il dolore di aprire gli occhi e trovarmi circondato di bianco, la polvere dei vetri che spande bianco ovunque, bianca la divisa della ragazza che viene a svuotare il catetere. I bit bit delle macchine rimangono nell’aria minuti interi; le chiacchiere dei visitatori fanno eco nella mia stanza e nel corridoio. Tutto rimbomba e abbaglia. A fare ombra ci pensa un uomo coi baffi rossi, una divisa da forestale e su scritto Alfredo, in fucsia. «Per qualche giorno puoi rimanere a casa mia quando esci da qui. Ho spazio; oh, niente di extralusso! Non è che ci abbiamo un hotel.» Raschio la gola fino a sentire il gusto del sangue per dire: «Gra – zie.» «Non ti sforzare. Stattene buono buono.» Il primo momento di lucidità arriva sul sedile di Alfredo, enne giorni dopo. Gli sento dire: «Mia moglie ti ha già preparato la stanza. Ai bambini ci penso io a non fargli fare troppo casino.» Sostiene che posso andare via appena recupero un po’ di memoria, appena mi ricordo chi sono e cosa è successo. Appena lo decido, insomma.


Sappi obbedire

Francesco e Chiara sono gentili, addirittura servizievoli. Alla bambina non scoccia imboccarmi con lo yogurt delle cinque, unico momento di contatto con il signore della camera degli ospiti. Il fratello mi riempie di disegni e ci tiene a spiegarmi statuti e gerarchie del movimento scout di cui fanno parte. Chiara dice che a settembre passerà nel reparto, che tanto era stufa delle coccinelle e che ha già imparato tutti gli articoli della legge. Nulla di quello che sento ha senso. Ed è di nuovo sera ed è mattina. Quando riesco a collegare le frasi, a pisciare e tenere le posate da solo sono ammesso a cenare con loro, nel tavolo grande. Per l’occasione Alfredo tira fuori un bottiglione di vino vecchio che seppellisce per un momento il desiderio di buttarmi dalla finestra della stanza. Chiara si mette sulla sedia e, tenendo il conto con le dita recita: «Poni il tuo onore nel meritare fiducia, sii leale, renditi utile, sappi obbedire…» Alfredo propone un brindisi e Francesco vuole a tutti i costi assaggiarlo. Ne butta giù mezza fiala, si mette a barcollare in mezzo alla sala e soffiare in faccia a tutti il suo alito da ubriaco navigato. Gli adulti ridono. Io vengo risparmiato dal suo soffio; per me ha invece una domanda: «Come mai eri tutto legato a Campumortu, dove ti ha trovato babbo?» Caterina scatta in piedi e gli dà un manrovescio, «Maleducato.» Spariscono tutti, poi Alfredo torna giù, si scusa, apre una dispensa che nemmeno avevo notato e tira fuori una fiaschetta. «Questa l’ho fatta a Natale scorso. Un goccio non ti fa male», la versa in due bicchierini con le foglie disegnate: «Se lo sa il dottore che ti sto curando con l’acquavite, mi ammazza.» La gusta con le labbra e poi mi lancia un’occhiata. «E tu? Niente di nuovo?» chiede. Muovo la testa, a parte un divano rosso e una divisa da sbirro dentro il cellofan, non mi è ancora ritornata la memoria di quel giorno. Poi il discreto samaritano Alfredo fa parlare l’acquavite al posto suo: «Ajò, ma davvero non ti ricordi come ti chiami? Non è che ci stai coglionando a tutti?». La testa mi cade sulla spalla sinistra. Fuori c’è una guerra appena dichiarata fra due bande di grilli.


