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Il memoriale

A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ’20/’21 poi dalla nostra redazione, ne sono infine stati scelti 13 per la pubblicazione. Questo è il primo, lo ha scritto Francesco Celotto e ha richiesto pochissime correzioni, a cura della redazione.


Un Avvocato di Stato in pensione supplica un Editore non di pubblicare il suo memoriale ma di rispondere a una domanda molto particolare. Le parole sfruttate tutta la vita con maestria per piegare la realtà, dice, gli si sono rivoltate contro: è possibile abbiano vita propria? Con una perfetta resa del linguaggio formale e stiloso del personaggio, l’autore di Il memoriale scrive uno stupefacente racconto surreale in cui le parole prendono il controllo della vita.


di Francesco Celotto


Caro Editore,

Le sarà certo capitato qualche volta di smarrire un’idea, un’efficace soluzione di un’assillante questione appena intravista tra i Suoi pensieri e già dileguata, interrotta bruscamente dallo squillo del telefono, dal suono del citofono o dal brontolio della caffettiera che annuncia il caffè. E poi al ritorno mettersi a scavare tra i propri ricordi in cerca di quell’idea che sembra non aver lasciato traccia, rovistare affannosamente senza alcun indizio possedendo soltanto la consapevolezza di riconoscere, semmai si dovesse ripresentare alla coscienza, l’idea perduta. Si possono spendere anche intere giornate per una simile ricerca, com’è successo a me.

Così alla fine di accurate indagini e meticolose ricerche mi è apparso Lei, nitido nel ricordo di quella sera quando c’incontrammo, Lei nel Suo abito scuro di leggerissimo lino con la cravatta un po’ allentata di lato per offrire a quella signora che stava corteggiando un’immagine un po’ sofferta. Ma si rilassi, non sono un aspirante scrittore che sfrutta ogni possibilità per la pubblicazione, il mio scritto si vede, basta sbirciare, non è un romanzo, né un racconto, e questa missiva è una richiesta di consulenza personale che ho indirizzato alla casa editoriale dove Lei lavora non essendo riuscito a mettermi in contatto in altro modo. Per onestà, quindi, già dovrebbe ricomporre il mio plico e rimetterlo via per leggerlo fuori orario.

Ci conoscemmo una sera di tre anni fa nella villa dei nostri comuni amici, i signori De Blase. Lei mi fu presentato quale critico letterario e, più tardi, realizzai dei Suoi impegni editoriali. Per ricordarmi basterà rievocare la figura di quella donna straordinaria che stava corteggiando, Giulia. Ai miei occhi la sua figura si presenta ancora dai contorni nitidi e precisi: un corpo sinuoso in un abito blu acquamarina che si muove tra lunghi capelli biondi. La bellezza scava solchi profondi nella nostra memoria, talvolta soltanto la sua forza può aiutare i lontani ricordi a riemergere, e se quella bellissima immagine è rimasta nitida anche nella Sua mente e può rievocarla senza grossi sforzi, allora sicuramente si ricorda di me.

Purtroppo i Suoi tentativi d’aggancio, per la verità molto sagaci, si rivelarono tutti infruttuosi, e se non ha ritrovato quella donna tra i Suoi ricordi, probabilmente è avvolta da quello speciale oblio che separa la nostra coscienza dai dolorosi fallimenti. Senza la bellezza di Giulia è impossibile che la mia figura possa assurgere al Suo impeccabile cervello. I miei tratti distintivi sono usuali: di piccola statura, naso adunco, porto la scriminatura a destra.

Ma mi consenta d’insistere con quest’altra sequenza: siamo davanti al buffet, l’orchestrina jazz suona The man I love, Lei sta cercando negli occhi della signora segni d’intesa. Si rivolge a me quando i tentativi d’aggancio risultano vani, e lo fa soltanto per apparire alla signora un po’ impegnato. Mi pone quesiti incomprensibili cui non potrei mai fornire una risposta. In quel momento non le importava niente del fruitore e se la signora si allontanava dal buffet, anche Lei si spostava, cercando altri uditori più vicini alla donna, senza curarsi di abbandonarmi ai Suoi discorsi lasciati in aria. Altre volte fui io ad avvicinarmi, forse inopportunamente, ma cercavo di trattenerLa da eccessive manifestazioni, avendo realizzato le esigue possibilità di riuscita. Ecco potrebbe cercarmi tra i ricordi delle persone indiscrete nonostante, lo ripeto, con la mia indiscrezione tentassi di indurLa a quel necessario distacco per affascinare una donna e a quel minimo di contegno che ci vuole sempre, qualcosa ne so.

