Ecco il racconto “La canzone di Mariù” di @thebigLebowsky che ha partecipato alla rubrica la verità, vi prego.
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La canzone di Mariù
Mariù.
Mariù ciondola per casa.
Gli orli del pigiama blu le finiscono sotto al tallone e glielo riscaldano, mentre le parti anteriori dei piedi fanno ciak sulle mattonelle fredde delle cucina.
Seduta per terra guarda fuori al balcone le piante di sua madre, e dietro di loro le finestre del palazzo di fronte. Passa un dito sul bordo della tazza di latte che malignamente le imprigiona il pollice dell’altra mano nell’occhiello del manico. Se le faccio il solletico, la lascerà andare, pensa. Ma non succede nulla.
Mariù porta i capelli legati anche la mattina presto. Ha il vizio ti toccarseli in continuazione, ma l’elastico è la loro fortezza, spinge via quelle dita ansiose. Una ciocca le è sfuggita. Una sul davanti, che lì i capelli sono sempre più corti e le ricordano che tre anni prima portava la frangia.
Il dito, dal bordo della tazza lo fa planare sul quel mare bianco di latte. Poi ce lo infila dentro perpendicolare. Sente il calore prima sotto l’unghia, poi sulla pelle piegata nella giuntura tra falangina e falangetta. Lo usa come cucchiaino, lo gira nel latte, sempre più veloce. Crea un piccolo vortice e poi si ficca il dito in bocca prima che la goccia acciuffata cada verso il basso. Il latte si è raffreddato. È come l’aria che sta fuori alla finestra e spinge dentro casa la condensa sui vetri, appanna loro e ingrigisce le cose che gli occhi vedono oltre. Ha piovuto tutta la notte. La strada sarà piena di pozzanghere, si dice.
Beve d’un fiato, poi va ad infilarsi il cappotto e gli stivali di gomma rossa.
Strap.
Francesca, sente al di là della porta il rumore della carta quando viene strappata.
Sgrana le sfere del rosario. Ne prende una tra le dita, recita sottovoce ad occhi chiusi. Un po’ dondola avanti e indietro, come faceva da piccola per calmarsi se fuori imperversava il temporale. Poi le dita della prima mano passano l’eredità a quelle della seconda, che così accolgono un’altra piccola pallina di legno.
Strap.
Francesca è regolare nella cantilena e regolare è il rumore che viene dalla stanza di Mariù.
Nel silenzio tra uno strappo e l’altro sente salirsi in petto un groppo che è ansia e paura insieme. Lo caccia via continuando a pregare perché Mariù è crisalide, ma quello non è il suono di pelle che si scuce, di bozzolo che si schiude. Francesca attende il prossimo grano della collana e il prossimo strap, che se c’è vuol dire che Mariù sta combattendo, che continua a respirare. Solo chi si adegua sopravvive e Mariù, per non soccombere, un po’ combatte contro la sua parte malata e un po’ contro il mondo. Un calcio a sé, un calcio a tutto il resto. E così si tira avanti.
È passata un’ora da quando sbattendo i piedi sul pavimento, come se non fossero di una donna dalla sua gracile corporatura ma le zampe di un elefante di un ippopotamo di un rinoceronte, si era fatta sentire al piano di sotto e quello di sotto ancora, ed era balzata in cucina chiedendo dove fossero i giornali. Sua madre mansueta e zelante aveva fatto in fretta ad indicarle una pila di settimane enigmistiche nel cesto ai piedi del divano.
-Sono chiare, non vanno bene- aveva detto l’esile valchiria, e sembrava che stesse per cadere a pezzi. Sembrava fatta di pioggia, sul punto di precipitare sul pavimento e di disarticolarsi in tante piccole gocce.
-Il sole è cattivo. Le particelle di luce mi tolgono l’aria. Se la prendono tutta per loro, non ne lasciano a me- aveva detto. Pareva chiedere aiuto, se ne stava lì, con le gambe magre e tese che uscivano da sotto alla camicia da notte corta. Nello spiraglio della porta socchiusa, Francesca aveva scorto il chiarore del pomeriggio attraversare i fogli leggeri attaccati al vetro della finestra per creare un baluardo.
– Non vanno bene, non vanno bene- aveva detto e ripetuto e cantilenato con le mani sul volto, tornandosene in camera e sbattendo la porta.
Poi erano iniziati gli strap.
Mariù si affaccia alla finestra e sotto al portico vede passare Pallino.
