Visto che siamo più buoni, visto che ci sentiamo di compiere gesti importanti, visto che vorremmo migliorarci o migliorare, visto che siamo colmi di sensi di colpa per le aspettative mancate a settembre, per il tempo che scivola via senza darci tregua, perché “almeno a Natale” dovrei/vorrei: finisce che sotto l’albero chiediamo o doniamo libri. Ma un libro letto o regalato a Natale non è sempre cosa buona, soprattutto se la scelta risponde, come spesso capita ai regali, ai gusti di chi li compie e non di chi li riceve.
ILDA vi augura buone feste con la sua lista alternativa dei libri da non leggere e non regalare se non fanno per voi.
Il suo corpo e altre feste di Carmen Maria Machado, traduzione di Gioia Guerzoni, codice edizioni
sconsigliato da Chiara M. Coscia se
Tra le letture notturne che mi tengono compagnia durante l’insonnia autunnale ce n’è stata una, da poco uscita in italiano, che mi è rimasta addosso come cera colata. Non si scrosta. Il suo corpo e altre feste di Carmen Maria Machado è un libro che non regalerei a chiunque, perché è strano. Weird è la parola giusta, queer è un’altra parola ancora più giusta, e non saprei come tradurle perfettamente senza amputare l’anima viva del libro. Non lo regalate a nessuno che non sia pronto ad affondare, tra fischi alle orecchie e mal di mare, in un lago lattiginoso di figure imperscrutabili. Non regalatelo a chi ama le grandi saghe familiari, i romanzi di ampio respiro e le storie che si srotolano beate tra i saliscendi di trama. Prima di tutto perché non è un romanzo. Sono racconti, circa.
Non credo ci siano molti lì fuori pronti a perdersi nella riscrittura di 300 episodi di Law&Order, così come non credo che a tutti piacciano le storie di fantasmi. C’è una storia di fantasmi, o forse no. C’è una fiaba di quelle terribili, quelle che parlano di madri e bambini. C’è l’apocalisse, anche, ma chi può dirlo davvero, se a raccontarla è un unico personaggio chiuso in un capanno? E poi c’è un nastro verde che se siete un po’ come me vi perseguiterà, perché sembra uscito dalla penna di Angela Carter. Ecco, se non vi piace Angela Carter scappate a gambe levate, perché qui ci sono litri delle sue atmosfere.
È un libro “come l’adolescenza, troppo spaventosa da dimenticare”. Se non vi piace l’idea di avere a che fare, nel giro di poche pagine, con storie di terrore, erotismo, violenza, dolore, amore, sparizione, lasciate perdere. C’è tanta bella roba lì fuori. State lontano da Carmen Maria Machado.
Nostalgia di un altro mondo di Ottessa Moshfegh, traduzione di Gioia Guerzoni, Feltrinelli
sconsigliato da Luigi Loi se
Fossi in voi me ne terrei molto lontan*. Se non vi piacciono i racconti posso capirvi, questi lo sono, e pure tanto: cominci col conoscere una maestra di una bruttissima scuola, capisci che si tratta di un’inconcludente imbrogliona, ubriacona (non è nemmeno poi così brava come maestra, forse non si lava nemmeno), e subito devi abbandonarla al suo destino, perché Otessa Moshfegh ti presenta un altro freak maleodorante, che abita in qualche area dismessa degli Stati Uniti, con un corpo brufoloso, oppure ti fa conoscere un ragazzo bello ma stupidissimo e ignorante, di una stupidità luminosa che diventerà una star di Hollywood solo all’interno del suo encefalogramma piatto. Insomma questa Moshfegh ti presenta sempre una serie di situazioni vissute al limite, come quella del tizio che frequenta le prostitute (e ci fa su delle cose indicibili con le dita) per non dover pensare alla donna che ama segretamente, ma in effetti questa donna che ama segretamente risulta poi essere troppo simile alla prostituta di cui sopra, e quindi risate amare, ma ora basta ridere perché dicevo delle situazioni al limite che Otessa Moshfegh (che si possa fulminare) ti presenta con tutta la miseria del caso, ma senza buttarla giù dura. Prima di tutto perché di miseria ne abbiamo tutti sempre una bella manciata addosso, basta cercare tra le tasche o pettinarsi che vien giù come neve, e poi perché mica si può sempre credere a chi dice tu sei potenza conchiusa e inespressa, tu consisti in te stessa di te paga e in te quieta, certamente, ma non oggi, grazie. Se state scrivendo dei racconti non leggete Nostalgia di un altro mondo, il paragone sarà impietoso e bianco suo candor, il foglio chiederà di rimanere così.
