rivista
Lascia un commento

Storia di Amelia

A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto diversi romanzi. Dopo aver scelto i romanzi per il laboratorio ne abbiamo selezionati altri tre i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, dopo un editing con l’autore.


Storia di Amelia è di Irene Catanzariti.

La storia: Siamo a Trieste, al funerale di Amelia, una settantenne istriana morta con la testa tranciata da un cavo di acciaio dopo aver salvato la vita a un poliziotto.
Al termine della funzione, Diego, amico della defunta, legge una lettera fattagli pervenire dalla donna con l’indicazione di aprirla solo durante il proprio funerale: nella lettera Amelia si autodenuncia come assassina di quello stesso poliziotto, al quale ha invece salvato la vita, e come suicida.
La discrepanza rispetto alla realtà è tale che Diego decide di indagare. Si reca a casa di Amelia e trova ad attenderlo un’intera scatola di lettere contenenti la vera storia di Amelia.

Intervento di editing: lo scopo generale dell’editing per questo primo capitolo è stato quello di alleggerire alcuni passaggi, dosare le informazioni ed esaltare l’ironia della voce narrante.


Figurati se non doveva piovere il giorno del suo funerale! Aveva sperato in una splendida giornata di sole, accompagnata da Shine on You Crazy Diamond sparato a tutto volume in chiesa. E invece, cosa diavolo sta facendo suonare il dannato prete all’organista? La Lacrimosa di Verdi!

Lo avrà detto mille volte, a Diego: «quando muoio, in chiesa voglio i Pink Floyd.»

Mai una volta che una possa essere accontentata nella vita, neanche da morta.

Comunque, di gente ne è venuta parecchia ed è proprio soddisfatta di riuscire a vedere, come diceva sempre sua madre, “quelli che piangono per davvero e quelli che no”.

Amelia oggi, pure se morta, riesce a vedere tutto e tutti. Si piazza invisibile accanto ai crocchi di conoscenti o semplici curiosi riuniti davanti alla chiesa reagendo ai commenti con la sua usuale, ma ora trasparente, mimica facciale.

Entra anche lei con aria compunta in chiesa, camminando solenne accanto alla sua vicina di casa, la signora Tonia, quella con lo chignon stretto. Quella che in questo momento sta parlando con Lina, la moglie del panettiere.

«È stato un vero shock,  sa?»

L’altra accelera il passo, una donna minuta con un cappello grigio alla pescatora addosso, grondante di pioggia.

Tonia rallenta appena in modo da permetterle di stare al passo, senza però offrirle riparo sotto il suo ombrello.

«Prima quel gesto eroico e poi finire così, poveretta. Certo, è sempre stata un tipo un po’, come dire, particolare, ecco. E pure la sua morte – Dio l’abbia in gloria – non poteva che essere originale.»

«Per essere particolare, era particolare» aggiunge Tonia con l’aria di saperla lunga «si figuri che parlava con una pianta, una pianta carnivora per giunta. Le aveva anche dato un nome, Titti la chiamava. Diceva che l’aveva battezzata così da quando si era mangiata un canarino senza lasciarne neanche una piuma. Digerito, completamente.»

Amelia ride di gusto, gettando indietro il petto. Alzando gli occhi al cielo si allontana da quella cretina di Tonia, rivolgendo la sua attenzione a un tizio sulla settantina, segaligno e alto di statura, con un berretto a quadri calato di traverso sulla testa, che parla con un donnone vestito sobriamente come una guardia svizzera. Lo sente schiarirsi la voce nel palese sforzo di avviare una conversazione.

«Era istriana, proprio come noi» riesce finalmente a dire.

«La conosceva bene anche lei allora?»

«Beh, proprio bene, no. Diciamo buongiorno e buonasera. Però i miei genitori avevano conosciuto i suoi in Campo Marzio, eravamo vicini di baracca. Anche noi siamo stati tra gli ultimi ad andarcene.»

Al ricordo del campo profughi, Amelia ingobbisce la schiena, aggrotta la fronte e si allontana dai due, muovendosi come una zanzara tra un banco della chiesa e l’altro, finché viene attirata dalle parole di un ometto pelato, visibilmente soddisfatto di essere il fulcro dell’attenzione dello stormo di corvacci con cui divide la panca.