Lui è un ragazzo bislungo. I contorni del suo corpo sono sottili, tanto che paiono disegnati a grafite da una mano leggera, mano che si rinforza per tracciargli invece le occhiaie color pece attorno agli occhi, tanto profonde che le iridi sembrano isole di ghiaccio in mezzo ad un mare nero. Se ne va in giro con i maglioni di lana anche ad agosto e al braccio porta appesa una busta di plastica che ondeggia simultanea all’incedere dei suoi passi.
Lei non sa come si chiami veramente. Lo chiama Pallino perché è così che lo chiamavano i suoi amici quando erano piccoli e stavano tutti e tre a giocare in cortile, mentre Mariù spiava dalla finestra mangiandosi le unghie sporche di terra dei vasi dei fiori. Giocavano a calcio o al lupo mangia frutta e lui era grasso e lento e gli altri bambini facevano sempre andare sotto lui, così corri e dimagrisci dicevano e lo chiamavano Pallino.
E oggi è magro per questo, pensa Mariù mentre lo vede scomparire nel palazzo. Corre ad appoggiare l’orecchio sulla porta. La sua faccia incastonata tra la mano destra e quella sinistra che stanno lì a tener fermo il mondo, a limitare le vibrazioni per farle sentire bene. Lo immagina fare gli scalini due a due con le sue gambe lunghe e passare sul pianerottolo, sfiorare con le dita l’altro lato della porta a cui lei è appoggiata, prima di infilarsi rapido nell’appartamento accanto. Mariù si muove lungo il muro, segue il rumore dei suoi passi sul pavimento di legno, crede di poter sentire anche l’aria che si infila nei polmoni di lui per tirarne fuori fiato, bramato incandescente amoroso fiato.
Lentamente scivola verso il basso, si appoggia sulle ginocchia e poi di lato. E aspetta.
Ricordi.
Quando Mariù era piccola, una notte i suoi genitori l’avevano avvolta in una coperta di lana arancione e l’avevano portata a stare dalla zia.
Mariù ricorda di essersi svegliata proprio sull’uscio del portone e di aver preso paura. Aveva iniziato a piangere e ad urlare mentre era alta la luna nel cielo e le stelle si potevano contare sulle dita di una mano sola. La mattina dopo si era svegliata con il viso gonfio dalle lacrime e, seduta nella cucina di zia Anna, aveva sentito Rufus, il siamese, passare sotto alla sedia e strusciarsi al suo polpaccio nudo. È nitida anche oggi la sensazione della pancia calda e pelosa del gatto che si gonfia e si sgonfia contro la gamba di Mariù mentre fa le fusa.
Aveva passato qualche ora giocando con lui e poi suo padre era venuto a prenderla. Mariù ne era stata felice, ma aveva già il piglio di una piccola donna e si era concessa il lusso di fare l’offesa per tutto il viaggio di ritorno. Mentre stava seduta sul sediolino davanti dell’auto, lui le aveva sorriso e lei aveva pensato che si stava comportando come doveva, che avrebbe potuto perdonarlo di lì a poco.
Quindi aveva fatto di corsa le scale di casa. Era allegra e lo sfidò a giocare a chi arriva primo. Vinse. Lui arrivò solo dopo qualche istante ad aprire la porta. Appena dentro, Mariù aveva avvertito qualcosa di diverso. Nell’aria c’era uno strano odore che lei non sapeva perché non aveva mai sentito prima, e sua madre stesa sul letto era dimagrita di cento chili tutti insieme. La grande pancia che le era cresciuta sotto alla maglietta negli ultimi mesi non c’era più. Indicò a Mariù la sua vecchia culla bianca e poi la guardò sorridente avvicinarsi alle aste di legno laccato. Tra una e l’altra Mariù scorse un fagotto rosa, piccolo, ma talmente piccolo che pareva una bomboniera, e immobile, tanto immobile che pareva un giocattolo.
-Saluta Marco, Mariù. Lui è il tuo fratellino-. Mariù prese a guardarlo fisso e non sapeva cosa dire, non sapeva se poteva toccarlo. Avrebbe voluto svegliarlo per guardargli gli occhi coperti dalle palpebre sottili quanto un’unghia.