Fuori della passione siamo tutti bravi, penserà, ma quando l’ardore ci prende non sappiamo utilizzare una virgola di questi lucidi ragionamenti. Lei, in ardore, non realizzava di certe speciali occhiate che la signora riservava a un bel giovane, che pure le ronzava intorno e, anzi, passandole accanto le sussurrava parole nell’orecchio che dagli occhi di lei sembravano sortire più efficaci convincimenti. E se Lei, pur realizzando quelle intese, contava in quei momenti di vincere sul bel giovane, allora il velo dell’insuccesso che racchiude i Suoi ricordi è troppo fitto, e la speranza che si rammenti di me comincia a diventare folle. Forse la mia figura è stata cancellata per sempre dalla Sua mente.


Ma mi lasci un ultimo tentativo prima di cestinarmi. Provi a cercarmi tra gli zelanti, forse qualche volta, ripensando a quella sera, avrà capito della mia solidarietà. Se non mi ritrova lì è inutile cercare tra i petulanti. A questo punto è meglio cestinare il tutto direttamente poiché ogni interpretazione di ciò che mi accingo a rivelarLe, gravata di questo pregiudizio, uscirebbe distorta e inverosimile. Meglio accartocciare queste ultime frasi e lasciarle al Suo impietoso cestino, abbandonarle alle contorsioni di un inestricabile malloppo. Poiché ha continuato a leggere, Le svelerò in segno di gratitudine e senza inutili dilungamenti ciò che mi spinse quella sera a dedicarLe tutta la mia attenzione.

Se ricorda, quando mi presentarono Lei era un po’ appartato con graziose signore e discorreva di letteratura e dei percorsi della scrittura. Dopo la presentazione riprendendo il Suo parlare si vantava di poter riconoscere in ogni libro i prestiti, i rimaneggiamenti e gli scopiazzamenti da altri testi. Questo per me fu una rivelazione.

I signori De Blase mi presentarono quale Avvocato di Stato, ma tralasciarono di specificare che ero posto in pensione. E sono certo che adesso, vista la parola pensione, si è accorto del memoriale che accompagna questa missiva e mi ha immediatamente collocato con altri comuni pensionati che, assillati dall’esigenza di lasciare testimonianze, scrivono le proprie memorie. Non è così, e per favore non provi a sfogliare il memoriale, non ancora, quelle pagine hanno smarrito il racconto della mia vita e senza le mie indicazioni apparirebbero accozzaglia di parole e segni da cui nemmeno un bravo critico come Lei saprebbe trarne un significato.

No, io praticavo la scrittura soltanto per dormire. Cominciai a scrivere appena qualche mese dopo essermi congedato dal servizio. Successe che lasciato il lavoro e smesso d’essere “soggetto produttivo”, mi prese un senso di vuoto che assorbiva completamente quell’energia vitale che prima mi permetteva di decidere e agire. Al Ministero io ero al servizio delle leggi, non che le facessi, no, di una legge coltivavo soltanto il calce, lì dove risiedono i commi e le clausole. Mi occupavo di quei minuti spazi in cui si contemplano condizioni particolari che possono sfuggire alla norma e indurre al tradimento. Le mie guerre dunque non si svolgevano nel valore delle leggi, ma nelle loro pieghe. Lì soltanto attaccavo e demolivo i miei nemici, in quei piccoli spazi giuridici appoggiavo i miei protettori, esibendo al momento giusto inopinabili cavilli. In quei margini trovavo le mie aspirazioni e lì si è svolta tutta la mia carriera, non nella morale delle leggi. Da me nulla è stato toccato del sommo bene dell’uomo: la legge.

