La longevità dei libri è molto variabile: pochi sono eternamente in catalogo, altri vivono un decennio di gloria, altri finiscono troppo presto al macero e si ripropongono soltanto sui canali di vendita online, con lo status di rarità e a prezzi irragionevoli. Non sempre, però, la durata della vita di una specifica edizione è proporzionale al valore del libro messo in commercio. Ci sono libri che, per i motivi più disparati, meriterebbero di tornare dall’oblio: Desiderata è la rubrica che invita ad accorgersene.
DESIDERATA #2
Mediocrità
(1907) di Futabatei Shimei (1864-1909).
In patria Futabatei Shimei (pseudonimo di Hasegawa Tatsunosuke, 1864-1909) è una figura fondamentale nella storia della letteratura nazionale, sia in quanto autore del primo romanzo moderno giapponese, Ukigumo (1887), sia in qualità di critico e traduttore. Da sempre affascinato dalla letteratura russa, e in particolare da Turgenev, Shimei tradusse decine di testi e contribuì alla loro diffusione in Giappone: così come i suoi romanzi furono influenzati da quelli russi, allo stesso modo le sue traduzioni ispirarono molti giovani scrittori alla ricerca di nuove forme espressive. In narrativa Shimei inaugurò la tendenza ad allontanarsi dalla lingua letteraria classica a favore di quella colloquiale, che meglio si prestava all’analisi psicologica dei personaggi all’interno di un contesto sociale in mutamento.
Shimei scrisse tre romanzi: il già citato Ukigumo, Sono omokage (1906) ed Heibon (1907). In Italia, nell’arco di un secolo, è stato pubblicato soltanto l’ultimo, Mediocrità, uscito per la prima volta con Einaudi nel 1941 (ventisettesima uscita della collana Saggi) e ristampato per la seconda e ultima volta sempre da Einaudi nel 1983 (Nuovi Coralli, 335); le due edizioni usano la medesima traduzione, ma con una differenza importante: nell’edizione del 1941 non appare il nome del traduttore (nell’introduzione si fa riferimento a una prima persona plurale: “È in sostanza questo il motivo per cui abbiamo tradotto il libro”), mentre nell’edizione del 1983 la traduzione è addebitata a Luca Lamberti. Si potrebbe immaginare che nel 1941 il lavoro di Lamberti non fosse stato riconosciuto, ma le cose non sono andate così, dal momento che Lamberti ai tempi non esisteva nemmeno e che, anche dopo, è stato più che altro un fantasma.
In un prezioso articolo sulla rivista specialistica Tradurre, Ernesto Ferrero ricorda che Mediocrità fu tradotto per la prima volta negli anni Ottanta da Luca Lamberti, svelando però che si trattava di uno pseudonimo redazionale ideato da Daniele Ponchiroli e in seguito adottato da Gianfranco Contini e altri einaudiani. In realtà, almeno in quel caso, nel 1983 il fantomatico Lamberti non tradusse nulla, e si limitò a patrocinare una traduzione preesistente, di genitori ignoti e con discrete probabilità realizzata a partire dalla traduzione inglese (quella del 1927 a opera di Glenn W. Shaw per Hokuseido Press). La pratica di tradurre da una cosiddetta lingua ponte, d’altronde, è diffusa nell’editoria italiana fin dai suoi albori.
In un altro articolo su RivistaTradurre.it, Norman Gobetti scrive: «Checché se ne pensi […] le traduzioni di traduzioni si sono sempre fatte, si fanno ancora e probabilmente si continueranno a fare. Non solo: alcuni dei testi capitali su cui si è formata la nostra cultura sono stati letti da generazioni di italiani in traduzioni di traduzioni: basti pensare alla Bibbia, la cui unica versione in lingua italiana autorizzata dalla Chiesa cattolica è stata fino ai primi del Novecento quella dal latino di Antonio Martini, […] o alle Mille e una notte, giunte a noi attraverso versioni francesi, inglesi e addirittura russe». Sempre secondo Gobetti, le cose cominciarono a cambiare nel 1939, quando il traduttore ombra Domenico De Paoli fece causa alla casa editrice Corbaccio, che quattro anni prima aveva dato alle stampe il più importante tra i classici giapponesi, il Genji monogatari di Murasaki Shikibu, addebitandone la traduzione all’orientalista inglese Arthur Waley: «La casa editrice fu condannata a “ritirare dal mercato tutte le copie del volume già edite e a indicare in future eventuali edizioni il De Paoli quale traduttore dell’opera stessa” (Il diritto d’autore 1939, 217). Il traduttore del traduttore affermava così i suoi diritti». In seguito, dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta, il numero dei libri tradotti dal giapponese (e dal cinese) è aumentato, ma in parecchi casi gli editori italiani hanno continuato a farli tradurre da lingue ponte piuttosto che affidarli ad accademici esperti di letteratura e culture asiatiche, sia perché i traduttori dall’inglese e dal francese erano più rodati e numerosi, sia perché le edizioni straniere si avvalevano già di curatele autorevoli.