Poi Marco gli occhi li aveva aperti e sembravano acqua fatta ghiaccio, gli occhi di Marco. Mariù restava giornate intere a guardarlo inerte nella culla. E così passavano il tempo a dirsi cose che nessuno riusciva a sentire perché Marco non piangeva mai e neanche parlava. Mariù pensava che forse era perché aveva qualcosa bloccato in gola. Gli prendeva la piccola mano nella sua, giocava con le dita che sembravano di zucchero filato, profumate e morbide com’erano. Poi gli faceva il solletico sotto ai piedi, sul pancino, ma lui niente. Apriva gli occhi, spalancava la bocca, ma niente che ne uscisse. E allora un giorno, mentre la mamma stava in cucina, Mariù decise di vedere cosa c’era nella gola del fratellino che gli avesse rubato la voce. Ci mise tutta la mano nella bocca dischiusa di Marco e con le dita scese in profondità. Tastò le pareti di quel cunicolo di carne con l’indice e il medio, mentre Marco si produceva in ampie smorfie, ma non ci trovò nulla e non riusciva a capire com’è che fosse, che suo fratello non aveva un tappo in gola, eppure non parlava. E continuò a cercare, perché qualcosa doveva esserci. Forse un po’ di plastilina gialla, o un pezzo di mollica ammuffita. Smise quando anche Marco smise di agitarsi e di fare smorfie e di dimenare nell’aria i pugnetti delle mani attaccati a quelle braccia corte e fragili. Mariù smise di cercare quando Marco smise ogni cosa, persino di respirare.
E così il giorno dopo si erano vestiti tutti di nero, tranne Mariù che fu portata di nuovo dalla zia Anna, ma anche la zia aveva la gonna e lo scialle nero e pure la maglia e le scarpe e lei restò con Rufus e sua cugina Maria.
E questa volta, era tardi la sera quando sua madre la venne a prendere, e piangeva e Marco non c’era e neanche suo padre c’era.
Da quel giorno rimasero solo loro due. Loro due e gli abiti scuri di sua madre.
Mariù invece non si vestiva proprio più. Stava in pigiama, anche quando scendeva in cortile, che sua madre le dava il permesso e la stava a guardare dalla finestra al secondo piano. Anche allora restava in pigiama. Solo da sopra si chiudeva l’impermeabile rosso.
Incontri.
Questa mattina si sveglia per il bisbiglìo che proviene dal corridoio. Si affaccia dalla porta leggermente dischiusa della sua stanza e scorge la mamma intrattenersi con la Signora Rosa, entrambe con i gomiti appoggiati sul davanzale, a guardare giù. Parlano di lei. Lo capisce subito Mariù, quando vede la mamma portarsi le mani sul viso e strappare dalla pelle piccole gocce salate. Gesù dammi dei super poteri, prega. Qualcosa che mi faccia stare bene, che la mamma non pianga più. Dammi dei super poteri per non avere più questa luce che mi sta nella testa e che vorrebbe esplodere. Fai stare zitta la luce, Gesù, ti prego.
Ma oggi è un giorno buono. C’è il sole e Francesca che la vede dietro alla porta le dice, scendi, vai a giocare che sei pallida in viso. Prendi aria.
Allora Mariù è in giardino. Appoggia la testa sul terreno umido e vede una miriade di ragnetti rossi arrampicarsi, camminare veloci. Ne schiaccia uno sotto ad un polpastrello, poi si infila il dito in bocca e succhia. Sa di uva bianca, pensa.
Pallino passa, e con lui la busta di plastica pare un cane che si porta al guinzaglio. Si ferma d’un tratto a guardarla. Mariù si alza in piedi nel suo impermeabile. Non distoglie lo sguardo neanche lei. Non lo aveva mai visto così da vicino. É questo che sta dall’altro lato del muro quando la porta si chiude, pensa e non dice nulla. Ha gli occhi fatti d’acqua pure lui, come li aveva Marco.
-Io sono Nico- le dice Pallino che deve aver riconosciuto nella ragazza una sorta di filo che lega le anime sgraziate che vengono al mondo in ginocchio e in ginocchio lo attraversano.
-Io sono Mariù-. Nico resta a guardarla. Il vento gli scompiglia i capelli e gli angoli della giacca di pelle. Anche l’impermeabile di Mariù soffre a restar fermo in questo posto, vorrebbe volarsene via, in alto e accartocciarsi e fare su e giù sospinto dalle correnti.
Poi Nico fa un cenno con la testa. Mariù resta immobile mentre lui si avvia verso il portone.