Ma assolta anche la mia anima, il vuoto e il disagio permanevano, non mi sentivo meglio e la remissione dei peccati si rivelava, comunque, un’azione che non centrava il bersaglio. Mi prese allora un’abulia così profonda che a malapena riuscivo a muovermi per sopperire alle immediate esigenze corporali. Rimanevo a letto tutto il giorno in cerca di una causa plausibile che mi facesse rialzare e agire, mi perdevo nell’azione senza speranza né profitto e un giorno, in un momento di immobilità, avvertii lo straziante spegnimento cui mi stavo avviando. A quel punto si affacciò l’unico mezzo per eliminare definitivamente quella sofferenza: il suicidio. Ecco, l’idea del memoriale è sopraggiunta mentre mi accingevo a scrivere la lettera di addio che si usa in un suicidio regolare.

Mi sembrava un’impresa facile per un uomo con un controllo lessicale tale che al Ministero nessun altro poteva vantare. Perfino il discorso che il portaborse preparava per il Ministro passava per le mie mani, e le mie relazioni circolavano tra altri Ministeri quale esempio di lucida ed efficace scrittura. Non una volta i miei scritti sul Diritto di Stato sono finiti sulle pagine di giornali nazionali ed esteri. Nessuno nel mio campo dubitava che quelle cose si potessero scrivere meglio. Nel segno della parola si era svolta tutta la mia carriera, dall’inizio alla fine, e ora sembrava franare davanti a quella ultima lettera di addio.

Della morte e degli addii definitivi non mi ero mai occupato. Nella scrittura di quella lettera ogni periodo che tentavo di scrivere richiamava tante altre immagini degne di nota che si accalcavano nella mia mente disturbando la mia penna. Quando compresi che per dar spazio a tutte le parole importanti della mia vita ci voleva molto più spazio, apparve l’idea di un memoriale. Così accantonai la lettera e rinviai il suicidio alla fine del memoriale.

“Il viso di mia madre aveva una piega al centro del mento, e anche al centro del piccolo naso rivolto all’insù e poi sulla fronte. A volte immaginavo una linea che li congiungesse e dividesse esattamente il suo volto in due parti: mamma buona – mamma cattiva perché quando esprimeva cruccio le due parti si muovevano autonomamente. Aggrottava soltanto un sopracciglio aprendo l’occhio sottostante, lasciando però l’altro occhio e l‘altra parte della faccia nella solita sorniona fisionomia.”

Scrivendo questi primi periodi, avvertii la netta sensazione che la mano procedesse con eccezionale rapidità e destrezza mai vista, senza stancarsi. Era sorprendente come i ricordi si trasformassero disinvoltamente in parole e confluissero sul foglio bianco quasi automaticamente, per conto loro. A quelle condizioni avrei potuto redigere tranquillamente un corposo volume, ma senza ambizioni letterarie ‒ lo ripeto ‒ già la possibilità di riempire quel vuoto ancora presente nella mia vita era un inaspettato successo. L’idea di pubblicare un libro non mi ha mai attratto glielo giuro, e se qualche volta durante la scrittura ho immaginato un fruitore era lettore occasionale, un rigattiere, un raccoglitore di carta o un barbone in cerca di qualcosa da ardere. Nemmeno per un attimo ho desiderato che le mie memorie finissero proprio lì, dove sono adesso, sulla Sua rigorosa scrivania.

La mano, senza preoccupazioni lessicali né responsabilità del testo, acquisì una tale scioltezza che mi abbandonavo completamente ai ricordi, e qualche volta chiudevo anche gli occhi, lasciando che la penna procedesse da sola, senza timori né incertezze. Liberamente. A un certo punto ho creduto di aver sconfitto definitivamente l’inedia, perché la sera, scrivendo, mi rimaneva appena il tempo di spogliarmi e buttarmi a letto placido e sereno. I pensieri di quella piccola gloria che andavo costruendo nel memoriale mi accompagnavano in quel luogo dove la volontà, dilatandosi e disperdendosi in tante piccole fantasie, crea i prodromi del sogno. Al risveglio raccoglievo distrattamente le pagine lasciate alla rinfusa la sera prima, e le infilavo a casaccio in una vecchia cartellina, convinto di non rileggere mai.