«Ma è vero che non han più trovato la testa?»

«Ma cosa dice, siòr Bepi! Sì che l’han trovata. Era solo volata qualche metro più in là. Non voglio neppure pensarci, l’ho sognata tutta la notte quella scena.»

«Certo che anche Amelia, arrivare senza casco a tutta velocità…»

«Il casco non lo portava mai, diceva che era la sua ultima forma di resistenza contro il sistema.»

«Se solo avesse avuto il casco forse non avrebbe fatto quella fine. E invece zac! Ha perso la testa.»

Allo zac! le comari sobbalzano piallandosi all’unisono contro lo schienale della panca, mano alla bocca a trattenere un grido. Amelia, invece, portandosi istintivamente una mano alla gola, stringe forte le labbra e rivive l’istante in cui aveva sentito il cavo incidere crudelmente la carne, poi le ossa e le cartilagini. La precisione millimetrica con la quale aveva trovato lo spazio esatto tra le vertebre la riempiva ancora di sconcerto.

«La smetta, siòr Bepi, la smetta subito, per carità» – sussurra una delle comari, dando voce al pensiero di tutte.

Amelia avrebbe voglia di mordere quel ridicolo cranio lucido fino a farlo sanguinare, così farebbe rimpiangere pure a lui di non indossare un bel casco rigido e soffocante. Solo un idiota può pensare che un casco possa proteggere da un cavo d’acciaio teso in mezzo alla strada.

Inizia la messa, che procede con la consueta monotonia finché, a metà funzione, il sacerdote invita a leggere un’intenzione per la defunta, o a condividerne un ricordo.

Nel silenzio più totale, mentre cento occhi saettano guardando di sguincio i vicini, attenti ad evitarne lo sguardo, si alza un uomo. È in divisa.

Oh no, c’è anche il mona. Quella camminata a gambe larghe la riconoscerei tra mille – Amelia lo guarda dirigersi verso l’altare. E quel taglio di capelli rasato ai lati. Che cos’ha oggi disegnato sulla tempia sinistra? Sembrano fulmini. E il cinturone? Tale e quale quello dello sceriffo di un film americano di serie b.

L’uomo si avvicina al leggio, sistema il microfono, lo abbassa a fatica. Estrae un foglietto spiegazzato dalla tasca.

«Grazie, Amelia.»

Amelia è livida.    

«Grazie Amelia, non ti conoscevo. Non ti conoscevo, ma a te devo la vita. Se non mi avessi arpionato con il tuo ombrello – un ombrellone più che un ombrello – e letteralmente buttato sul marciapiede, quella corriera che sopraggiungeva a tutta velocità, come solo qui a Trieste le corriere sanno fare, avrebbe fatto di me polpette e non sarei qui oggi al tuo funerale a leggere queste poche righe di ringraziamento. Per merito tuo potrò continuare a fare il mio dovere al servizio dei nostri amati concittadini italiani.»

La funzione continua, inesorabile, fino a giungere all’agognata formula che invita a rompere le righe.

«Prima di tornare alle vostre case, un amico della defunta ha chiesto il permesso di leggere una lettera per esaudire le ultime volontà della cara estinta. Proceda pure, signor Cabrera, la prego.»

A sentire le parole del parroco lo scalpiccio di chi si stava già alzando cessa di colpo e un centinaio di occhi incuriositi guardano verso l’altare.

Un uomo alto e brizzolato sui sessant’anni si avvicina al leggio sistemandosi la cravatta e raddrizzando la schiena. Ha gli occhi lucidi. La voce gli esce armoniosa, ma un po’ a fatica, quasi rotta dal pianto, provocando un lungo sospiro nelle donne in chiesa.

«Buongiorno, mi chiamo Diego Cabrera e sono – ero – un amico di Amelia. Ci conoscevamo da quasi quarant’anni. Ero poco più che ventenne quando la incontrai, appena arrivato a Trieste dal mio paese, il Cile, dal quale ero fuggito grazie all’aiuto della vostra ambasciata poco dopo l’inizio della dittatura. Amelia divenne la mia prima famiglia in Italia, mi accolse con la generosità che le era naturale e da allora siamo sempre rimasti amici.

