di Chiara M. Coscia
13 Reasons Why , ideata da Brian Yorkey e trasmessa su Netflix, avrebbe potuto fermarsi al tredicesimo episodio della prima stagione. La serie si era dimostrata un fedele e puntuale adattamento televisivo dell’omonimo romanzo di Jay Asher. Alla fine abbiamo una confessione registrata, quindi possiamo esultare: è fatta! Pagherà! Andrà in galera!
Una storia che finisce – almeno un po’ – bene. E invece.
Questa seconda stagione amarissima ci mostra che non è così. La struttura stavolta è quella di un lungo procedural, che ricostruisce e approfondisce la vicenda e i punti di vista dei diversi personaggi attraverso il processo dei Baker, i genitori di Hannah, contro la Liberty High School. La storia di Hannah si allarga, si arricchisce delle storie degli altri, gli stessi personaggi a cui erano indirizzate le cassette, che hanno la loro versione dei fatti, ma che non contraddicono quella di Hannah, anzi: la completano, le danno una dimensione ancora più ampia, ancora più dolorosa. Certe reazioni della ragazza che nei primi episodi della prima stagione sembravano “eccessive” acquistano nuova luce, nuova ragione di esistere. Scopriamo una profondità di relazione con i compagni che rende ancora più doloroso il bullismo subito, ancora più colpevoli i bystanders.
Il processo è contro la scuola, che ha mancato nel cogliere i segnali, e non contro colui che abbiamo ormai identificato come “il colpevole”. Un processo contro di lui non è possibile senza un’accusa che venga da una persona viva, o delle prove. Serve la testimonianza di una vittima per stabilire un pattern. Hannah non era l’unica, ovviamente. (La forza dell’isolamento imposto dal bullo crea nella vittima stessa un pensiero automatico di senso di colpa: perché io? Ma non è così.)
Liberty High School, un liceo che ha nel nome il concetto più americano e più controverso del mondo, la libertà che è sempre libertà individuale assoluta, è uno spaccato di quella società aggressiva, classista e fortemente votata al consenso sociale, dove ogni minimo accenno alla diversità diventa bersaglio da colpire.
La cultura sessista del liceo era già stata denunciata nella scorsa stagione, ma in questi nuovi episodi sentiamo il peso di altre discriminanti. Il peso della “razza” che percepiscono Jessica e Marcus, che “non sono come gli altri”, e che in quanto di colore diverso devono “essere umili, e farsi furbi, perché le regole sono diverse per noi”(S02E03). Il peso della classe sociale che incombe su Justin, che ha la mamma tossicodipendente e finisce a vivere, eroinomane, per strada, svelandoci un mondo enorme e oscuro di cui gli Stati Uniti difficilmente parlano con serenità: la quantità di minorenni homeless che si è accumulata per le strade e ai margini in quest’ultimo decennio. E poi c’è la storia di Tyler, ragazzo timido, bersaglio anche lui, che man mano ci lascia intravedere come la cultura delle armi si faccia strada nella vita delle persone, e quanto sia facile per un minorenne acquistare pistole e fucili – più delle bombolette spray, che invece vengono messe sotto chiave da Wal-Plex.
Tyler diventa Hannah, in tutto e per tutto. Potremmo ricostruire in tredici pezzetti anche la sua storia, per arrivare alla scelta finale. Ma la tragedia viene risparmiata qui, e non perché il sistema abbia modificato qualcosa, o perché gli adulti abbiano imparato a riconoscere i segnali.
In questa stagione c’è una quasi assoluta mancanza del senso di responsabilità degli adulti. Sono assenti, distratti, inadeguati, e girano attorno a un sistema scolastico in cui la cultura della squadra e del cameratismo viene incoraggiata in ogni modo. Nello spogliatoio del Liberty High scorrono siringhe di steroidi, urina sintetica distribuita dal coach (probabilmente la figura più disgustosa di tutte), spedizioni punitive, affermazioni di potere assoluto.