Da allora le cose sono molto cambiate, eppure alcune lingue continuano a ricevere un trattamento meno filologicamente rigido di altre. Il giapponese è tra queste. Basti pensare che il libro più famoso di Yukio Mishima, Confessioni di una maschera, è tutt’oggi nel catalogo Feltrinelli nella traduzione realizzata nel 1969 da Marcella Bonsanti a partire da quella americana di Meredith Weatherby. Anche i due libri più noti di Osamu Dazai, Il sole si spegne (1947) e Lo squalificato (1948) sono presenti sul mercato italiano in due traduzioni dall’inglese, adottate contemporaneamente da Feltrinelli e da SE Studio Editoriale: la seconda è opera della succitata Bonsanti, mentre la prima fu firmata nel 1959 da Luciano Bianciardi, non nuovo a traduzioni da lingue ponte (nel 1955, alla sua seconda esperienza come traduttore, si era occupato di un altro classico moderno, La vera storia di Ah Q e altri racconti del cinese Lu Xun; la sua traduzione è tuttora in uso presso SE); sempre riguardo Dazai, si segnala che la raccolta di racconti La studentessa, pubblicata da Atmosphere Libri nel 2019, è stata tradotta dal giapponese da Alessandro Tardito.
Negli ultimi anni i casi di traduzioni da una lingua ponte sono in calo costante, anche in relazione a un’impennata di interesse per la letteratura giapponese che riguarda sia gli autori più noti che le nuove leve. Da autore di nicchia, Natsume Sōseki è diventato popolare a partire dal 2006 grazie alla prima pubblicazione, da parte di Neri Pozza, di Io sono un gatto, romanzo del 1905 che ha atteso un secolo per incontrare il pubblico italiano (dello stesso autore si consiglia anche Anima, 1914, SE, 1993, 2015). Simile destino per Kenzaburō Ōe (1935-vivente), Premio Nobel nel 1994, che Garzanti sta riproponendo in modo elegante e sistematico. Tanti sono i nuovi autori ospitati dalla grande editoria quanti i piccoli e medi editori che stanno saggiando questo e altri territori linguistici meno battuti. Di norma, predomina ormai la prassi di tradurre dall’originale, ma anche per i casi in cui si ricorre ancora a una lingua ponte risulta impossibile produrre un discorso generalizzato che valga per tutte le realtà editoriali; come ricorda Gobetti, ci sono troppe variabili: «Traduzioni da edizioni in lingue ponte realizzate con la collaborazione dell’autore e per questo usate come versioni standard per il mercato internazionale, traduzioni realizzate a quattro mani da un madrelingua che non padroneggia del tutto l’italiano affiancato da un traduttore italiano che non conosce bene la lingua di partenza, traduzioni effettuate dalla lingua originale ma appoggiandosi in modo più o meno cospicuo a edizioni già esistenti in altre lingue, e via dicendo». Eppure, anche quando il risultato appare impeccabile, e sono addotte tutte le possibili garanzie, sono in molti a chiedersi se ci siano ancora i presupposti, nell’era della globalizzazione, per preferire una traduzione da lingua ponte: considerata la distanza tra l’italiano e il giapponese, più che in altri casi il traduttore può essere costretto a rielaborare una frase, a ricorrere a perifrasi e parafrasi, a decidere con quanta fedeltà restituire i riferimenti culturali, e così via, con il risultato che il secondo traduttore, quello dalla lingua ponte, inizia il suo lavoro a partire da una serie di scelte già fatte e, a meno che non conosca anche il giapponese, rischia di incappare in quegli slittamenti di senso da telefono senza fili.