Sorridi e canta

Nella tenuta Burrai arriva agosto, e ogni giovedì si va in paese ad ascoltare il karaoke in piazza, il venerdì a Oristano per il mercatino. Con noi viene anche mamma Caterina, con le sue canotte gialle, le gambe lisce scoperte. «Mamma, hai ripreso a uscire?» le chiede Francesco, senza ottenere risposta. Nel fine settimana si va a messa in una pineta. Io marco sempre visita: mi lamento di una certa intolleranza allo iodio che mi fa sanguinare e resto solo per qualche ora, a fissare la cassaforte. La combinazione è la data di matrimonio, ogni domenica la apro e guardo il contenuto. Ma non riesco ad affondare il colpo. Come potrei, ora che sono il più richiesto schiacciatore di pinoli, l’incorruttibile arbitro di palla avvelenata, l’unico spettatore dei loro siparietti senza finale? Una domenica portano Cristo nella villa, e non posso più esimermi dalla liturgia. Apparecchiano un altare sul banco da lavoro e lo piazzano in veranda. Al prete danno tutti del tu. Il gran mogol degli scout mi regala un bastone di ferula con degli inni scolpiti. Cantano con chitarra e ukulele, battono le mani, si comunicano, a turno tutti mi stanno vicino per almeno un minuto durante la giornata, così possono raccontarlo ai genitori. Chiara e Francesco gestiscono i turni per il contatto con il loro giocattolo vivente. La bambina ogni tanto mi annusa i capelli o mi tiene la mano e fa in modo che gli altri lo notino. Proprio una delle tante domeniche ukulele, in principio la terra Dio creò, mentre tutti vanno via e si danno appuntamento al mare e mi salutano, arriva una macchina bassa, nera, lunga come non ne avevo mai viste prima. Scende un uomo e parla con Alfredo; poi insieme vengono verso la veranda, dove Caterina mi sta spalmando degli unguenti sulle spalle. È un momento che adoro, e anche lei, così abile con le mani, così attenta a non sfiorarmi i capelli coi suoi seni di madre, così felice di procurarmi piacere. La faccia da faina che sta insieme ad Alfredo puzza di sbirro da venti metri. E Caterina smette di frizionare, parla di una certa commissione urgente in paese. Contro ogni forma di sacra ospitalità, al nuovo arrivato non viene offerto niente. Anzi, i padroni di casa salgono sul Range Rover e mi lasciano solo. Con la faina.

Erano già d’accordo, lo capisco in ritardo, come ogni cosa in questo periodo. Il bidone di nafta è troppo lontano e troppo pesante, c’è giusto una vanga poggiata sul muro, ma non credo di avere ancora una buona tensione muscolare, né il tempo per farlo a pezzi e far sparire l’auto. Quello apre un bloc notes: «Alla fine ci siamo arrivati!» Deglutisco e mi gratto il braccio dentro il gesso con l’uncinetto che Caterina ha riservato per me. «È questa la sua macchina, no?» tira fuori una foto della Lancia; appena tornato a Sassari avrei cambiato la targa, ma tutto è precipitato. Con un pennarello hanno scritto nome, cognome e ultimo domicilio conosciuto. «Questo è il lato venuto meglio. Dall’altra parte è così»; nella seconda foto, la carrozzeria bruciata e accartocciata. «Non era la prima volta che lo facevano, lo sa?» Impugno il ferro, e mi gratto fino a sanguinare. «Di chi stiamo parlando?» «Cercavano un’auto da imbottire. Un’auto pulita. Dovevano imbarcarsi verso la Tunisia», si accende una sigaretta artigianale ammosciata sulla punta, «Mi può dire come ci sono riusciti? Hanno trovato un bravo ragazzo, la ragazza le ha fatto annusare il formaggio, e lei è finito dritto in trappola, è così?» Guardo fisso contro la quercia che Alfredo chiama Pizzente, come suo nonno. La quercia diventa un divano rosso, la divisa da poliziotto chiusa nel cellofan, lei si leva i mini-jeans strappati, la maglietta, calze, slip nel corridoio, va sotto la doccia, sembra mi chiami, col dito, con le mani, con la lingua, mi chiama… io avanzo nel corridoio, qualcuno dice Ciao bello, e il collo mi si chiude. «Non ricordo nulla.» «Hm… Non era il primo pollo, abbiamo trovato una mazzetta di biglietti da visita. Guardi qua, faceva un sacco di cose il tizio: giornalista, installatore… E delle carte di credito con i nomi cancellati. Lui aveva una divisa da poliziotto, rubata da una lavanderia» la faina si alza «Ma adesso è finita» dice fissando anche lui la quercia. «Sono stati arrestati?». «Per l’esattezza sono stati carbonizzati.» Rido. E lui stringe la bocca, indignato. Rido mentre firmo con difficoltà dei fogli. La mano del tizio è una carcassa di lucertola ghiacciata. La macchina lunga e nera e il Range Rover di Alfredo si incontrano sul cancello: un movimento da commedia perfetto.


