di Luigi Loi
L’amore a vent’anni di Giorgio Biferali è un romanzo che andrebbe letto con la massima benevolenza per tutta una serie di fattori a latere che ne costituiscono la vera forza. In primo luogo per la sua collocazione editoriale: è tra i romanzi della Tunué, salutati in questi anni come prodigio di intransigenza, ricerca stilistica e formale. Vanni Santoni, direttore editoriale della collana, ha fatto sì che a Latina arrivassero numerosi riconoscimenti di pubblico e critica, consacrati con vari approdi allo Strega. Un successo notevole (e meritato) per questa collana anomala nel panorama librario italiano. Ma anomalo è anche il romanzo di Giorgio Biferali all’interno della sua stessa collana, per due ragioni.
La prima è il come la materia romanzesca viene trattata, così dissimile nel corpus dei romanzi Tunué: i due protagonisti, Giulio e Silvia, sono romani e abitano nella stessa via. Lui, voce narrante del romanzo, ultimo figlio (non voluto) ha dei genitori tutto sommato amorevoli e presenti, nonostante le piccole disfunzioni del quadro piccolo borghese che Biferali racconta; si innamora di Silvia, che ha alle spalle delle relazioni amorose tormentate (conditio sine qua non altrimenti si direbbero resoconti e non relazioni), con una famiglia realmente disfunzionale e una madre incombente. E fin qui, poiché si è impostato maliziosamente il discorso, sembrerebbe implicita una condanna che deplori questo sviluppo narrativo. Non è così, poiché tutto può avere in potenza una dignità narrativa, anzi, il contenuto è talvolta meno importante del contenitore.
È sul contenitore infatti che si nota la seconda anomalia del romanzo di Biferali. Se abbiamo uno sperimentalismo linguistico e formale in tutta la collana Tunué, addirittura esasperato in Medusa di Luca Bernardi, e in Mescolo tutto di Yasmin Incretolli, L’amore a vent’anni invece si caratterizza per tutta una serie di meccanismi formali che ricercano volutamente l’appiattimento col linguaggio giovanile contemporaneo, con i moduli del parlato colloquiale (“Va bene che Laura sta un po’ in crisi” pg 27, “L’hai stalkerata alla grande” pg 28, “e mi sentivo come in hangover” pg 53, “che mi dava del pazzo scoppiato, del bambino di merda” pg 134), attraverso gli escamotages più rodati di questo registro narrativo, dalle oggettive coordinate al che con valore temporale:
“Diceva che nella vita, lei, a parte lo studio, scriveva poesie, che le piacevano le poesie semplici” pg 26
“che potranno inventare facebook instagram happn once tinder ma quando la vedi per la prima volta che si muove e si guarda intorno e vive lì in quel momento davanti a te è tutta un’altra storia” pg 28
A livello grafico è presente un dispositivo tutt’altro che sperimentale per caratterizzare il flusso di coscienza, e cioè l’assenza dei marcatori di discorso diretto, dei dialoghi o dei de relato, segnalati con la semplice lettera maiuscola in luogo di caporali, apici e virgolette:
“e invece ho detto solo Ma, un po’ tutto, che è una risposta che non vuol dire nulla, che non può essere all’altezza di una domanda come Cos’è che ti mancherà?” pg 11
“di frasi spaventose come Ormai non sei più un bambino, o Scrivetevi i compiti per domani” pg 17
L’unico vezzo stilistico che Biferali si concede sono le rarissime epifore:
“salivano sul palco gruppi indie che non erano più tanto indie” pg 13
“Ricordo bene il giorno dell’amore prima dell’amore” pg 17
“abbiamo preso il caffè più veloce della storia dei caffè” pg 18
Quindi la benevolenza che si deve a questo romanzo, tutto sommato molto classico, è legata soprattutto a come l’argomento, l’amore dei giovani, è trattato. Tema ambizioso, e forse tra i più scivolosi e incandescenti, perché nella soggettività dell’esperienza umana, tra gli universali assoluti c’è appunto l’amore.
Se Biferali chiede al lettore immedesimazione attraverso il filtro della nostalgia (tragicamente soggettiva), delle due l’una: o si tratta di una discesa psicologica ammirevole nell’io narrativo (in odor di autofiction) con tutte le limitazioni che un simile personaggio porta in dote, o si tratta di pura novel, e allora L’amore a vent’anni non centra il bersaglio. E non potrebbe perché l’orizzonte umano dei protagonisti di questo libro è giovanile in modo ovvio e i riferimenti young adult e camp sono tutt’altro che trasparenti, come in questi passaggi:
“Avevamo paura delle stesse cose, di It, del finale di Roger Rabbit” pg 10
“le pringles, i tuc, la macedonia confezionata, le m&m’s, i muffin, le spremute, i lion, gli snickers, le torte vegane” pg 29
Il dipinto realista è molto particolareggiato, forse eccessivamente, tant’è che se L’amore a vent’anni dovesse sopravvivere a questa stagione letteraria si dovrà leggerlo con una serie di note che spieghino cosa sono stati “Friends su Comedy Central, Real Time, dove c’era Alta infedeltà, un reality sui triangoli amorosi, Real Time + 1, con Che diavolo di pasticceria!”(pg 40). Questa certosina caratterizzazione dell’atmosfera risulta essere il difetto più notevole dell’intero romanzo.

