A seguito della nostra call per Apnea scuola di lettura e editing abbiamo ricevuto diversi romanzi. Dopo aver scelto i romanzi per il laboratorio ne abbiamo selezionati altri tre i cui primi capitoli pubblichiamo ora sulla nostra rivista, dopo un editing con l’autore.
Così vivevano l’estate è di Paulina Spiechowicz.
La storia: Beatrice e Kamil hanno quattordici e sedici anni quando vengono sradicati dall’Italia e portati dal padre in Polonia, sua terra di origine. Solo l’estate successiva riusciranno a tornare a Ostia, dove vive la madre italiana, una donna fragile e forte al contempo. Al rientro tutto sembra uguale ma niente è più lo stesso. Dell’incidente dell’anno prima – che ha portato alla separazione dei genitori – nessuno osa parlare.
Intervento di editing: leggeri interventi mirati a chiarire i movimenti dei personaggi e il loro ruolo nella vicenda, e a far emergere la tensione della scena finale.
In lontananza pareva un fuoco, un alone che diventava una pozza di luce nel mare. Più si avvicinavano, percorrendo la strada a bordo dell’auto di Ludovica, più l’intensità delle fiamme aumentava e modificava il punto di vista: non venivano dalla spiaggia bensì dalla pineta. Non solo: divampavano lì, all’altezza del campeggio di Castel Fusano, e sembravano nascere dal bungalow di Pawel.
Ci sono tutti i suoi soldi là dentro, pensò Beatrice. Poi guardò le spalle del ragazzo. Sedeva davanti, accanto all’amica. Attraverso lo specchietto retrovisore, Beatrice poteva scorgere il suo volto. Chissà se anche lei aveva gli stessi segni, se quella sensualità inferociva il suo viso. E che serata incredibile, Beatrice aveva quasi voglia di saltare. Dal finestrino, arrivava loro l’aria del mare come onde di vento mosse dall’alta marea. Ma quanto più fresca e calma, e anche più silenziosa, era quest’aria, tanto più Beatrice intuiva che c’era qualcosa laggiù, dove nasceva il rogo, che non andava.
Ludovica fermò la macchina davanti al cancello che delimitava la pineta dal campeggio. Si voltò prima verso di Pawel, poi la guardò.
«Ti accompagniamo dentro. Sei d’accordo, Bea?»
Quando varcarono l’ingresso, non c’era nessuno a vigilare all’interno della cabina di controllo. Nessuno chiese chi stessero cercando, così come accadeva di solito quando passavano a trovare Pawel.
Da una decina d’anni quella zona nei pressi di Ostia, che in principio era stata costruita per accogliere turisti sul litorale romano, serviva a dar rifugio ai profughi che fuggivano dall’ex Unione sovietica. C’erano russi, polacchi, sloveni, ucraini, qualche albanese, pochi bulgari. Con la guerra nei Balcani si erano aggiunti anche i serbi e gli jugoslavi. Arrivavano a sciami in sella a minuscole Fiat centoventisei. In polacco le chiamavano maluch, piccino, eppure dentro riuscivano a mettere il necessario: una famiglia, qualche oggetto personale, carne in scatola, vodka e sottaceti.
L’aria sapeva di fumo, e con quell’odore di brace Beatrice percepì, adesso con forza, che qualcosa di terribile era davvero lì lì per accadere, al punto che l’euforia di poco prima si stava tramutando in ansia; non disse niente. Guardò i due che avanzavano, sembravano ignari. Ludovica camminava sicura, si vedeva che non veniva da quel mondo. Così come Beatrice, lei abitava i bei quartieri romani. Stava aggrappata al braccetto di Pawel, anche lui andava spensierato, teneva un pezzo di liquirizia tra le labbra a mo’ di sigaretta, con la ragazza accanto per un attimo doveva dimenticare le sue origini.
«Non è giusto, così mi fate sentire tagliata fuori», poco prima Ludovica li aveva rimproverati, mentre erano ancora tutti e tre nudi nel letto, e Pawel aveva sussurrato qualcosa a Beatrice in polacco. Perché Beatrice aveva in comune col ragazzo almeno la lingua e la patria, ed era come condividere un segreto. La lingua aveva dato loro accesso a un’intimità immediata.
Pensò al fratello, anche con Kamil avevano condiviso segreti, parlando in italiano però, mentre vivevano in Polonia, dal padre, durante l’anno precedente. E quella lingua, straniera ai più, era diventata il loro punto di forza. L’impressione di stare a casa anche se lontani, dalla madre e dagli ex compagni di classe. Come se fossero rimasti a Roma, benché fuori dalla finestra ci fosse Varsavia, uno stuolo morbido di neve fresca sui tetti.
Attraversarono il campo senza parlare, in direzione del bungalow. Mentre avanzavano, Ludovica – ormai anche lei aveva visto il fuoco – minimizzò ripetendo: «non è niente, che ti credi.»
«Cinque milioni di lire.» disse Pawel scandendo ogni sillaba.
Beatrice non aveva smesso di pensarci da quando aveva visto il rogo. Forse non solo presentiva la catastrofe, forse intuiva che quanto stava succedendo era dovuto a lei. Si sentiva una stupida, perché proprio lei aveva detto a Nico: «guarda che Pawel ha messo da parte cinque milioni di lire, ha lavorato la mattina come muratore, studiato la sera per passare gli esami, dal lunedì alla domenica.» Pawel aveva un solo obiettivo: partire di nuovo. Beatrice a Nico aveva detto anche questo, ma come le era venuto in mente?
Il fumo aumentava, il rogo avvampava, il calore entrava loro nel sangue. Iniziarono a correre e si fermarono a pochi metri dal bungalow. Qui, solo fiamme e cenere.
Beatrice riconobbe subito il branco. Nico era in testa, Kamil invece stava in disparte. Avrebbe voluto andare dal fratello, chiedergli come aveva potuto farle questo. Invece rimase immobile.
Kamil teneva una pistola nella mano destra mentre tutto bruciava, nello strepitio del castagno di cui le braci scoppiettavano.
«Damme ‘sta cazzo de pistola» gli disse Nico non appena vide Pawel seguito dalle due ragazze.
Kamil non rispose, i suoi occhi erano vuoti.
E più del rogo, più della pistola, più di Nico, Beatrice adesso aveva paura di quegli occhi acquorei, lontanissimi. Sembrava che il fratello non fosse più con loro nel campo, in mezzo alla pineta oscura, alla vegetazione secca, tra la sterpaglia e il terriccio. Fino alle dune, fino al mare, al Tirreno tiepido: solo il fruscio e la risacca, ondulazione tenue.
Paulina Spiechowicz, scrittrice e ricercatrice universitaria, è nata in Polonia e cresciuta in Italia. Vive a Roma, lavora tra Parigi e Beirut, dove insegna storia dell’arte e svolge ricerche in ambito umanistico.