C’è uno sketch di Amy Schumer, comica statunitense, chiamato “Football Town Nights”, di cui 13 Reasons Why sembra essere la versione tragica: il nuovo coach stabilisce una “no raping rule” e tutti (atleti, insegnanti, genitori) sono sconcertati. La Schumer sembra suggerire che non se ne esce, anche se impedisco lo stupro è proprio nella cultura dello spogliatoio l’idea di “dominare con violenza chiunque si metta tra me e ciò che voglio, prendermi quello che voglio perché ne ho il pieno diritto e sono dio.”
Un problema grosso c’è in questa stagione di 13 Reasons Why, ed è un problema di tempo narrativo. Non nel senso che ci siano cose che non quadrano o che risultino incoerenti. C’è proprio un problema di minutaggio. Fare una seconda stagione di una serie TV che basa la sua struttura su 13 episodi significa dover, per necessità tecniche, avere materiale a sufficienza per completare quei 13 episodi. Ecco dove fallisce la serie. C’è una diluizione delle informazioni che a volte tende a sopraffare le scene fondamentali, quelle più forti e toccanti, che finiscono per perdersi un po’ nella loro potenza rappresentativa. Ma forse non è casuale? Forse aver fatto una prima stagione di una violenza definita da molti devastante e eccessiva ha sollevato la necessità di andarci “piano”? Forse. Fatto sta che la costruzione della tensione nell’episodio finale, inutilmente più lungo di 20 minuti, diventa a tratti un’attesa frustrante. Non servono i rallenty, non vogliamo stare in chiesa tutto quel tempo. Tutta quell’attesa non funziona, perché risulta scollata dalle scene forti che vuole preparare. Sembrano due episodi montati insieme. Ed è un peccato. E poi.
E poi forse c’era bisogno di una strage, almeno del tentativo della strage. Forse non sarebbe stato poi così moralmente assurdo mostrarci l’umanità di un carnefice. Certo, non è meno feroce vedere come quel ragazzo diventi l’ennesimo fascicolo di cui occuparsi abbandonato su una scrivania, e come l’unica possibilità di salvezza per le vittime di bullismo non sia parlare con gli adulti, ma fare gruppo con le altre vittime, trovare una propria squadra, una propria gang.
La cultura del più forte e il potere dominante creano una sorta di struttura imposta e silenziosamente accettata in cui si impone la dicotomia bullo/potenziale vittima. Quest’ideologia trova la sua base storica nel Puritanesimo americano, nel concetto di “predestinazione” per cui la ricchezza e il successo in terra sono segno di vicinanza alla grazia divina. E infatti il più forte è sempre il più ricco.
Alla fine della prima stagione, dopo 3 mesi di libertà vigilata, il colpevole si trasferisce in una scuola ancora migliore del Liberty High. Anche lì hanno bisogno di un figlio della ricchezza che porti con sé le donazioni del padre. In un mondo dove il potere d’acquisto è la cosa che conta più di tutto e che consente qualunque libertà, i figli ricchi camminano protetti e legittimati.
C’è un riferimento a un racconto di Shirley Jackson nel terzo episodio della serie TV solo apparentemente casuale. La scuola ha bandito “The Lottery” perché “glamorizza la violenza”. “Ecco come funziona la Liberty High,” dice Tyler, “bandisce i libri e celebra dei tizi che sanno colpire una palla da baseball molto forte.”(S02E03)
“The Lottery” (qui in italiano) compare il 26 giugno del 1948 sul New Yorker. Gli abitanti di una non specificata cittadina americana partecipano ogni anno a una sorta di lotteria, che consiste nel pescare un foglietto di carta per famiglia da una scatola nera. I fogli sono tutti bianchi, eccetto uno, che ha un punto nero al centro. Il malcapitato pescatore del foglietto marcato viene lapidato a morte dai restanti cittadini. Negli anni, il racconto della Jackson è diventato un cult, da cui sono stati tratti spettacoli, opere teatrali e che è perfino citato in un episodio dei Simpsons (S03E19), cosa che ne sancisce definitivamente la rilevanza nella cultura popolare.