Adesso spero di non averLa irritata, caro Editore, se sta pensando che cazzo sto a seguire quest’imbecille nei suoi sproloqui quiescenziali, si trattenga, non mi cestini proprio adesso e mi permetta di stimolarLe la lettura con quel meccanismo da noi ben conosciuto che va sotto il nome di profitto: Le offro l’autorialità di tutto il malloppo in cambio soltanto d’attenzione. Questa volta però, per me, lo ripeto, non deve valutare la qualità della scrittura, lo stile, le imprecisioni linguistiche ecc., no, ma soltanto leggerlo con la Sua indiscutibile competenza e darmi una risposta su ciò che mi è accaduto. Successe che rileggendo per caso ciò che avevo scritto nei mesi precedenti, non ho ritrovato la mia vita gloriosa, ma altri racconti di altre persone mai conosciute, e di luoghi lontani mai visitati.

La perdita della gloria della mia vita esige una ragione che forse soltanto Lei può aiutarmi a costruire. In cambio le cedo ogni diritto d’autore. Dopo la lettura, tutto ciò che ne vorrà fare del memoriale e di questa lunga missiva non m’importa. Tra le pagine troverà (infilata a caso) una dichiarazione in cui rinuncio di diritto in Suo favore. Accetti, mi creda è una storia interessante che comunque potrebbe utilizzare nei Suoi scritti, o può mostrarla nei Suoi salotti letterari quale esempio di cosa possa arrivare a combinare un pensionato con la scrittura. Queste sono le mie offerte, e La invito a dare subito una risposta, accettare l’offerta e proseguire la lettura oppure cestinare tutto. Ci pensi, con calma.


Ecco, se sta leggendo vuol dire che ha accettato il patto e s’impegna a seguirmi fino all’ultima parola. Si dice che Lei abbia sempre onorato gli impegni presi. Non vorrà compromettersi per così poco? Devo confessare che per me è stato un ottimo accordo, sì, proprio adesso che la lettura, purtroppo, dovrà procedere lenta e sofferta essendo costretto a fornirLe un minimo d’indicazioni biografiche, sempre noiose, per orientarLa in questo pasticcioso enigma.

L’esigenza di una rilettura si presentò per caso, per un piccolo incidente. Una sera, mentre inserivo a casaccio i fogli scritti nella cartella, uno di essi mi scappò di mano finendo sul pavimento, tentai di raccattarlo ma mi scivolò dalle mani finendo sotto la scrivania. Mi prese quella specie di ira che ci possiede nella nostra guerra con gli oggetti quando ci sfuggono, si perdono o si dimenticano. Eccolo il mio nemico, feci un giro mi chinai e con un atto repentino cercai di raccogliere il foglio, ma il mio movimento creò un moto d’aria che spinse il foglio ancora più lontano. «TI ODIO», gridai. Allora feci il giro della scrivania e con un colpo fermai il foglio con la scarpa e mi chinai a raccoglierlo. Lo guardai come per vedere in faccia il mio nemico! Sullo scritto appariva netta la sagoma nerastra della scarpa che l’aveva bloccato rendendo difficile la lettura. A quel punto avevo due possibilità, riinserire il foglio sporco nella cartella e andare a dormire o cestinarlo sottraendo al mio memoriale una pagina magari importante della mia vita. Fu qui che per la prima volta sentii il bisogno di rileggere ciò che avevo scritto.

Con mio grande sgomento mi accorsi che da quella pagina uscivano parole che non conoscevo, segni misteriosi che non riuscivo a decifrare. E se tentavo una qualunque interpretazione, uscivano storie arcane, così lontane e diverse dalle mie da farle sembrare addirittura apposte da altri. Furibondo mi avventai sulle altre pagine. Non doveva essere una sistemazione del testo, né una rielaborazione dello stile, ma soltanto una ricerca del fatto. Invece, ma quale fatto! Lei non può immaginare il dolore che provai nel constatare che anche nelle altre pagine il mio pensiero veniva corrotto da parole incomprensibili, ghirigori indecifrabili, scarabocchi, macchie d’inchiostro che stravolgevano il senso delle mie memorie al punto da chiedermi: le ho scritte proprio io queste cose?

