La mia ossessione per i mostri ha una data di nascita. È il 4 ottobre 1992.
Per gli umbri è da sempre una data simbolo: festeggiamo Francesco, il più punk tra i santi, allergico alle regole e pronto solo a prendersi cura degli altri e del mondo attorno a sé. È un altro tempo. Le leghe di orchi e goblin armati di bandiere verdi non hanno ancora cominciato a berciare Prima gli umbri! I tour plebiscitari di Capitan Nutella nei mercati a caccia di vecchine o nei teatri con influencer più o meno reali sono ancora fantascienza, Philip K. Dick ma dopo la peperonata.
Sarebbe più corretto riconoscere all’anima della regione un dualismo gnostico che come un pendolo oscilla tra periodi di comunanza d’intenti con la santità e un egoismo così limitante da far includere nella propria visione del mondo nemmeno la metà del proprio orticello. Siamo in una fase buona: una volta caduto il muro abbiamo accolto gli albanesi, occhieggiandoli di traverso, con la diffidenza nebbiosa di valligiani e contadini. A breve arriveranno “i iugoslavi”. Qui una volta era tutta accoglienza.
Quel giorno io ho otto anni compiuti da poco e nella infinita campagna umbra scompare un bambino di quattro anni. Due giorni dopo i carabinieri lo trovano morto ammazzato in una scarpata. Per dieci mesi leggo i quotidiani (sì, sono un bambino piuttosto particolare) alla ricerca di notizie. Non mi risparmio niente, vado alle elementari ma posso ricostruire con dovizia di particolari l’omicidio di un bambino che ha più o meno l’età di mio fratello. Comincio a dormire poco e male e da allora non ho più smesso. È un periodo di psicosi facili per il paese, un giorno sì e l’altro pure presunte vittime e membri pentiti di sette sataniche raccontano una realtà che ritroverò una decina di anni più tardi nel folle mondo di Hellblazer: il fumetto, da cui poi sono stati estratti il film e la serie tv Costantine (dal nome del protagonista) dove eserciti di satanisti ed angeli si combattono per le anime del mondo.
La realtà è molto diversa e tornerà a galla solo decenni più tardi, quando Pablo Trincia, ex inviato del programma televisivo Le Iene, ricostruirà, in un podcast per il quotidiano la Repubblica e poi in un libro intitolato Veleno, la storia dei diavoli della bassa modenese: il più clamoroso caso di abuso rituale satanico della storia italiana. In sintesi una enorme, tragica e crudele caccia alle streghe.
La nostra locale psicosi diventa la Macchina Nera che si dice guidasse chi ha rapito il bambino. Veniamo istruiti: Non parlare con gli sconosciuti, Lo so, Sì ma non parlarci ancora di più. A casa ci insegnano a dubitare di chiunque perché chiunque potrebbe essere l’assassino. Uscendo dai portoni controlliamo che nessuno ci segua per più di qualche metro o ci offra caramelle, impariamo a camminare più veloci, guardandoci alle spalle, mai soli. Nell’estate del 1993 siamo così elettrizzati che quando un turista francese si ferma in piazza con la sua auto nera per chiederci di indicargli la strada per Assisi noi corriamo via ululando. Il mostro di Foligno lo prendono nell’agosto di quell’anno e solo perché lascia una lunga serie di tracce che lo collegano direttamente alla morte di un secondo ragazzino. Si rafforza così un’ossessione che cresce in forma di sinestesia: il male è una nuvola informe, più simile al fumo nero di Lost (a cui ancora noi orfani della serie cerchiamo di dare un senso logico), che al cliché letterario e cinematografico del serial killer geniale.
