Avevo voglia di scrivere un altro post sulla morte (sì, lo so, che razza di voglia) come promesso alla fine del primo dedicato a Tondelli.
Dunque rileggevo il romanzo Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère in cui lui racconta molte morti, ma soprattutto quelle di sua cognata e di una bambina travolta dallo tsumani del Natale 2004. Due persone che avevano lo stesso nome: Juliette.
A pagina 58 ho ritrovato un pezzo sottolineato che dice così:
Che cosa significa, quando hai sette anni, sapere che tua madre sta morendo? E quando ne hai quattro? Quando ne hai uno? A un anno non sai, non capisci, dicono, ma anche senza parole dovrai ben intuire che attorno a te sta accadendo qualcosa di estremamente grave, che la vita è in bilico, che non ci sarà mai più una vera sicurezza. Mi frullava in testa una questione linguistica. Detesto l’uso della parola «mamma» se non al vocativo e in un contesto privato: che anche a sessant’anni ci si rivolga così alla propria madre, benissimo, ma che terminata la scuola materna si dica «la mamma di Tizio» o, come Ségolène Royal, «le mamme» questo mi ripugna, e in tale ripugnanza intravedo qualcosa in più del riflesso di classe che mi fa storcere il naso quando in mia presenza qualcuno dice «lavoro su Parigi» oppure, ogni due per tre, «nessun problema». Ciononostante, perfino per me, quella che stava morendo non era la madre di Amélie, Clara e Diane, ma la loro mamma, e questa parola che non amo, questa parola che da così tanto tempo mi rattrista non direi che non mi rattristava, ma avevo voglia di pronunciarla. Avevo voglia di dire, a bassa voce: mamma, e di piangere e di essere non consolato, no, ma cullato, solamente cullato, e addormentarmi così.
Ho una fissazione, da qualche tempo: scrivo su un quaderno le frasi fatte che leggo nei manoscritti. È una lista molto lunga, eccone solo alcune:
Fin troppo consapevole di
Non perdeva occasione per
Non mancheranno occasioni!
Rimanere sulle spine
Il risultato sotto gli occhi di tutti
Parenti e affini
Loschi traffici
Con pugno di ferro
Col fiato sul collo
Quello che gli passa per la testa
Averlo tra i piedi
Tirare le fila
Pugnalata nella pancia
Tortura infernale
Spaccarsi la schiena
Strappato dai bassifondi
Senza via di scampo
Lottare come una tigre
Una lauta ricompensa
La posta in gioco
Mettere in cattiva luce
Situazione di stallo
Avvicinarsi di soppiatto
Prendere in mano le redini
Mettere con le spalle al muro
C’è un motivo, che non è solo formale, e non è solo personale, per cui Carrère dice di detestare l’uso della parola «mamma» ed è un motivo molto semplice, se vogliamo: «madre» e «mamma» significano due cose diverse, così come in inglese c’è una differenza tra «house» e «home».
A guardar bene, è lo stesso motivo per cui si dice a un bambino che il Natale non può durare per sempre altrimenti perderebbe la sua magia. È lo stesso per cui ci sono cose da poter dire in privato e cose da poter dire in pubblico, cose da dire belle e cose da dire brutte, cose gioiose e cose tristi. Se esistono tutte queste cose diverse da dire, ci sono parole diverse per dirle.
Ci vuole cura quando si compongono le frasi che raccontano una storia. Non è sbagliato dire «mamma» fuori contesto, o dire che un personaggio mette in cattiva luce l’altro quando in ufficio bisbiglia che è arrivato in ritardo. È solo inutile.
Quando scriviamo, scriviamo per dire qualcosa che altri non potrebbero dire. Se per dirla usiamo le stesse parole degli altri, non avremo detto niente.
ottimo consiglio, lo prendo al volo!
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Mi fa piacere Erodaria! 🙂
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a volte le cose ovvie sono le più difficili da vedere, per cui ben vengano consigli come questo!
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PS. ora che ti ho conosciuta ti seguirò assiduamente!
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Nel 1968, un secolo tecnologico fa, ero l’addetto alla “biga”, un stazione mobile in pista per l’assistenza degli atterraggi in assenza di visibilità negli aeroporti militari. Dentro un Controllore aspettava il rientro di ben 12 aerei nel bel mezzo di un micidiale temporale. Sentimmo i primi in avvicinamento con il solito tono impersonale in inglese.. poi improvvisamente tutti – meno il controllore – passarono al napoletano (venivano tutti da Pozzuoli ovviamente). Erano un 12 nel buio più assoluto in mezzo ai lampi e con questo trucco sapevano chi era il controllore e chi avevano vicino perchè nonostante usassero pochi vocaboli, dal tono e dal modo con cui venivano pronunciate parole (e bestemmie ) davano molte più informazioni preziose con un quarto delle parole. “Addustai 4…” vuol dire una cosa “aaaddustai4!!!! ” vuole dire molto di più. Nessuno dice la “parole degli altri” ma molti dicono le stesse parole che nel contesto hanno decine di significati diversi. In una situazione un cui – GIA’ QUELLO CHE STO SCRIVENDO E’ TECNICAMENTE UN PIPPONE probabilmente abbandonato 10 righe fa da 50% dei possibili lettori – “stringere” con frasi fatte non solo è utile in internet ma è necessario.
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Yeridiani, su internet sì, probabilmente hai ragione (anche se le cose stanno cambiando). Ma io qui parlavo di narrativa. Poi: scrivere lungo non significa scrivere meglio (o con parole proprie), anzi. Infatti nel pezzo non mi azzardo a dire il contrario. In realtà il ragionamento che fai tu mi sembra sia collegato a quello che ho detto io: se i piloti avessero usato tutti i giorni quel modo di parlare e bestemmiare, al momento giusto il trucco non sarebbe riuscito. E invece la differenza in quella notte buia e tempestosa (per rimanere in tema di frasi fatte) l’ha fatta il diverso e personale modo di comunicare.
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‘Quando scriviamo, scriviamo per dire qualcosa che altri non potrebbero dire. Se per dirla usiamo le stesse parole degli altri, non avremo detto niente.’
Ottima riflessione, solo con questo presupposto si demolirebbe la falsa dignità letteraria dei vari bestsellers odierni, per dare più spazio e risalto a chi fa vera letteratura, infatti a mio parere la frase che tu dici potrebbe benissimo essere la definizione di letterarura. Grazie del bell’articolo
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Grazie a te! (Ma demoliamola pure la “falsa dignità letteraria dei vari bestsellers odierni”, se è falsa). 😉
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Grazie Erodaria! 😉
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Bellissimo post, interessante e mi trovo d’accordo con te!
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Grazie, mi fa piacere!
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Hai scritto qualcosa che mi ha fatto riflettere. L’uso delle parole e i diversi contesti di applicazione. L’originalità dell’autore sta nella differenziazione linguistica e nella presenza soggettiva di alchimia col lettore.Meriterebbe discorso a parte la linguistica vernacolare capace di caricare o ridurre gli effetti di ogni parola. Complimenti per l’orizzonte che offri.
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Grazie mille Fabrizio!
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