Al di fuori degli amatori e dell’accademia, tuttavia, “The Lottery”, sin dalla sua comparsa, è stato spesso tacciato di essere un racconto “oltraggioso, gratuitamente violento e senza senso”. In realtà, al di là dell’evocazione del sacrificio di sangue finalizzato al raccolto, è una storia che parla di una comunità ristretta, in cui i vicini sono brutalmente e gratuitamente violenti con un membro della comunità, scelto in maniera random, al fine di perpetrare un rituale sociale che fa fatica a essere eradicato.
“La mattina del 27 giugno si levò chiara e piena di sole, con il calore di una bella giornata estiva; i prati erano pieni di fiori e l’erba era già alta. Gli abitanti del villaggio cominciarono a radunarsi nella piazza, tra l’ufficio postale e la banca, verso le dieci.”
L’incipit di “The Lottery” potrebbe essere l’inizio di qualunque high school drama: la giornata chiara e piena di sole, gli studenti che si affollano all’ingresso della scuola. Le pietre fanno quasi subito la loro comparsa, vediamo i ragazzini del paese raccoglierle e accumularle senza sapere ancora a cosa serviranno. Potrebbero, all’inizio del racconto, essere ancora solo un gioco, uno scherzo innocente, un passatempo infantile.
“L’attrezzatura originale della lotteria era andata persa tanto tempo prima, e la cassetta era entrata in uso prima ancora che nascesse nonno Warner, l’uomo più vecchio del paese. Talvolta si parlava di una nuova cassetta, ma nessuno voleva rinunciare a quella tradizione: si diceva che la cassetta nera fosse fatta con alcuni pezzi di quella originale, costruita dai primi abitanti del villaggio.”
Il senso della tradizione a cui non si vuole rinunciare risulta chiarissimo in questa cassetta costruita dai resti di quella originale: una tradizione che si rigenera anno dopo anno, stagione dopo stagione, e che non morirà mai.
«Ho sentito dire» commentò il signor Adams, rivolto a nonno Warner che gli stava vicino «che nel villaggio a nord del nostro vogliono sospendere la lotteria.» Nonno Warner scosse la testa.
«Pazzi» disse.
«Ascoltano troppo i giovani, non c’è mai niente che gli vada bene. A dare retta a loro, si tornerebbe a vivere nelle caverne. C’è sempre stata la lotteria, e la lotteria è una cosa seria.»
Gli anziani si tengono stretti ai rituali, e di fronte alla possibilità di interrompere un sistema che va avanti da sempre reagiscono tirandosi indietro. Come il coach Rick, che ci tiene alla “squadra” e che farebbe di tutto per salvaguardare la squadra, come il preside Bolan, che non mette in discussione i metodi del coach e punisce i ragazzi come Tyler, quelli che avrebbero bisogno di essere ascoltati, ma non gli atleti. Gli atleti non si toccano.
“Anche se la gente del villaggio aveva dimenticato il rituale e perso la cassetta originale, sapeva ancora come si usavano le pietre. La pila preparata in precedenza dai ragazzini era pronta, e per terra, oltre ai foglietti trascinati dal vento, c’era anche una buona scorta di ciottoli. La signora Delacroix prese una pietra talmente grande che dovette sollevarla con tutt’e due le mani, poi si girò verso la signora Dunbar.
«Andiamo» disse, «sbrighiamoci».
Qui Shirley Jackson chiama in causa la capacità di ogni essere umano di diventare un carnefice, di prendere in mano una pietra e scagliarla contro una vittima a caso, che si trova in una posizione in cui ci sarebbe potuto essere chiunque.
“The Lottery” è la perfetta narrazione di quella cosa che si chiama peer pressure, la pressione del gruppo, il conformismo al comportamento collettivo che deresponsabilizza perché “lo fanno tutti, si fa da sempre, si è sempre fatto così”. È lo status quo, la ragione per cui niente cambia al Liberty High, e niente cambierà mai. È una storia terrificante che mostra i pericoli e l’agghiacciante e spaventosa dimensione divorante del gruppo, esattamente come in 13 Reasons Why. L’ambientazione è diversa, ma le strutture sono identiche, e ci viene il dubbio che il bullismo, tutto sommato, non sia altro che una forma di lapidazione contemporanea.
Meraviglioso articolo ( ho amato 13 reasons why e hai colto un collegamento davvero interessante)
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