Le parole buttate giù velocemente e senza responsabilità non si riconoscevano, trasformate dalle imprecisioni uscivano dalla propria traccia e, congiungendosi con altre fuggitive, conducevano su altre vie. Storie sconosciute che sembravano scritte da altri disturbavano ogni interpretazione dei miei dolci ricordi, della mia gloria. A letto, sulla via del sogno, appariva il sospetto che qualche entità, qualche fenomeno irrazionale, paranormale o che so io, utilizzasse le mie imprecisioni per un suo scopo narrativo, e ciò rinvigoriva la mia volontà anziché indebolirla, e il sonno non veniva più. Allora in piena notte ritornavo furibondo sul redatto, analizzavo i periodi parola per parola e con una lente d’ingrandimento controllavo che i gambi delle vocali, i piedini delle consonanti, gli apostrofi e le virgolette delle parole fossero al posto giusto.

La prima parola clandestina su cui mi concentrai fu “batrax” al posto di “pratiche” cercando di capire le cause dell’errore. Scrivendo la parola “pratica”, mi dicevo, non ci vuol niente a prolungare in alto il gambo della “p” che diventa “b”, saltare la “r” dopo la “p” e scrivere direttamente la “a” iniziando la parola “pratica” con “ba” invece che con “pra”. E se ci accorgiamo di aver mancato la “r” mentre scriviamo la “t”, per un riflesso condizionato siamo portati a scriverla adesso quella maledetta “r”, e la “prat” diventa “batr”… e poi anche la “h” si trasforma in unax”. Così esce “batrax” al posto di “pratiche”! Ripetevo cercando di rassicurarmi e liquidare l’idea delle mani clandestine. Ma che cos’è questo “batrax”? Di quella parola avevo soltanto un vago ricordo tra le mie reminiscenze scolastiche. Non la trovavo nemmeno nel mio dizionario tascabile.

Quella sera che c’incontrammo, caro Editore, il Suo parlare di come elementi lontani possano confluire inconsciamente sulla tela, nella pagina vuota o sul pentagramma, era per me una rivelazione. La Sua competenza apriva un barlume di speranza nel mio insuperabile assillo. E fu un incanto sentirLa parlare di quali labili sentieri della memoria, di quali tortuosi percorsi della coscienza si servono gli elementi esterni per raggiungere l’opera. Pendevo languidamente dalle Sue labbra e credevo che da un momento all’altro Lei rivelasse anche il mio arcano. Adesso spiegherà anche quello, mi dicevo mentre Lei parlava. Peccato che la bellezza di Giulia ci distoglieva, L’avrei ascoltata per l’intera serata. E se ora ricorda la mia figura, rammenterà con quanta devozione ho seguito i Suoi discorsi di delusione quando la signora se ne andò via col suo giovane amico.

Mentre Lei inveiva io cercavo di inserirmi tra una parola e l’altra e riportarla al mio quesito. Aspettai un Suo sguardo, in un momento di pausa, seppur intravedevo nei suoi occhi la domanda “ma questo chi è?”. Ho un quesito, dissi. Forse Le sembrerà strano, ridicolo e cioè: le parole possono avere una loro anima? Mi illudevo di ricevere lì, quella sera stessa, un’adeguata risposta. Macché. Lei rideva, rideva senza mostrare la minima compassione. Credeva scherzassi! Me ne andai quando alle mie insistenze Lei rispose seccamente che soltanto un pazzo può pensare all’autonomia delle parole come se fossero esseri viventi. Pazzo? Il dubbio che la causa di tutta la faccenda fosse malattia mentale m’indusse sorpresa e vergogna. Se ricorda La salutai rispettosamente e me ne tornai in silenzio, con le mie rovine intatte.

A casa, inferocito come una bestia ferita, compilai una tabella d’azione che nominai Gli intrusi dove appuntai i primi lavori da effettuare: sistemare il memoriale, numerare le pagine, rileggere e segnare ogni parola estranea. Dopo ciò redassi una lista delle parole sconosciute che denominai Parole sospette divisa in tre serie di celle, una per i nomi inauditi, un’altra per i luoghi mai visti e una terza per le figure a me sconosciute presenti negli scritti. A parte costruii un’altra tabella, Racconti degli intrusi, che divisi in due colonne, una per le azioni citate che non appartengono al mio passato, un’altra per gli attributi estranei alla mia persona. Le parole sospette passavano dalla propria cella a quella dell’intruso soltanto quando il loro significato veniva svelato.