Titivillus. Il demone dei refusi di Julio Ignacio Gonzáles Montañés, traduzione di Roberto Russo, Graphe.it
sconsigliato da Giuseppe D’Antonio se
Nel XIII secolo, Jacopo da Varazze, nella sua Legenda Aurea, riferisce dell’incontro di sant’Agostino con un demone che porta in spalla un enorme codice che contiene “i peccati commessi dagli uomini di tutte le regioni della terra dal principio del mondo”. Qualche secolo dopo, il predicatore francese Pierre Marini, nel suo Sermone sui peccati capitali, identificherà quel demonio con Titivillus, il nostro demone dei refusi.
Comparso nei sermonari e negli exemplum nel XII secolo, Titivillus aveva il compito iniziale di appuntare su una pergamena le sillabe omesse o mal pronunciate dai monaci durante le preghiere e il canto liturgico; ben presto gli si attribuì anche la funzione di raccogliere i pettegolezzi e i vaniloqui dei fedeli durante le messe. Nel tempo, come se non bastasse, gli si cominciò ad attribuire la colpa di aver provocato gli errori degli amanuensi negli scriptoria medievali e, più recentemente, in seguito a un giocoso travisamento, i refusi tipografici.
A tal proposito, si chiarisce quindi il suo – a questo punto: inevitabile e imprescindibile – incontro con sant’Agostino (di cui si diceva all’inizio): santo patrono, appunto, dei tipografi. E diviene altresì manifesto perché, dal momento della sua prima apparizione “nominale” (1230, De Universo, Guglielmo d’Avenia) il suo nome sia stato trascritto e tramandato nelle più diverse varianti: Tutivillus, Tytinillus, Titytillus, Titulinus, Tutenillus, Tytyuillys, Titevullus, Titinellus… contrappasso inevitabile per il “demone dei refusi”.
Il librino di Gonzáles Montañés indaga, con piglio accademico e lieve, la storia e lo sviluppo di una divertente leggenda tutta editoriale forgiatasi su una sequela di fraintendimenti più o meno voluti. Sconsigliato a chi non si interessa di robe editoriali e a chi ha già qualcuno contro cui imprecare quando si trova di fronte a un refuso.
La pura superficie di Guido Mazzoni, Donzelli
sconsigliato da Marco Terracciano se
È l’ultimo libro che regalerei a Natale. C’è questa poesia, Essere con gli altri, che inizia così:
L’opacità degli altri mentre vi vengono incontro
per porre limiti, per definirvi, letteralmente. Siamo a disagio con loro,
usiamo le frasi per nascondere o mediare, le parole,
tutte le parole, sono un appello o un’aggressione, anche queste.
Non si sentono campane che suonano in questi versi. Una delle parole più ricorrenti è ‘disagio’, poi ‘angoscia’, ‘solitudine’, ‘cazzate’, ‘superficie’. Una lunga serie di personaggi si aggira per un mondo asettico, sfibrato e scolorito. C’è quello che sale su un autobus e odia tutti, dallo studente fuorisede al filippino; c’è chi entra in paranoia guardando una mosca sbattere sul vetro; c’è una mamma che porta il bimbo al parco e passeggiando si guarda e si detesta; c’è quello che sale sulla metro e non volendo arriva al capolinea, guarda gli altri e «vuole distruggere o capire». Le persone ne La pura superficie si urtano, non entrano in relazione, men che meno si abbracciano o si scambiano regali e se lo fanno odiano la patina di convenzione che avvolge le confezioni. Sentono solo quella.
Mazzoni non racconta, però, il destino di tanti piccoli Grinch. La pura superficie è una raccolta di poesie senza desiderio, un’antologia di vite che restano in superficie anche se guardate da dentro. C’è un unico grande nodo che le tiene insieme: è una specie di groppo in gola che avvertono tutti, indistintamente, quando capiscono che non c’è più modo di mostrarsi agli altri. Gli «altri», antagonisti di un’epica senza eroi. La poetica di Mazzoni non è un jingle natalizio, è un esame di coscienza collettivo in un mondo ipermoderno che ci vede come spettri, intangibili e attraversabili.
Lo stradone di Francesco Pecoraro, Ponte alle grazie
sconsigliato da Mauro Maraschi se
È un libro da non regalare a natale a chi non ama l’autofiction e/o gli anti-romanzi, a chi preferisce una trama lineare, la lingua addomesticata e omologata di quegli autori italiani che leggono soltanto americani, o una visione del mondo usurata nella quale identificarsi per pigrizia («un uomo accoglie soltanto ciò che già conosce», diceva Thoreau). A metà tra narrativa e saggistica, assimilabile ad alcuni lavori di Sebald, e focalizzato sull’innominata Capitale quale emblema e apoteosi della peggiore italianità, Lo stradone è quel tipo di ibrido che si rifiuta di sottostare alle regole del facile prodotto editoriale, e che per via di questo suo rifiuto si rivela quanto di più attraente per il lettore desideroso di crescere. La voce di Pecoraro, originale e vivida come poche, si accanisce in questo caso sull’anzianità e sulla morte, ed è per questo che Lo stradone non è un romanzo da regalare a natale a chi preferisce essere obnubilato dalle abbuffate, dai festeggiamenti e dagli automatismi delle festività.