Mariù confonde la notte col giorno e quando è ancora buio scende in cortile per vedere Nico passare.
Si mette a contare le stelle che scambia per fiocchi di neve. Apre la bocca e se li sente cadere sulla lingua mentre sta seduta sul muretto a gambe incrociate. Poi il fiocco di neve più luminoso le esaudisce il desiderio. Al rumore dei passi sulla ghiaia del viale si aggiunge la sagoma barcollante di Nico.
Mariù si alza in piedi e nel buio i suoi occhi paiono lucciole immobili e sospese.
-Aspetta- gli dice quando quasi le passa accanto senza vederla. Il ragazzo si ferma e la fissa esausto.
-Ho fame. Hai qualcosa da mangiare?-
-Biscotti- risponde Nico e dopo qualche istante le afferra la mano e prende a tirarsela appresso. E anche Mariù si mette a fare gli scalini due a due. Accelera per stargli dietro e non fargli sentire il suo peso. Entra nell’appartamento accanto al suo e pensa alla mamma che si riposa nel letto grande senza poter immaginare nulla.
Si guarda attorno in questo posto sconosciuto che sa di vecchio e desolato. Nico le lascia la mano per accende una luce fioca, poi si getta sfinito su un materasso in un angolo della stanza. Fa come se lei non ci fosse e tutto continua ad essere incredibilmente grigio. Voltato di spalle le dice- i biscotti sono in cucina, fai da te-.
Mariù prende a vagare per casa. Ogni camera è più spoglia di quella appena passata, in un incedere progressivo che sembra allontanarla dalla vita. La cucina è l’ultima in fondo al corridoio. Mariù preme un interruttore ma non c’è lampada che si accenda e lei si rassegna a procedere a tentoni con le piccole mani sul fondo della dispensa. Tocca un pacco e lo tira fuori, è quasi vuoto. Lo piega e se lo mette sotto al braccio prima di prendere a camminare con sicurezza verso là dove sta Nico.
Gli si stende accanto e una mano va ad infilarsi della confezione di carta, ne estrae un biscotto di pasta frolla che mette in bocca e inizia a masticare rumorosamente. Ma Nico dorme e pare di pietra. Mariù ne approfitta per mettergli un braccio attorno alla vita.
E così stanno, fin quando non fa mattino.
Alla luce del sole che trapela dagli infissi, la stanza assume un aspetto migliore. Mancano molte più cose di quante Mariù ne avesse immaginate al buio, ma lei non sente nostalgia di nulla e non prova timore. Tutta la notte l’ha passata sveglia, ben attenta ad accomodare il braccio al torace di Nico che ad ogni respiro si riempiva e si svuotava di aria. Ora sa che deve andare, prima che la mamma si svegli e non la trovi. Si sporge su di lui per dargli un bacio sulla guancia. Indugia qualche istante trattenendo il fiato, con la lingua, poi, gli inumidisce la pelle e si conserva in gola il sapore di Nico.
Il mondo va ascoltato, visto, toccato, odorato e anche assaggiato. La gente normale quest’ ultima cosa se la dimentica sempre. Anche il sudore di Nico vorrebbe assaggiare, Mariù, e come il sudore anche il sangue, anche se è malato. Così dicono. Dicono che a forza di mischiarlo con la polvere che si cucina, il suo sangue è andato a male. Mariù lo immagina cadere a pezzi perché il liquido marcio da dentro gli pulsa e ammuffisce il corpo, ma lei è ragno e gli ricucirebbe la pelle.
Francesca apre la porta della camera di Mariù e la trova stesa su di un fianco. Le dice, alzati, che andiamo a fare la spesa. Ma lei non vuole. Vuole restare a casa, aspettare che Nico si svegli e parlare con lui.
-Non posso lasciarti sola- insiste. -Forza Mariù, non fare storie-. La voce di Francesca è più alta, inizia a incresparsi di rabbia ma Mariù non si muove, non ha intenzione di cedere. Le si avvicina e la prende per la collottola della camicia da notte. Lei si dimena, strepita, sbatte i piedi per terra e una mano sua chiusa a pugno colpisce il viso di sua madre. Gli occhiali fanno un balzo, atterrano che già sono fatti di schegge.
Francesca si deforma in un animale spaventato. Si sottomette. Va via con le spalle che si appoggiano al muro e con in testa una preghiera impronunciabile.