La parola “batrax”, per esempio, appare quando descrivo l’inizio della mia giornata lavorativa, o almeno credevo di farlo, con il commesso che entra nel mio ufficio e ordina le nuove pratiche secondo importanza, e badando che se ne scorga facilmente il titolo. Alla rilettura risulta “batrax” per pratica, “gabbia” per coppia, “ago” per ad, “aorta” per sorta e così via. Trovato che il “batrace” è una specie di rana solitamente utilizzata come cavia nei laboratori, tentai una prima ricostruzione nei Racconti degli intrusi sostituendo al groviglio indecifrabile delle parole sconosciute tutte le possibili combinazioni. Ecco che cosa esce:

“Aspettavo che mi portassero i batraci la mattina prima di iniziare il lavoro. Il commesso li metteva in fila nella gabbia e mi preparavo. A una a una li portavo nel gabinetto, infilavo l’ago nella minuscola aorta ed estraevo tutto il sangue che possedevano. Rilasciavo nel secchio dell’immondizia la loro carcassa esanime.”

Continuando l’indagine osservai che le infiltrazioni s’intensificavano in quelle aree dove il discorso procedeva impreciso e generale. Le imprecisioni e le generalizzazioni nel mio lavoro di avvocatura c’erano sempre state, ma erano volute, escogitate, rappresentavano uno strumento indispensabile quando si voleva nascondere più che rivelare, depistare anziché aggiornare. Mi capisce, vero?

Per anni ho usato parole così generiche da non significare niente. Usavo per esempio “retta moralità”, che si estende da “non ancora ritenuto colpevole” a “largamente riconosciuto da tutti buono, onesto e generoso” per sorvolare velocemente sulla moralità di un mio alleato. Bastava scrivere retta moralità e non c’era altro da pensare che il soggetto fosse buono onesto e generoso e, se non lo fosse, nessuno poteva affermarlo pubblicamente finché un giudice non avesse sentenziato il contrario. Allo stesso modo esercitavo la lettura di un qualsiasi redatto come un campo di battaglia in cui ricercare tutto ciò che si poteva dedurre, intuire, sospettare al di là del legittimo apparire del mio contendente. E dove crede che le nascondesse, lui, le sue cattive azioni? Ma nella generalità delle parole, caro Editore.

Così nel memoriale individuavo le parole sospette proprio in quell’area dove generalizzavo per nascondere, in nome di quella piccola gloria che stavo edificando e che mi avrebbe dovuto scagionare da ogni cattivo giudizio. Lì si nascondevano gli intrusi! Pieno d’entusiasmo e mosso da quella profonda gelosia per i miei ricordi mi avventurai in quel mare di parole aliene a scoprire il loro fine narrativo. Le isolai dal testo, le analizzai singolarmente e le trascrissi cercando di costruire un nesso tra loro e l’unica frase che potesse sostenerle. Ne vennero fuori storie sconvolgenti che non hanno niente a che fare con la mia vita. Come protagonisti un ricercatore medico, un filosofo e finanche un derviscio.

Nel memoriale troverà le sottolineature delle parole sospette e in coda tutte le vite e i racconti che ne sono scaturiti. Ma sia bene inteso, non glieLe invio per dimostrare che le parole abbiano un’anima, bensì per porre sul piatto della bilancia del Suo giudizio specialistico anche questo, e riuscire magari ad avere una risposta razionale al mio irrazionale quesito. Le accludo quindi il mio numero di telefono e l’indirizzo, magari volesse venirmi a trovare.

Oggi mi occupo di tutt’altre attività da cui comincio a trarre le prime soddisfazioni. Le mie pietanze, per esempio, superano per gusto e raffinatezza i pasti che  mi preparavano prima la cameriera e la portinaia. Ho ritrovato la squisita zuppa di cavolo che faceva mia nonna, lo stesso sapore, gli stessi retrogusti, e se qualche volta volesse onorarmi della Sua presenza, sarei lieto di condividerla con Lei.

Per il resto sto scrivendo poesie.


Francesco Celotto è nato a Napoli dove vive e lavora: Laurea in Sociologia alla “Federico II” svolge attività di diverso genere, da ricercatore a contratto a giardiniere, da ghostwriter ad aiuto regista, e pubblica racconti e romanzi in formato e book con il self publishing.


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