“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.
La lettera di oggi è per Gandolfo Conte e il 1º capitolo del suo
“Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato”.
Chi è Gandolfo Conte:
sessant’anni anni, vivo a Palermo. Sono un burocrate che spera di andare
presto in pensione perché non ce la fa più a lavorare dentro
un’amministrazione in cui le regole sono ormai solo un impaccio.
Ho pubblicato qualcosa nel passato e avevo un ammiratore che non ho
mai incontrato, non ha mai risposto alle mie lettere, ma ha sempre
promosso le cose che scrivevo.
La sfiga ha voluto che non andassero mai in porto.
È Stefano Benni.
Caro Gandolfo,
prima di tutto un mea culpa: cerco sempre di non farmi trascinare nella facile ironia contro gli aspiranti scrittori (attività molto in voga nell’ambiente editoriale), ma a volte inevitabilmente ci casco e, ti dirò, quando ho letto che Stefano Benni è stato un tuo ammiratore ho sghignazzato.
Poi ho aperto il file del testo e dallo stuzzicante inizio:
Mettiamo che a Palermo ci siate dovuti venire e che siate arrivati alla Stazione Centrale. La stazione sta in Piazza Giulio Cesare, anche se nessun palermitano lo ammetterebbe mai.
fino alla presentazione del protagonista:
Totino si sente stanco e la giornata è appena cominciata. Ha parcheggiato il lapino davanti al portone di casa ed è salito su a farsi il suo secondo caffè.
Il primo l’ha preso, come ogni giorno da trent’anni a questa parte, che non erano ancora le tre e mezza di notte. Ora dalla finestra della cucina guarda sopra i tetti del Borgo Vecchio il cielo di Palermo farsi chiaro, un azzurro da presepe sul letto rossastro dell’orizzonte. Vi assicuro che è un’immagine da brivido romantico, ma il nostro verdumaio morto di sonno com’è non ci fa caso. O, magari, come succede da un po’ di anni con la moglie, ci ha fatto l’abitudine e neppure la vede veramente, pure se, con la tazzina in mano, guarda proprio da quella parte.
non ho mai staccato gli occhi.
Questa è una cosa che mi succede raramente e quando mi succede sono molto contenta e cerco subito di trovare i motivi per cui mi è successa. E il motivo, nel tuo caso, è una voce coinvolgente e ammaliante.
Gli elementi che tu usi per cominciare li usano due categorie di scrittori: quelli alle prime armi, che cercano complicità con il lettore, si mettono a chiacchierare con lui e intanto scopiazzano dal cinema una panoramica sulla città, e quelli che sanno quello che fanno. Sembra che tu lo sappia.
Io credo tu debba mandare avanti questa storia. La scrittura c’è. Adesso bisogna ingegnare la trama e vedere come tieni in piedi il tuo commissario. Cerca di non perdere la freschezza e di stare attento ai pericoli: delinei un personaggio caratteristico e in un attimo puoi ritrovarti una macchietta; metti su una voce che faccia credibilmente da cicerone, poi se strizzi l’occhio una volta di troppo cominci a stancare.
Cosa importante: costruisci un insieme armonico, un flusso narrativo che trasporti in maniera naturale il lettore da un punto all’altro. Quindi: attento a non creare stacchi. Lo fai, per esempio, e al di là dell’oggettivo stacco grafico, quando chiudi la descrizione di Totino e apri quella di Attilio Martiriano: lì sembra che hai messo insieme due schede-personaggio in maniera forzata, ma è una cosa a cui si può rimediare con poco.
La via che hai scelto è complicata e non è facile tenersi lontano dai guai. Tieni le redini e non scivolare in troppa simpatia, troppa ironia, troppa maniera. Non innamorarti dei tuoi personaggi né della tua lingua coinvolgente: ricorda che sono loro a doversi mettere al servizio della storia, non il contrario.
Buona fortuna e un caro saluto,
Francesca de Lena
Il commissario Cardascio e lo spillone insanguinato
Mettiamo che a Palermo ci siate dovuti venire e che siate arrivati alla Stazione Centrale. La stazione sta in Piazza Giulio Cesare, anche se nessun palermitano lo ammetterebbe mai. Per lui quella piazza non esiste e non l’ha mai sentita nominare. Eppure c’è. Si allarga davanti all’architettura provincialumbertina della stazione centrale e si chiude con la pomposa cortina marmorea, costruita nel ventennio, a far da ingresso monumentale alla via Roma.
Non è più notte e neppure giorno pieno, ma quell’ora incerta in cui la città finalmente rifiata. Le carovane dei nottambuli hanno preso la via di casa e non è ancora cominciato lo strombazzamento del traffico del mattino.
É un’occasione unica per guardarvi attorno perchè, fra poco, non lo potrete fare più.
Mettetevi spalle alla stazione e puntate gli occhi dritto davanti a voi. Oltre le cortine di marmo grigio del suddetto manufatto littorio si apre una strada larga, almeno per i parametri di Palermo. É chiaramente deserta data l’ora e avete la possibilità, camminando di ammirare la cortina di palazzi tardo liberty che la costeggia, giù, giù fino al Palazzo delle Poste, altro regalo del ventennio, maestoso e bianco. Una meraviglia fuori e soprattutto dentro coi suoi marmi neri e il rosso del rame delle pareti.
In fondo, dopo l’hotel delle Palme – così lo chiamano i palermitani – intravvedete una piazza, molto più piccola di quella che vi siete lasciata alle spalle. È Piazza Sturzo, altro nome che i palermitani non digeriscono. Non potendo per oscure ragioni ignorarla, ne storpiano il nome. Se proprio vi interessa sapere come, rivolgetevi ad altri miei, più o meno illustri, contemporanei concittadini scrittori, che su minchiate simili hanno costruito la loro fortuna editoriale. Beati loro!
Piazza Sturzo è propriamente un quadrivio. Una delle strade che vi si intersecano la conosciamo già perché l’abbiamo percorsa per arrivare. Due delle altre le tralasciamo perché non ci interessano. Guardiamo a destra. Lì comincia corso Scinà che tira dritto, almeno a quest’ora, visto che è sgombra di automobili, verso il mare che si intravede appena, come del resto in tutta la città.
Su corso Scinà si aprono una serie di stradine, rimasugli dell’intrico di vicoli della città vecchia. Su una di queste, Via Bontà, arriva un lapino carico di frutta e ortaggi, dal quale scende un uomo, che distinguiamo appena perchè la luce del giorno che avanza e quella della pubblica illuminazione, carente, non ci consentono di più. É un quarantenne del Borgo Vecchio e si chiama Totino. Così da lontano, a vederlo tirare calci come un tarantolato, sembra davvero buffo. Da cotanto tanto scalciare volteggia allegramente per aria qualcosa, che non si riesce a distinguere.
Totino si sente stanco e la giornata è appena cominciata. Ha parcheggiato il lapino davanti al portone di casa ed è salito su a farsi il suo secondo caffè.
Il primo l’ha preso, come ogni giorno da trent’anni a questa parte, che non erano ancora le tre e mezza di notte. Ora dalla finestra della cucina guarda sopra i tetti del Borgo Vecchio il cielo di Palermo farsi chiaro, un azzurro da presepe sul letto rossastro dell’orizzonte. Vi assicuro che è un’immagine da brivido romantico, ma il nostro verdumaio morto di sonno com’è non ci fa caso. O, magari, come succede da un po’ di anni con la moglie, ci ha fatto l’abitudine e neppure la vede veramente, pure se, con la tazzina in mano, guarda proprio da quella parte.