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Ribellarsi al cinismo. Perché c’è ancora bisogno di “Cuore”

Se vi stabiliscono un dialogo fecondo di suggestioni, i classici, per chi li legge, si configurano come degli «equivalenti dell’universo, al pari degli antichi talismani» (Calvino). Così, portati sempre con sé, possono sortire effetti benefici e domare i demoni interiori. Alcuni meritano di essere spolverati, altri non hanno mai smesso di stare appesi al collo di qualcuno, ma tutti, se lucidati, risplendono di una bellezza più viva. Da dove nasce la loro magia?

In una memorabile pagina di Fahrenheit 451, Ray Bradbury scriveva che si ha letteratura laddove, come sotto il vetrino di un microscopio, si possa osservare, in fiumane in infinita profusione, la vita scorrere, pullulare, pulsare.

Cuore, il libro che intende(va) preparare i futuri cittadini come soldati della patria sotto la duplice insegna dell’obbedienza e del sacrificio; che a fronte del buon Garrone pone l’elemento dialettico rappresentato da Franti, antitesi contrassegnata da perfidia e sottolineatura del ridicolo e simbolo parimenti dell’aspetto (incorreggibilmente?) tragico del reale; che mette davanti ai fanciulli, rinfrescandone allo stesso tempo il ricordo ai “grandi”, quelle virtù disprezzate da chi è incapace anche solo di concepirsele nell’animo; che ottimamente segue il Manzoni del parlato con il suo italiano mondato di regionalismi estremi, ricercatezze e contorte torniture della frase, per mimare quella lingua da tema in classe di uno scolaro di circa dieci anni (la cui competenza nello scritto corrisponderebbe oggigiorno a quella di un liceale, o per dir meglio, di un liceale che ci sappia fare con la penna) che redige un diario; che secondo l’impeccabile prefatore all’edizione Mondadori, Gilberto Finzi, non va letto solo in quanto opera d’arte e di letteratura, ma anche come

un amalgama di concezioni e ideologie, una concrezione di morale e pedagogia, di realtà concreta e di enfasi retorica, di storia patria e di utopie sociali e di buona volontà borghese, presto modificata in socialista (p. xxiv);

libro che, non si esita ad ammetterlo, qua e là fa venire i lucciconi e scuote nell’intimo, oggi come ieri, un gran numero di lettori, ne sconvolge i sentimenti più profondi e complessi (illusione in cui ci si culla e che fa ancora credere un poco nell’umanità), scopo (o uno degli scopi) questo, o funzione più propria (o una delle funzioni più proprie) della grande letteratura, a detta di Abraham B. Yeoshua, lettore di De Amicis di cui, nella detta edizione, si trova un’illuminante postfazione:

Provo gratitudine verso l’autore per quel pianto a cui attribuisco un grande valore letterario. […] Io non piango per il personaggio ma per me stesso, dopo che questi si è insinuato in me ed è diventato parte della mia personalità. Il fine supremo della letteratura è […] un’immedesimazione che permette di recepire le cose in maniera molto più profonda

(p. 284: tesi che a pensarci si trova verificata da una moltitudine di esempi);

Cuore – dicevo – pulsa, in ambo i sensi: pulsa ancora e continuerà a battere per un pezzo se ci saranno petti disposti ad accoglierlo.

Perché vanno bene le letture paradossali, e ci stanno i risolini, e ben vengano persino i veleni di celebri penne novecentesche. Nondimeno, tutto ciò dovrebbe aver immunizzato il lettore di oggi, prevenendolo dal pericolo di farsi possedere da punti di vista sedicenti illuminati e scaltriti, e dovrebbe averlo oramai reso più che avvertito. Consapevole, soprattutto, che il contrario della poesia non è la prosa, è il cinismo.

Occorre ribaltarlo, questo cinismo. Frasi deamicisiane come:

Pronuncia sempre con riverenza questo nome (“maestro”) che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.

potrebbero risultare retoriche, ma racchiudono il senso di che cos’è l’istruzione, di quale valore abbia per il singolo e la comunità («Chi apre la porta di una scuola chiude una prigione» affermava Victor Hugo, grande autore pure tacciato a volte da taluni di esagerazioni retoriche, ma che coglieva icasticamente nel segno), il che è tornato evidente con drammaticità in un anno, come l’ultimo appena trascorso, in cui la scuola è stata portata avanti fra mille impedimenti, con Dad e adattamenti logistici, tanto che ne è risultato un significativo ammanco di ore scolastiche, oltre che, in presenza, la quasi impossibilità di prevedere attività di gruppo o in coppia. Una situazione sofferta da molti, anche, consapevolmente o no, da chi la scuola la ama meno.

Occorre ribaltare il cinismo e guardare con sospetto all’uso del termine buonismo per dileggiare gli altrui comportamenti. L’ipocrisia è un pericolo, è vero, ma non ci deve far dimenticare che la bontà può esistere ed essere celebrata, pure con la retorica se serve; retorica che, in principio, era fondamentalmente l’arte del bel dire (e De Amicis i fatti e le idee li esprime egregiamente). Così non devono meravigliare gli inni alla scuola, ai genitori, alla patria, ai buoni sentimenti. Dovremmo chiederci piuttosto: perché, oggi, non li sopportiamo più?

Ogni epoca ha la sua sensibilità e i suoi valori, nonché la sua retorica. Una forza di Cuore, che è anche ciò che la rende nonostante tutto un’opera che resiste a epoche diverse, è che si fonda su degli archetipi ed esprime concetti ed emozioni universali. Chiunque di noi è stato, o ha avuto come compagni di classe, un Enrico Bottini, un Derossi, un Franti, un Garrone. Tutti ammiriamo il Piccolo scrivano fiorentino o la Piccola vedetta lombardo. Per quanto retorici e stucchevolmente didascalici i loro racconti ci possano sembrare. Tutti ci commuoviamo, ci indigniamo, di fronte alla sofferenza o all’ingiustizia. Se abbiamo coraggio (etimologicamente: cor habeo), se abbiamo cuore.

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