Un po’ come accade ne La volontà del male di Dan Chaon (traduzione di Silvia Castoldi, NN editore): lo psicologo Dustin Tillman si ritrova a combattere contemporaneamente il suo passato, brutalizzato dalla strage della sua famiglia ad opera del fratello adottivo, e un presente in cui, rimasto vedovo, sempre più distante dai figli ormai adulti, riempie le proprie giornate con un’indagine su di un serial killer che forse nemmeno esiste. È l’ossessione stessa del protagonista per il male, in un gioco di specchi tra il proprio passato pronto a inchiodare Dustin Tillman ad un destino vissuto guardandosi febbrilmente dietro le spalle, e un presente descritto in un dedalo di spazi soffocanti, tempi differenti e voci dolenti, che rende l’architettura di questo romanzo così interessante, donando al thriller nuova linfa e una vitalità letteraria che non trovavo dai tempi delle prime letture di James Ellroy, un altro peso massimo dell’indagine sul male.
L’estremo interesse per gli esecutori come ricerca di un argine al male stesso. Conosci il tuo nemico, diceva un antico stratega. È così che negli anni settanta del secolo scorso nasce l’unità di scienze comportamentali dell’Fbi, creata per individuare le tracce e poi dare la caccia agli assassini seriali. L’evento alla base di Mindhunter, serie tv basata sull’omonimo libro che racconta le peripezie e gli incubi materializzatisi sulla strada degli investigatori.
Se la prima stagione aveva gettato le basi per diventare una delle ragioni per tenermi vivo fino all’arrivo di nuovi episodi, con la seconda il regista di Seven e Zodiac, David Fincher, ideatore e produttore della serie, ha aperto il museo dell’orrore statunitense. Laddove Stephen King, Clive Barker, Thomas Ligotti, Richard Matheson e tanti altri grandissimi scrittori, pur nelle loro differenze, ci parlano del male temuto, immaginato, incubato, Mindhunter ci mostra senza filtri di ordine morale la devianza che porta al male reale, all’assassinio per piacere, sfogo, pulsione sessuale. Un lungo viaggio attraverso le interviste agli autori di crimini violenti ed efferati: così che a ogni puntata una sala diversa del museo dia la rappresentazione di un edificio sempre più oscuro, affollato di mostri sempre nuovi e sempre più incredibilmente spaventosi.
Tra gli altri, colui che viene chiamato il figlio di Sam: l’assassino newyorchese che dichiarò di uccidere perché istigato dal proprio cane; BTK (dall’inglese Bound, Torture, Kill, cioè lega, tortura, uccidi), assassino seriale di incredibile ferocia ed iconico nella sua rappresentazione televisiva, così potente e spaventosa da rendere inefficace qualsiasi paragone con altri serial killer cinematografici; Ed Kemper, che violentava le teste mozzate delle sue vittime, e che nel corso delle due stagioni sviluppa un rapporto morboso con il protagonista, l’agente Holden Ford, interpretato da un bravissimo Jonathan Groff. C’è poi un momento letterario, in cui il fumo nero di Lost diventa materia tangibile e incandescente: nella quinta puntata della seconda stagione (la perla più luminosa di una serie magica di nove grandissimi episodi), in un confronto sull’essenza stessa della malvagità che pare uscito di peso dalle pagine di Dostoevskij, viene esibito il simbolo negativo dell’america moderna: Charles Manson.
Oltre ai brividi di terrore, reale, come quelli che sentivo da bambino in quei dieci mesi del mostro, ogni volta che un’auto nera sfilava nelle vie sotto casa, Mindhunter ci lascia con una enorme quantità di domande: quanto siamo lontani dal blackout? Quale costo siamo disposti a sostenere per combattere il male? Quanto vicino possiamo arrivare al cuore del nero senza sacrificare una parte di noi stessi?
Fincher traccia un sentiero. Batte una strada. Se Seven era l’incursione nel territorio del possibile e della fantasia al servizio di un assassino geniale e perverso, così come Zodiac è stata la prova di maturità sul tema, lacerante nella sua impossibilità di far luce sul caso, Mindhunter è la discesa in un labirinto oscuro e terribile, senza apparente via d’uscita. Una prova di forza e coraggio nuda e cruda, perché se è vero che i mostri sono fatti per essere scacciati e uccisi, è altrettanto vero che a volte l’unico modo per tenerli a bada è fissarli dritto negli occhi. Anche se poi in un modo o nell’altro si finisce con l’avere gli incubi e dormire poco, a otto anni come a trentacinque.