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La voce narrante, che ha promesso fin dalle prime battute di essere gli occhi e i ricordi di Giulio/Giorgio, una semplice macchina da presa (quella richiamata dalla copertina e dagli infiniti riferimenti cinematografici), quasi del tutto passiva, che registra gli avvenimenti, cosa ci sta raccontando? Di una tensione tra l’universalità dell’amore e la soggettività degli occhi che lo vivono? Questo passaggio a pagina 114, dove si racconta lo stupore e la scoperta del corpo nudo del partner, risponderà alla domanda:
“i seni che sembravano più piccoli, lei era magra e in più non si scopriva mai, e invece erano grandi, una terza, forse, stavano su ma erano morbidi, mi solleticavano il petto e mi riempivano le mani. Come quelli delle vallette che si vedevano in tv, però quella era tutta carne, niente plastica. Sotto, un triangolo piccolo, una piccola freccia verso il basso […] Dove vengo? Dove posso venire?, le chiedevo io. Dove vuoi, diceva lei, anche dentro. Anche dentro? Prendi la pillola?”
Le vallette di plastica in tv, sono lì a suggerire il giudizio estetico del protagonista, così come la descrizione evocativa del triangolo del pube della ragazza. Ma l’anticoncezionale? Cosa suggerisce? Poco, si tratta di un particolare né incongruo né insignificante, rappresenta soltanto la concretezza meccanica del reale. E questa meccanica il lettore la registra inconsciamente: la pillola ci dice del supposto realismo della vicenda, purtroppo tutta sbilanciata sull’aspetto del significante delle cose piuttosto che sul loro significato. In questo romanzo abbiamo Tinder, ma avremmo potuto avere delle lettere galanti e non sarebbe cambiato nulla. Abbiamo i cornetti ancora caldi ma avremmo potuto avere brioches di forno, abbiamo Charlie Hebdo ma se lo sostituiamo con Internazionale o con Il Messaggero sarebbe identico. Insomma, la scenografia che descrive l’epoca in cui vivono i due personaggi, fatta di parcheggi kiss&go, X-Factor, Ray-Ban neri wayfarer è una convenzione stilistica, pura foliazione. Se Giulio e Silvia indossassero i pantaloni a zampa d’elefante (costume da film per indicare gli anni ’70), se fossero vissuti sulla Luna piuttosto che a Forlì, di loro sapremmo solo questo. Uno dei punti di forza colpevolmente trascurati di questo romanzo è la contrapposizione tra geografia fisica e geografia intima:
“Mi mancheranno l’Eden, i nasoni, le piccole vie di Trastevere dove le signore si parlano dalla finestra, indovinare i sanpietrini con i piedi che è come camminare sulla sabbia, il tratto della metro tra Lepanto e Flaminio” pg 10
“Mi mancherà Silvia, che mi ha fatto sentire che avevo un cuore, che mi ha fatto vedere il mondo nei suoi occhi, che è un posto che nessuno conosce, che negli occhi aveva due lampioncini illuminati quando mi guardava, quando ci siamo innamorati” pg 11
Il tema è ricorrente lungo tutto l’arco narrativo, e varia appena nella lievissima contrapposizione padre contro figlio, ma anche qui l’apparato scenografico è la chiave di volta per risolvere la contraddizione:
“diceva a bassa voce Beatles, Rolling Stones, Simon & Garfunkel, Equipe 84, Area, Popol Vuh, De Gregori, Pink Floyd, Venditti, Sting, Battiato, De André, i Residents… Peccato che tuo padre è già sposato, ha detto lei ridendo, vabbè, mi accontenterò del figlio, va” pg 128
Se l’etichetta pigliatutto di fiction non fosse così malleabile, si potrebbe obiettare che L’amore a vent’anni non sia un romanzo, piuttosto una cronaca di costume raccontata da un giovane innamorato: la cronaca seleziona da sempre i dettagli statisticamente esemplari. Ma attenzione, se la cronaca ha velleità artistiche, rischia involontariamente di entrare nell’immenso recinto dei cliché; il romanzo, all’opposto, è intrinsecamente una prospettiva. È uno scorcio irripetibile e rivelatore, mentre dell’amore tra i due protagonisti di questo libro, della loro gioventù (e quindi della nostra) sappiamo quello che sapevamo a pagina 1.

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