la verità vi prego
Lascia un commento

La verità vi prego: scrivi della mosca, non della ragnatela

“La verità, vi prego” è la posta del cuore della scrittura: inviami un tuo racconto o il primo capitolo del tuo romanzo e ti scriverò una lettera di valutazione franca, pubblica e gratuita. Per sapere come funziona leggi qui.

La lettera di oggi è per @thebigLebowski e il suo racconto “La canzone di Mariù”.

Chi è @thebigLebowski:
Nasco nel 1987 in una città vicina al mare. Da bambina scrivo qualche favola e sogno
di diventare una subacquea. Poi cresco, il mare finisco con il vederlo poco e di favole
non solo non ne scrivo, ma non ne leggo neanche più.
Questo racconto non so cosa sia, ma un poeta che mi piace, scrive: “Nei libri si devono
scrivere cose che ancora non abbiamo confidato a nessuno. Altrimenti si fanno ombrelli,
merendine”. E questo racconto mi mette a disagio, forse troppo.
E forse non significa niente.

Cara @thebigLebowski,

per descrivere Mariù dici che “è crisalide” e che “sembrava fatta di pioggia”. Ma dici anche che “è ragno” e c’è un punto in cui mostri che schiaccia uno di quei ragnetti rossi e poi si succhia il dito, e un altro  punto in cui scrivi:

Lei gli morde il collo, tanto forte che quel liquido marcito ne emerge, e si scompone in frotte di ragnetti rossi, gli stessi che Mariù cerca nei vasi di sua madre e poi si mette in bocca.

Si direbbe che tu stia cercando l’immagine giusta per rappresentare la tua protagonista. Però non la trovi e finisce che ne rincorri una dopo l’altra; e, così come fai per la protagonista, fai anche per la descrizione dei fatti: ti concentri sulle immagini – alcune senz’altro belle: “Pallino passa, e con lui la busta di plastica pare un cane che si porta al guinzaglio” – e mostri i momenti che Mariù vive con la madre Francesca, con Pallino, con il gatto della zia Anna, ma non cerchi una visione d’insieme, una compattezza, una definizione.

Ti crogioli nell’ermetismo e lasci al lettore il compito di raccapezzarsi tra passaggi misteriosi:

Francesca attende il prossimo grano della collana e il prossimo strap, che se c’è vuol dire che Mariù sta combattendo, che continua a respirare. Solo chi si adegua sopravvive e Mariù, per non soccombere, un po’ combatte contro la sua parte malata e un po’ contro il mondo.

e derive poetiche:

deve aver riconosciuto nella ragazza una sorta di filo che lega le anime sgraziate che vengono al mondo in ginocchio e in ginocchio lo attraversano.

Costruisci la ragnatela e perdi di vista la mosca che sei riuscita ad acciuffare. Invece non dovresti, perché quella è la tua storia.

  1. Chi è Mariù, che condizione vive, com’era la sua quotidianità con il padre e la madre.
  2. Poi cos’ha rotto quella condizione: e qui dovresti approfondire quell’evento duro e drammatico che in questa versione dura meno di un attimo, meno del tempo di rendersi conto che è il fulcro del racconto.
  3. Poi arriva il dopo, e con il dopo la domanda che ti devi porre per costruire la verità del tuo racconto: cosa succede dopo un evento del genere? Cosa cambia, come si va avanti? Cosa ne sarà di Mariù e di sua madre? Che ruolo avrà Pallino nella nuova condizione?

Correre verso un finale che “stupisca” il lettore, un finale ancora più tragico della tragedia iniziale, non aiuterà la tua storia a venire fuori. Per chi legge si tratterà solo di un’altra immagine – un’altra immagine dura e tragica, magari anche bella, ma sempre un’immagine – e non di un’inevitabile conclusione. Invece è quella che tu devi cercare: l’inevitabile conclusione che arriva alla fine di ogni buona storia, come un diploma per la narrazione: le cose sono state costruite bene, l’intreccio funziona, adesso bisogna solo salutarsi.

Il tuo compito è accompagnare il lettore dall’inizio alla fine, fino alla porta. Lui non conosce la strada per entrare e nemmeno quella per uscire: tu gliela devi mostrare. Quindi sforzati di rinunciare all’enigmaticità e alla frammentazione, e metti a posto i pezzi. Fai più attenzione alla mosca che alla ragnatela: scrivi i fatti: cosa succede, a chi, perché. Poi, dopo, se vorrai, troverai il modo e gli strumenti per disporre la narrazione come meglio preferisci, e allora, magari, potrai anche frammentarla di nuovo. Ma per ora c’è bisogno che tu inverta i colori della fotografia e scriva di una chiara, netta, inconfondibile mosca rossa intrappolata in una ragnatela sullo sfondo.

