di Marco Terracciano
Il pretesto
Arianna Ulian, autrice di La questione dei cavalli, primo volume della collana Fremen curata da Giulio Mozzi per Laurana, è giunta alla sua prima prova letteraria con un corredo immaginativo composto in sostanza da tre elementi: un pretesto, una città e una prospettiva. Ne ha ricavato una storia multiforme e polifonica, dichiaratamente sperimentale, tanto semplice nell’intuizione quanto complessa nella struttura e nello stile.
Questa la trama: in occasione della preparazione di un western a Venezia – idea del celebre e visionario regista Mr.C che ha intenzione di girare un ambizioso sequel di Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii – accade un incidente che coinvolge i sette cavalli da impiegare durante le riprese in laguna. In breve: non riescono a sbarcare. Lo racconta Mauro Gallone – proprietario di un’agenzia di casting per animali –, insieme ad altri addetti ai lavori, rivolgendosi a una giornalista che sta provando a ricostruire i fatti dopo qualche anno. I cavalli sono «neofobi», temono le cose nuove, per cui l’idea di attraversare la laguna sulla chiatta, su cui pur sono addestrati a salire, li confonde e li agita. Vengono bendati e sollevati di peso con un complicato sistema di cinghie, gli addetti ai lavori sono preoccupati dalle reazioni degli animalisti, si moltiplicano le grane burocratiche. Tutti sono colpevoli ma nessuno si sente colpevole. Al momento dello sbarco, dopo la traversata sulla chiatta, ogni manovra si rivela inutile. In più, si scopre che i cavalli sono malati. Alla questione che dà il titolo al romanzo se ne aggiungono altre, alcune inspiegabili, altre difficilmente prevedibili: dalla comparsa di una strana muffa rosa sulle mura della città, all’ammutinamento delle comparse del film che, indossando i costumi di scena, si rivoltano contro la troupe; fino alla scomparsa di un bambino autistico – sulla natura del suo disturbo il romanzo ci lascia volutamente in dubbio – di nove anni, il solo che sembra aver empatizzato con gli sfortunati animali. Si chiama Momo, il diminutivo di Girolamo, ed è lui la prospettiva di cui si serve la Ulian per far girare la sua storia.
La prospettiva
Nella postfazione al romanzo Dario Voltolini scrive: «le immagini che ne ricaviamo [dalla lettura del testo ndr] sono rarefatte e preziose: ci rendiamo conto di averle metabolizzate con lentezza e dolcemente, ma una volta in noi cominciano a lavorare e a produrre pensiero». Di questo tipo è la percezione che abbiamo di Momo, una presenza rarefatta che è quasi un punto di fuga della storia, una funzione che la determina e allo stesso tempo la contraddice. Momo è un bambino che guarda ruotare il suo cappellino rosso attraverso l’oblò della lavatrice, convinto di preservarne il colore con la sola imposizione dello sguardo:
Certe bambine gli hanno predetto che a furia di lavarlo diventerà rosa pelle, orribile colore delle bambole esangui e delle nuvole nei bigliettini pasquali. Lui aspetta il sabato verso sera e si mette in mutande, sudato, prima di fare il bagno, con la bocca poggiata sulle ginocchia, il sale e il ferro sulla punta della lingua, accovacciato davanti all’oblò, a seguire quella schiuma rosa come sangue misto a polvere sulle ginocchia o come schiuma dietro le lance al tramonto sul Canal Grande. (p. 31)
Ha, inoltre, un grosso problema col «reiterare», ossia – a quanto pare di capire dalla lettura di alcuni stralci di conversazione coi genitori, tutti rigorosamente senza virgolette – la tendenza a fissarsi su un pensiero, una parola o un’immagine e ripeterla compulsivamente. È un atteggiamento causato forse da una capacità sopra misura di raccogliere il mondo con gli occhi e non essere in grado, poi, di restituirlo agli altri così come lui lo vede. I capitoli che lo riguardano – Momo è spettatore coinvolto, a modo suo, nei fatti concitati di quei giorni – si alternano a quelli in cui vengono intervistati i responsabili del mancato sbarco dei cavalli, e producono un oscillamento serrato tra due piani temporali. La sua presenza, oltre a dare un contributo simbolico e semantico alla storia – il contributo decisivo che permetterà di inchiodare sulle pagine conclusive il senso dell’intero romanzo –, è la chiave dello stile e della forma: il linguaggio usato per raccontare il suo originale punto di vista, così emotivo e contro intuitivo, si contrappone al burocratese vittimista della folla di responsabili di produzione, giornalisti, direttori di agenzie di casting, segretari e collaboratori, i cui discorsi piovono sulle pagine alimentando una prosa tecnicissima e settoriale che diventa – per suono, ritmo, velocità e scorrevolezza – torrenziale. Momo bilancia questa caratteristica, o forse le permette di esistere senza comprometterne la godibilità: l’intero romanzo si regge, infatti, anche sull’estrema esattezza dei riferimenti tecnici che rendono il pretesto contorto ma curiosissimo.