P.S.: Io l’ho già regalato a due
Momenti straordinari con applausi finti di Gipi, Coconino Press – Fandango
sconsigliato da Giacomo Faramelli se
Vi avverto subito.
A regalare Momenti straordinari con applausi finti, una graphic novel, volgarmente detta storia a fumetti, scritta e disegnata da Gipi, a Natale si rischia di non essere presi sul serio.
– Davvero mi hai regalato un fumetto per Natale?
– Uhm, sì, ma vedi che è una storia pesante. C’è uno che gli sta morendo la mamma e…
– Ma è un fumetto, magari muore e ti fa ridere.
In effetti il protagonista è un comico che per necessità si trova a imbastire sketch sull’agonia della madre e questo non aiuta a raggiungere il sussiego e la serietà che ci si attende dall’amico/parente letterato e dai libri che regala. C’è poi tutta la fastidiosa questione sulle allucinazioni dell’eroe, un intreccio di tempi, luoghi e personaggi differenti che rende oltremodo inverosimile che qualcuno prenda sul serio questa storia. A titolo di esempio il protagonista sente un uomo primitivo urlargli dentro, si perde dietro ad un gruppo di astronauti perduti nello spazio e non riesce a togliersi dagli occhi un bambino di dieci anni che riluce di raggi dorati. Se non fosse per la totale sincerità di quest’uomo, dello stordimento suo e di chi legge provocato da una catena di piccoli e grandi dolori, levigati da una scrittura scarna e sempre precisa, saremmo portati a dare ragione al bambino dorato che in una pagina della storia ci guarda e mima con le mani la parola coglione.
E invece. Al momento dello scarto dei pacchi si può rischiare di non essere presi sul serio dal destinatario, certo, perché nessuno prende mai troppo seriamente la vita degli altri, salvo poi accorgersi che è possibile perdersi nello spazio, pensare a qualsiasi cosa ci tenga lontani dalla vita, rivedersi e sentirsi sempre bambini e dorati. Certo può capitare di sentire anche l’uomo primitivo urlare. Se vi concentrate, ma proprio fino a spremervi, lo sentirete ululare e grugnire nel momento esatto in cui scarterete il pacchetto contenente l’ennesimo pigiama di flanella.
Preghiere esaudite di Truman Capote, traduzione di Ettore Capriolo, Garzanti
sconsigliato da Valentina Grotta se
Preghiere esaudite è l’ultimo libro di Truman Capote. È uscito da poco nella nuova edizione di Garzanti, con la prefazione di Nicola La Gioia. Si tratta di un libro complesso, che prevede la conoscenza dell’ambiente culturale dell’epoca, nonché dei riferimenti artistici di cui lo stesso Capote faceva parte. Se non si conosce l’America, se non si è letto almeno A sangue freddo, il libro è vivamente sconsigliato. La lettura potrebbe non essere semplice nemmeno per coloro che hanno paura di leggere un Capote arrabbiato, spietato e sulla difensiva, completamente votato a dire “tutta la verità, nient’altro che la verità” sulle persone che lo avevano accolto, supportato e persino amato. Non è indicato per chi non considera il pettegolezzo la forma prima di racconto, e per chi lo teme o se ne sente minacciato in qualche modo. Anche per questo sconsiglio il libro a chi teme di scoprire l’amara verità a proposito dei propri idoli cinematografici, per chi teme di vederli brutti, sporchi e umani. Il libro non va bene nemmeno per chi ama i finali, di qualunque tipo, perché il libro non ha un finale: è rimasto incompiuto e forse Capote non era nemmeno più convinto di portarlo a termine. Il finale del libro è stato la morte dello scrittore, oramai ripudiato dagli amici che si sono visti ritratti in un modo ingiusto e crudele.