Autore: Futabatei Shimei
Titolo: Mediocrità
Titolo originale: (平凡, Heibon)
Traduzione: Luca Lamberti (pseudonimo redazionale)
Editore: Einaudi, 1941, 1983
Nel caso di Mediocrità, va detto che, nonostante i suoi ottant’anni, la traduzione Einaudi risulta ancora fresca: chiunque l’abbia realizzata nel 1941 forse non conosceva il giapponese, ma di certo sapeva scrivere. Può bastare l’incipit per innamorarsi del romanzo (e per decidere di comprarlo, qualora dovesse tornare sugli scaffali di una libreria): «Quest’anno ne compio trentanove. Se è vero che la durata media della vita umana è di cinquant’anni, non mi aspetto di scendere nella tomba quest’oggi o domani; ma il futuro, benché appaia lungo, è molto breve. […] Mentre diciamo “Ce n’è, ce n’è ancora”, ecco che giunge inaspettato il momento di andarcene, e siamo all’ultimo addio. Allora abbiamo un bel dibatterci e torcerci: è troppo tardi. Per chi voglia prendere una decisione, è questo il momento». Il nichilismo di Shimei, la sua concezione dell’inetto (da lui chiamato “l’uomo superfluo”), non sono solo ammalianti, ma si pongono come testimonianza dello smarrimento culturale attraversato dall’Oriente nel corso del secolo e immortalato anni dopo da Dazai ne Il sole si spegne. Le riflessioni della voce narrante sono semplici e spietate: «Tutti probabilmente si chiedono come mai non si sono svegliati dieci anni prima, ma tutti comprendono, garantito come se ci fosse il timbro, che sono in ritardo di dieci anni. Quando considero che i giovani che ridono di noi saranno presto derisi dai giovincelli che verranno, e con ogni probabilità scenderanno nella tomba pieni di rimpianti, tutto quanto mi ha un’aria così transitoria e disgraziata che mi sento imbambolato e vorrei piangere». E ancora: «Per quanto ci ripensi, non c’è assolutamente nulla di esaltante nel ricordo; e non c’è dubbio che non una singola cosa in esso mi è riuscita: tutto è finito male. Eppure, quel fallitissimo passato ha per me una specie di incanto. Per quanto i miei pensieri siano pieni di rammarico, mortificanti e strazianti, tutto il mio cuore ne è, come dire, affascinato». La masturbazione è motivo di rossore da romanzo russo: «I miei amici si “distraevano” con molta stravaganza, si “distraevano” in modo eccessivo e temerario. […] Una volta che uno più anziano di me mi invitò, non volli saperne di andare con lui, e quello mi canzonò insinuando che mi davo alla venere solitaria. A mia vergogna, la congettura era giusta, e divenni furibondo. Cambiai colore e viso, l’alterco violento finì in un pugilato e infine ruppi con lui ogni rapporto». Senza falsi pudori, il protagonista addebita il proprio sfacelo alla libido: «[…] vivevo angosciato perché non potevo soddisfare i miei desideri sessuali come volevo. Non ne capisco il motivo ma non potevo trattenermi dal considerare tutta quanta la vita con pessimismo»; cerca quindi rifugio nella letteratura: «Sostituendo alle donne un po’ di letteratura, io ne abbellivo la mia corruzione»; il suo, però, si rivela un espediente sterile: «La funzione genuina della letteratura è di abbellire la corruzione dell’uomo e di rendere più effeminati gli effeminati. Volete dire che il mio modo di considerare le cose è da pervertito? Che vedo soltanto i mali e non i vantaggi? Ma non è forse la realtà della letteratura la vittoria del male sul bene?»
Goffo, cervellotico, maledetto, patetico e amante della letteratura russa come il suo creatore, il protagonista di Mediocrità merita uno spazio nell’immaginario dei lettori italiani. Sarebbe anche tempo di dare alle stampe gli altri due romanzi di Shimei; se può essere un incentivo, si sappia che sia Ukigumo che Sono Omokage sono stati tradotti in inglese, il primo nel 1967 da Marleigh Grayer Ryan, con il titolo The Drifting Cloud, e il secondo nel 1919 da Gregg M. Sinclair, con il titolo An Adopted Husband. Ci si aspetta, però, che alla sua terza apparizione Mediocrità si avvalga di una traduzione dal giapponese: sono trascorsi quarant’anni tra la prima e la seconda edizione, e a breve ne saranno trascorsi altri quaranta da quella del 1983 – è stata un’attesa sufficientemente lunga. L’editore che dovesse decidere di regalare a Shimei una nuova vita (o una degna sepoltura), si troverebbe in mano un capolavoro e altri due romanzi che (stando a saggi, recensioni e pareri relativi alle edizioni straniere) sembrano coerenti e parimenti godibili. Come se non bastasse, Shimei è morto nel 1909, per cui è fuori diritti. Editori, che aspettate? Vi si chiede soltanto, quantomeno per educazione, di parlare la sua lingua.