Ad ogni modo, è nella riflessione sullo sguardo che si trova la sintesi più concentrata dell’immaginario del romanzo: Momo vede quello che gli altri non vedono. Nonostante non riesca mai a raggiungere fisicamente i cavalli, la fede nel potere dei suoi occhi, veicoli di un’attenzione incrollabile, quasi sovrannaturale, gli permette di estendere la sua sensibilità fino all’isola di San Secondo, di espandersi e calarsi laddove gli animali attendono la sorte per condividere il loro stesso dolore:
Il primo che vede è il baio. Ha la criniera nera e la coda nera e sopra gli zoccoli il manto è più scuro, ma il corpo è castano. Si mostra di fianco, la gola tesa come una corda che arriva fino al petto, il gomito piegato mentre il piede cerca di battere ma è come se fosse troppo corto, troppo lento, un movimento non concesso […] Il nero è lontano qualche passo. Pare che frema di una urgenza interna, scuote la criniera a destra per tre quattro volte e poi cerca la torsione ma le spalle cedono e la testa prende ad andare su e giù a un ritmo meccanico. Il cuore di Momo salta. (p. 250)
Può farlo perché a differenza di tutti gli altri personaggi, che con i loro discorsi creano un coro di voci spersonalizzante, quasi fosse un unico grande lamento prodotto da un’umanità punita per la troppa disattenzione, per la colpa di essere caduta in un cinico interesse speculativo, è un bambino; non solo: è un bambino con una particolare forma di autismo, o forse solo una sensibilità speciale, nato e cresciuto in una città che gli ha permesso di esprimere i suoi talenti diversi, assecondando l’angolazione della sua prospettiva. È significativo che nel punto cruciale della vicenda, quando deve decidere tra salvare gli sventurati cavalli e tornare a casa, Momo si affidi a un binocolo, un’appendice artificiale necessaria per sostenere e incrementare il suo potere; operazione che lo pone in un legame strettissimo con un altro personaggio che fa della visione il nodo più evidente della sua stringa emotiva. Il regista Mr.C, allo stesso modo, si serve di uno strumento ottico – la macchina da presa – per scorgere la dimensione selvaggia e atavica di Venezia e forarne così la patina simbolica, da cartolina. Venezia, la città, terzo e ultimo elemento del corredo di Arianna Ulian.