Sii laborioso ed economo

«Sicuro che vuoi già andare?» Caterina tiene sollevato un lembo della gonna, lo attorciglia come uno straccio, ed entra in casa. Francesco piange a scossoni, Chiara invece preferisce fare un vortice sulla ghiaia, così le lacrime scappano via. È troppo, non vedo l’ora di sconciare la vostra buona azione formato gigante, che vi concederà tutti i lussi di un’area vip del Paradiso. Le vostre preghiere aperitivo; i gridolini da idioti per ogni girino salvato, per ogni ape fotografata, per ogni cazzo di fiore sbocciato. Caterina torna e mi abbraccia, mi avvolge, mi piange addosso. Devo tenere il finestrino abbassato per fare ciao ciao con la mano finché non siamo fuori dal cancello. E non saprò mai quale fazione di grilli ha avuto la meglio. Alfredo fa il pieno al rifornitore, saluta tutti, e a tutti dice che sì, ho deciso di tornare a Sassari. E che mi darà qualche indirizzo utile. Tipo: «Ho un amico che ha una concessionaria dalle tue parti, ti fa il colloquio e poi vedrai che ti prova.» Dal cassettino mi offre una gomma, «Ti abbiamo messo tutto in una valigia. Occhio a non sbatterla, che c’è pure roba preziosa. Basta che non te la bevi tutta a scoppio.» A costo di slogarmi la mandibola dico: «Alfredo, voi avete fatto troppo per me. Veramente troppo. Come posso io…» E lui, anziché incassarsi il complimento e tacere: «Te la dico una cosa? Tu hai fatto tanto per noi. Prima di te, con mia moglie ci stavamo lasciando», fermi in coda per un tamponamento lui tira fuori l’ultima pugnalata, «Tu sei stato mandato.» Dici cose esilaranti, Alfredo di merda. Ci salva un reggaeton. Lui accosta e risponde al telefono. Cambia colore, dice cazz. Poi al tizio che gli urla nell’orecchio risponde: «Io fra un’ora e mezza sono lì.» «Fammi scendere qui», gli dico, «prendo il treno.» «Ma stai scherzando? I miei colleghi sono già sul posto. Tutto sotto controllo, a parte che un ettaro buono è già bruciato.» I misteriosi piromani, loro sì che sono stati mandati dal tuo Dio, Alfredo: mi salvano dall’umiliazione di doverti invitare in casa, di spiegarti la cartina, la stampante artigianale e il plastificatore, il frigo vuoto. Tengo la valigia in piedi tra le gambe, e Alfredo dal finestrino mi mette in mano qualcosa. «Di più adesso non potevamo.» Accende e sparisce nella prima rotatoria. Io piego in tre il pezzo da cinquecento e lo metto in tasca. Insieme a quelli che ho prelevato dal cestino delle offerte e dalle buste per i volontari, posso ripartire da un capitale netto di circa ottocento euro. Non sono riuscito ad abbracciarti, Alfredo del cazzo.


Sii puro di pensieri, parole e azioni

Gli uomini di Madame Falena mi aspettavano dentro casa da giorni. Riconosco subito il guercio e il druido, quello che durante gli incontri versa l’acqua nel pentolone. Dicono che non dovevo fotterli, che gli devo dei soldi. Veri, stavolta. Mi legano, ancora; mi schiaffeggiano con un guanto di ferro; raccolgono la banconota e trovano anche quelle infilate nelle scarpe. Si accontentano. Alla fine, le damigelle di quel frocio infame infieriscono con il bastone del gran mogol. Ma sulla mia testa corazzata di sangue pesto, unico ricordo di mio padre, ogni randellata è un fiore di zucchero. Spariscono. I vicini chiamano la polizia, che si trova davanti solo un uomo nudo a brandelli. E una stampante artigianale, un plastificatore. E un vaso di Pandora più grande di loro. Avrai un bel calo di zuccheri, caro Alfredo, a riconoscermi sul giornale. E da stupido idiota quale sei, so che verrai a trovarmi al parlatorio. Sull’intonaco accanto al letto della cella ho inciso una scritta: sorridi e canta anche nelle difficoltà. Il pusher che dorme sopra di me stanotte l’ha cancellata con il suo vomito acido. «Tanto era una stronzata», ha detto.


Luca Dore è nato nel marzo del 1977 a Sassari, dove tuttora vive e lavora. Suoi racconti sono comparsi negli ultimi dieci anni su A few words, Carie, Esescifi, Writers magazine e diverse antologie italiane. Scrive canzoni in un duo chiamato Palazzo Rosa. Nell’aprile del 2021 è arrivato in libreria il suo primo romanzo, Bravo Charlie, per la Maxottantotto edizioni.


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