«Di recente Amelia mi ha fatto recapitare una lettera in una busta sigillata, chiedendomi, ingiungendomi, anzi, com’era suo stile, di aprirla e leggerla solo al suo funerale, quando fosse avvenuto. Mai avrei immaginato potesse accadere così presto. Pensavo fosse una delle sue solite esagerazioni e invece. Forse se lo sentiva.»

Diego alza lo sguardo ad abbracciare la chiesa e rompe il sigillo, aprendo la busta con gesti misurati. Dopo aver preso un profondo respiro, inizia a leggere.

Buongiorno a tutti,

se state ascoltando il contenuto di questa breve lettera significa che sono morta. Ho voluto vi venisse letta per evitare le usuali beatificazioni ex post che si fanno dei defunti, solo per il fatto che sono morti.

Voglio subito fugare ogni dubbio sul fatto di essere stata o meno una buona persona: non lo sono stata.

Ho ucciso un uomo, un mona: un bulletto di periferia, un poliziotto. Ucciderne uno per punirli tutti.

A Diego cade quasi la lettera dalle mani, la stringe forte per non perderla e riesce a controllarsi. Il poliziotto si alza di scatto, i denti digrignati, e ripiomba a sedere impettito. In chiesa non si sente un rumore, tutti stanno trattenendo il fiato. Nemmeno il miracolo della Vergine che lacrima ogni dieci anni per cui la chiesa era famosa ha mai sortito un simile effetto, pensa il parroco furioso.

Diego intravede con la coda dell’occhio lo sguardo vitreo di don Girolamo che è scattato in piedi, quasi a volersi lanciare verso di lui, così, prima che possa muovere un passo, prendendo un respiro, continua rapido.

Poi mi sono suicidata, non certo per il rimorso: nessuno può pensare di sostituirsi a Dio e credere di cavarsela. Di attendere i tempi della giustizia divina non ci penso proprio, preferisco chiudere la pratica in fretta.

E ora vorrei proprio vedere la faccia del prete. Come farà a rimangiarsi le parole della messa che ha appena finito di officiare? Schiaccerà il tasto rewind e riporterà all’inizio il film del mio funerale per cacciarmi dalla chiesa?

Adesso vi saluto, augurando a tutti una buona vita e a te, amico mio,  dico grazie per aver esaudito quest’ultimo mio desiderio.

Amelia

A Diego iniziano a tremare le mani mentre il sacerdote in fretta e furia pronuncia il consueto la messa è finita, andate in pace.

Alza lo sguardo e vede sui banchi un centinaio di occhi sbarrati che lo fissano muti, raggelati. Poi un boato. I commenti scoppiano tutti insieme: increduli gli uni, offesi gli altri. Si sentono tutti presi in giro, la ritenevano un’eroina e invece è solo una povera pazza che ha voluto prendersi gioco di loro con una stupida lettera, palesemente falsa.

Dice di aver ucciso il poliziotto che l’ha appena ringraziata – perché è chiaro si tratti di lui – e gli ha invece salvato la vita. Sostiene di essersi suicidata mentre è sicuro al cento per cento che la sua morte sia frutto di un tragico incidente, con tanto di testimonianze filmate dalle telecamere dei negozi della via.

E allora perché?

Amelia è in visibilio, non si è mai divertita tanto. E pensare che doveva essere tutto vero, parola per parola, ma – come si dice – l’uomo propone e Dio dispone. Se fosse andata come aveva previsto non si sarebbe mai potuta godere quello spettacolo: da compianta eroina di cui tutti rivendicano l’amicizia, a povera matta-semplice conoscente in un lasso temporale di poco più di un minuto: da Guinness dei primati.  Adesso può pure allontanarsi soddisfatta da questa valle di lacrime, in ogni caso la dispensa ottenuta sta per scadere e non vuole farsi richiamare, chiude gli occhi e si abbandona.


Irene Catanzariti è nata a Milano nel 1966.
Dopo aver seguito i corsi della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, frequenta quelli del Penelope Story Lab di Ivano Porpora e della Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi.
A dicembre 2022 ha concluso il corso di perfezionamento in Medicina Narrativa dell’Università di Modena e Reggio Emilia, corso seguito per unire due delle sue passioni: scrittura e naturopatia.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...