La città
Ho scelto di ambientare il mio western a Venezia per la stratificazione di significati che la città raccoglie, per riformattare l’immaginario del pubblico, e allo stesso tempo per intercettare la vitalità dei luoghi e riportarla al presente. Qui furono vaste praterie solcate da rivi e torrenti, che il respiro del mare corrodeva, che i venti mangiarono fino a cavarne un arcipelago. Centinaia di piccole isole separate come villaggi nel deserto e uomini ostinati ad aggrapparsi e sopravvivere fino a fondare una leggenda… (p. 65)
Per concludere: secondo Mr.C, Jack Bauregard, coprotagonista di Il mio nome è Nessuno di Tonino Valerii, leggendario cacciatore di taglie, è un uomo giunto a un bivio esistenziale ed estetico. Sente che la morale del nuovo west non gli appartiene, che tutto si è ridotto a una finzione, oltre che a una colossale parodia, che le imprese valorose di cui si era reso protagonista non sono più l’anima di quei territori selvaggi; che gli stessi territori selvaggi sono solo la ripetizione stanca della loro antica leggenda. ‘Nessuno’, giovane e spensierato vagabondo, è l’emblema di un divertente ma vuoto citazionismo. Per cui, nella lettura del regista, Bauregard ha bisogno di ritrovare l’autentico, di rifugiarsi in un luogo forse simile a lui, un tempo selvaggio ma diventato simbolo suo malgrado: da questo punto di vista Venezia risponde all’identikit, trattandosi di una città che è stata in origine il teatro di uno scontro tra l’uomo e la natura e che adesso «è appesantita dai simboli». Mr.C ha l’ambizione di rispolverarla, ma la serie di episodi che si verificano e che mandano a monte il progetto può essere interpretata, dal lato del regista, come una punizione per hybris. Come Momo, la fiducia nella sua visione consente al regista di scorgere la soluzione di un grande enigma che, tuttavia, alla fine sfocia nel tragico e nell’irrisolto. Venezia è senz’altro l’anima di questo romanzo, è a un tempo vittima e castigatore: si ribella a un uomo che pure ha cercato di restituirla a un’immagine meno stereotipata. Il perché è uno dei grandi interrogativi che la Ulian implicitamente pone.

A prescindere dalle intenzioni del regista e dalla riflessione che ne viene fuori, la città qui descritta è un luogo che rifugge le romanticherie. È un luogo vissuto, difficile, impervio, una sfida continua che saggia la resistenza dei suoi abitanti: «è un territorio estremo, ecco», dirà Martino, uno dei tanti responsabili senza colpa.
Fremen
Probabilmente la Ulian si è giocata tutte le carte di cui crede di disporre in questa sua prima prova. La questione dei cavalli è un romanzo densissimo, ricco e articolato, è una conurbazione di riferimenti e di idee; idee che avrebbero meritato, in alcuni casi, un approccio forse più argomentato. L’impressione è che la Ulian abbia spinto al massimo in curva disegnando una traiettoria affascinante e precisa, senza però curarsi del passeggero con i capogiri. Un passeggero che pure ha provato a tenere gli occhi aperti durante la manovra, per godersi un panorama che il conducente, tuttavia, riteneva si potesse scorgere solo a grande velocità. Eppure, se alcune intuizioni – la riflessione sull’immaginario del cinema, certe descrizioni di Venezia, lo stesso sguardo di Momo – fossero state sciolte con più filo, se una voce narrante più precisa e speculativa avesse accompagnato la storia bilanciando l’affascinante ma confusionario spartito di voci e gesti, forse ne sarebbe venuta fuori un’opera più compiuta.
Ma i Fremen sono «i protagonisti di Dune, il famoso ciclo di romanzi di Frank Herbert: il popolo che vive negli enormi spazi del pianeta Arrakis e che ha fatto del deserto, temuto da tutti e da tutti ritenuto inabitabile e disabitato, la propria casa, la propria risorsa, la propria forza.». Così si legge nelle righe d’introduzione alla collana. Conclude: «E nascosti agli occhi dell’Imperatore e dei suoi feudatari, preparano la riscossa da un’oppressione secolare». Dunque, cosa aspettarci da un romanzo che nasce all’interno di queste premesse e che predispone l’uscita di altri sette fratelli? Un afflato senza dubbio sperimentale, un carattere diverso e asimmetrico, se è vero che, come i Fremen, queste opere saranno abitanti del deserto, pionieri forse di pratiche innovative, o desuete, di stili impraticati o rigettati dall’«Imperatore e dai suoi feudatari» (la grande editoria?). La questione dei cavalli ha senz’altro queste caratteristiche, e la sua incompiutezza è dovuta alla sua stessa natura di oggetto sotterraneo e sfuggente. Ci si augura che le sue possibilità mancate, insieme a quelle azzardate e riuscite, possano essere veramente raccolte da un nuovo popolo che troverà la forza, un domani, di vivere in superficie.