Un caro saluto,
Francesca de Lena

La canzone di Mariù

Mariù ciondola per casa.
Gli orli del pigiama blu le finiscono sotto al tallone e glielo riscaldano, mentre le parti anteriori dei piedi fanno ciak sulle mattonelle fredde delle cucina.
Seduta per terra guarda fuori al balcone le piante di sua madre, e dietro di loro le finestre del palazzo di fronte. Passa un dito sul bordo della tazza di latte che malignamente le imprigiona il pollice dell’altra mano nell’occhiello del manico. Se le faccio il solletico, la lascerà andare, pensa. Ma non succede nulla.
Mariù porta i capelli legati anche la mattina presto. Ha il vizio ti toccarseli in continuazione, ma l’elastico è la loro fortezza, spinge via quelle dita ansiose. Una ciocca le è sfuggita. Una sul davanti, che lì i capelli sono sempre più corti e le ricordano che tre anni prima portava la frangia.
Il dito, dal bordo della tazza lo fa planare sul quel mare bianco di latte. Poi ce lo infila dentro perpendicolare. Sente il calore prima sotto l’unghia, poi sulla pelle piegata nella giuntura tra falangina e falangetta. Lo usa come cucchiaino, lo gira nel latte, sempre più veloce. Crea un piccolo vortice e poi si ficca il dito in bocca prima che la goccia acciuffata cada verso il basso. Il latte si è raffreddato. È come l’aria che sta fuori alla finestra e spinge dentro casa la condensa sui vetri, appanna loro e ingrigisce le cose che gli occhi vedono oltre. Ha piovuto tutta la notte. La strada sarà piena di pozzanghere, si dice.
Beve d’un fiato, poi va ad infilarsi il cappotto e gli stivali di gomma rossa.

Strap.
Francesca, sente al di là della porta il rumore della carta quando viene strappata.
Sgrana le sfere del rosario. Ne prende una tra le dita, recita sottovoce ad occhi chiusi. Un po’ dondola avanti e indietro, come faceva da piccola per calmarsi se fuori imperversava il temporale. Poi le dita della prima mano passano l’eredità a quelle della seconda, che così accolgono un’altra piccola pallina di legno.
Strap.
Francesca è regolare nella cantilena e regolare è il rumore che viene dalla stanza di Mariù.
Nel silenzio tra uno strappo e l’altro sente salirsi in petto un groppo che è ansia e paura insieme. Lo caccia via continuando a pregare perché Mariù è crisalide, ma quello non è il suono di pelle che si scuce, di bozzolo che si schiude. Francesca attende il prossimo grano della collana e il prossimo strap, che se c’è vuol dire che Mariù sta combattendo, che continua a respirare. Solo chi si adegua sopravvive e Mariù, per non soccombere, un po’ combatte contro la sua parte malata e un po’ contro il mondo. Un calcio a sé, un calcio a tutto il resto. E così si tira avanti.
È passata un’ora da quando sbattendo i piedi sul pavimento, come se non fossero di una donna dalla sua gracile corporatura ma le zampe di un elefante di un ippopotamo di un rinoceronte, si era fatta sentire al piano di sotto e quello di sotto ancora, ed era balzata in cucina chiedendo dove fossero i giornali. Sua madre mansueta e zelante aveva fatto in fretta ad indicarle una pila di settimane enigmistiche nel cesto ai piedi del divano.
-Sono chiare, non vanno bene- aveva detto l’esile valchiria, e sembrava che stesse per cadere a pezzi. Sembrava fatta di pioggia, sul punto di precipitare sul pavimento e di disarticolarsi in tante piccole gocce.
-Il sole è cattivo. Le particelle di luce mi tolgono l’aria. Se la prendono tutta per loro, non ne lasciano a me- aveva detto. Pareva chiedere aiuto, se ne stava lì, con le gambe magre e tese che uscivano da sotto alla camicia da notte corta. Nello spiraglio della porta socchiusa, Francesca aveva scorto il chiarore del pomeriggio attraversare i fogli leggeri attaccati al vetro della finestra per creare un baluardo.
– Non vanno bene, non vanno bene- aveva detto e ripetuto e cantilenato con le mani sul volto, tornandosene in camera e sbattendo la porta.
Poi erano iniziati gli strap.

Lascia un commento