Mariù rovista nell’armadio della mamma, ne cava un abito nero con le spalline sottili. Indossatolo, passa minuti interi a rimirarsi nello specchio. Si mette il rossetto sulle labbra e si scioglie i capelli. Prende a giocarci, e un po’ si arricciano.
Va a bussare a casa di Nico. Quello ne viene fuori manco fosse l’oltretomba. La bocca spalancata e gli occhi segnati di viola. Si chiude la porta alle spalle e prende a camminare veloce verso il portone. Mariù gli sta dietro, gli afferra una manica. Lui seccato si recupera e la strattona.
-Cosa cazzo vuoi? ma chi ti conosce- le dice e Mariù, come sua madre, rimpicciolisce. Va ad occupare un angolo del pianerottolo. Lì se ne sta, mentre Nico attraversa il cortile e poi il cancello esterno.
Quando torna è più calmo. È scesa la notte e Mariù, sempre nello stesso punto, si raccoglie nelle spalle per non sentir freddo.
-Mi dispiace per questa mattina- le dice. -Certi momenti sto male. Tu devi starmi lontana quando succede-.
Mariù fa segno di si con la testa e lo segue in casa quando lui la invita ad entrare.
-I biscotti sono dove li hai lasciati ieri-.
Raccoglie da terra il pacco un po’ più vuoto e si infila sotto alle coperte.
-Sei diversa stasera- le dice mentre le sistema una ciocca di capelli dietro ad un orecchio.
Lei si spaventa e si tira lontano. Lui mette via le mani come armi.
-Sembri più donna. Il rossetto ti sta bene-.
Mariù lo bacia sulle labbra. Ci mette un istante, poi si ferma a pensare. Gli sfiora un braccio con le dita, lui torna a giocare con i suoi capelli.
Ed è subito che lui si afferra alle sue cosce e anche se lei non sa come si fa, Mariù e Nico si amano, e le lenzuola si fanno rosse di Mariù. Lei gli morde il collo, tanto forte che quel liquido marcito ne emerge, e si scompone in frotte di ragnetti rossi, gli stessi che Mariù cerca nei vasi dei sua madre e poi di mette in bocca.
-Allora siamo fatti della stessa cosa- gli dice prima di stendersi sul dorso e immaginare sul soffitto nuvole verde acqua e venti gialli che le sospingono. Si intrattiene per un po’ con questo gioco, mentre Nico assume la sua solita posizione e si corica su un fianco dandole le spalle. Si volta a guardarla silenzioso solo quando lei gli fa una domanda che non si aspetta.
-Sto già morendo?-gli chiede atona. -Ho sentito la mamma parlare con la signora Rosa. Dicevano che chi sta con te, muore. Sto già morendo?-
-Non ancora- risponde lui, che capisce cosa intende quella donna dalle ossa fragili e ricurve tanto che pare Gesù Cristo messo in croce.
-E quando allora?-
-Un altro po’. Ora chiudi gli occhi.-
Quando si sveglia lo trova accanto a lei a guardarla, ed è una sensazione nuova per tutti e due, quella di non essere lasciati.
-Perché vuoi andare via?- dice, invece di chiederle perché vuole morire, che sa che lei intenderà lo stesso le sue parole.
Mariù lo guarda come se non ci fosse alcuna domanda sospesa nell’aria. Nota un neo sotto al suo occhio destro. Ci passa su il polpastrello del pollice e per un istante le sovviene alla mentre un pensiero ordinario: che di quel neo si sarebbe potuta innamorare, se fosse stata un’altra. Poi prende a rispondere alla domanda, come se le fosse giunta alle orecchie solo in quel momento.
-Mia mamma è in pensiero- dice.
-Per te?-
-Per mio fratello. Lei non vuole più che se ne stia tutto solo. Non osa chiederlo, ma vuole che io lo raggiunga e che mi prenda cura di lui.-
Mariù si avvicina un dito alla bocca e comincia a mangiarsi l’unghia senza scollare gli occhi di dosso a Nico.
-Per questo ho fretta- riprende a dire- quanto credi ci vorrà?-
-Un po’. Possiamo aspettare insieme se ti va.-
-Si. Credo di si-.
Mariù si volta su di un fianco e lascia che Nico la accolga tra le sue braccia gracili e stanche. Il cuore di lui succhia sangue e ribatte sulla schiena di Mariù, fino al cuore di lei.
Sono collegati da una striscia di liquido rosso, stanno sullo stesso binario, oramai. Aspettano che si faccia ora di partire.
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