I quindicimila passi di Vitaliano Trevisan, Einaudi
sconsigliato da Francesca de Lena se
Il sottotitolo di questo romanzo, che nella copertina non si vede, è “Un resoconto”. Me ne sono accorta a fine lettura, tornando indietro con la voglia di studiarlo. Mi è sembrato un piacevolissimo caso il richiamo a un altro romanzo che quest’anno ho letto e studiato: Resoconto di Rachel Cusk. Dev’essere perché mi interessa vedere non tanto come gli avvenimenti si vivono, ma come si riportano. Perciò: non leggete questo libro e non regalatelo se ciò che cercate nella letteratura è l’immedesimazione. Non sarà facile immedesimarvi nell’ossessivo Thomas, e men che mai nel patologico fratello e nella sorella morta, suoi coprotagonisti, perno del flusso di pensieri che scandiscono il percorso di Thomas da casa allo studio del notaio: laddove scoprirà una Verità (davvero poco importante, io al momento l’ho dimenticata). Difficile che avrete una gran voglia di leggere le pagine sul suicidio forse più belle della narrativa italiana contemporanea, parte di quel saggio che Thomas (e forse Trevisan? Speriamo) ha in mente di scrivere con metodo scientifico:
Che tipo di corda ha usato, questo mi interessa. Che tipo di nodo, la lunghezza della corda. In che stanza della casa si è impiccato, a che ora, che albero ha scelto per impiccarsi, a che altezza da terra si trovava, se si è arrampicato sull’albero, se è salito su una sedia per raggiungere la trave, magari su uno sgabello, magari su un tavolo. Se ha lasciato o non ha lasciato un biglietto, e se ha lasciato un biglietto o una lettera, allora il contenuto di quel biglietto, di quella lettera. Se ha consumato un ultimo pasto e se sì, allora dove, come, consistente in che e in cosa questo ultimo pasto. Questo mi interessa, pensavo, questo e niente altro.
Difficile che possiate appassionarvi alla scelta delle note a piè di pagina, poche, misurate – non c’è l’eccesso maniacale wallaciano che ha dettato moda in questo ventennio – calzanti e al contrario: non post-spiegazioni autoriali, ma citazioni altrui che concludono e riempiono la prosa dell’autore, talmente calate nella storia che ci si chiede se sia venuta prima la lettura dei testi citati (e l’autore, ispirato, giù a scrivere) o la scrittura di Trevisan (poi, studioso, a cercare i riferimenti che facevano al caso). E tutta questa non-immedesimazione per cosa? Per scoprire che è sempre la stessa strada: i nostri percorsi, i punti raggiunti, i nostri passi, gli incroci e le tangenti sono sempre lo stesso viaggio, sempre lo stesso posto, siamo (solo) noi. È inutile leggere le storie degli altri, meglio fare il resoconto delle nostre, e provare a uscirne vivi. Ma come si arriva a questa consapevolezza senza leggere I quindicimila passi? Buon Natale.
Future, Il domani raccontato dalle voci di oggi, a cura di Igiaba Scego, Effequ
Sconsigliato da Primavera Contu se
Future-il domani narrato dalle voci di oggi, a cura di Igiaba Scego, effequ, è un libro da non regalare, non leggere e non acquistare se non vi appassionate ai racconti, con quel loro continuo e crudele farvi-innamorare/illudervi/abbandonarvi. Sono racconti, è nella loro natura farci soffrire: facciamocene una ragione. E questa è la prima cosa. La seconda è che Future non è un libro da regalare a chi crede che la letteratura femminile esista e sia una cosa codificata (romantica? Leggera? Per anime sensibili?). Non è da regalare a chi ama leggere “racconti scritti da donne”, a chi ha una forte opinione sul genere (e non parlo di genere letterario, che qui è volutamente misto, pronto a creare confusione e sorpresa). La terza, è che Future non è un libro da regalare a chi ha delle idee rispetto alla letteratura africana, alla letteratura migrante, o alla letteratura delle “seconde/terze generazioni”. Perché se queste idee le avete, preparatevi a delle pagine che fin da subito vi diranno “no, non è così, almeno, non nel mio caso”. Perché Future è una pluralità di voci disomogenea ma compatta, un coro diversificato dove ogni scrittrice ribadisce la propria storia (che non sempre è autobiografica, per quanto il pregiudizio potrebbe indurci a crederlo), ma lo fa insieme alle altre. Future non è da comprare, leggere, regalare a chi ha delle idee precise sulla propria identità italiana: le farà vacillare. Non è un’antologia che lascia spazio al fardello dell’uomo bianco: liberatevene prima di leggere queste pagine, o, se non è possibile, fatelo sedere accanto ad ascoltare. Future non è da regalare a chi si sente troppo lontano dagli afroitaliani, e neppure a chi è convinto di essere vicinissimo a loro: non ditelo agli altri qua sopra, ma è proprio per questo motivo che ho il sospetto che Future potrebbe essere il regalo adatto per tutti, questo Natale.
Bellissimo e utilissimo post!
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Grazie mille, ci fa piacere 🙂
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