Ha chiamato il 911.
“Polizia, pompieri o ambulanza?”
“Un medico”, ha detto lui.
“Polizia, pompieri o ambulanza?”
“Aiutatemi”, ha detto lui.
“Polizia, pompieri o ambulanza?”. Era una voce registrata.
“Ambulanza”, ha detto lui.
“Un attimo prego.”
(da Questo libro ti salverà la vita, A.M. Homes, 2006)
Nove volti, tutti diversi: per genere, per (presunta) provenienza, età ed espressione. Cinque luoghi: familiari o estranei, iconici o riconducibili a immaginari fantastici, con un’impronta umana vistosa o “naturali”, nella più artificiosa delle accezioni. Ma tutti vuoti, in attesa di essere attraversati. Queste sono le immagini da cui i corsisti (autori, autrici, editor e copywriter, lettori di professione e persino attrici alle prese con la scrittura scenica) di Vedere il rinoceronte, la seconda edizione del nostro corso online sui dialoghi, sono partiti per costruire i primissimi scambi di battute.
Parafrasando Michail Marmarinos, regista teatrale e pedagogo con cui lavorai anni fa sulla creazione drammaturgica: «Una figura umana in un sito è il punto di partenza per un atto performativo». Ed è questa la definizione di dialogo che ha dato il via ai quattro incontri: ogni dialogo è un atto performativo, poiché le parole dei personaggi non sono altro che azioni, che provocano reazioni, in un continuo susseguirsi di beat.
Sulle orme di Mckee e del suo manuale Dialoghi, spaziando dalle ragazze Gilmore di Amy Sherman Palladino, regine pop del ritmo e del non-detto che emerge tra le righe dei dialoghi “scolpiti” in Una Mamma per Amica, fino alla preoccupazione del Giovane Holden per le anatre in inverno, ci siamo interrogati sui diversi aspetti e le funzioni che le conversazioni hanno nelle storie. Quali e quante informazioni (storiche, geografiche, biografiche) è giusto fornire perché un dialogo risulti credibile? E con quali tempi? Quanto evocare, quanto suggerire, senza cadere nella trappola dello “spiegone”?
E ancora: come mandare avanti la storia senza perdere di vista il punto fondamentale della scena, qualcosa che ruota attorno all’intersecarsi di: relazione tra i personaggi, conflitto e desiderio? Quali parole pronunciano in pubblico i protagonisti di una storia, quali direbbero solo in privato e quali appartengono alla sfera dell’indicibile?
Abbiamo letto ad alta voce le parole degli altri e abbiamo provato a riscrivere le conversazioni degli estranei origliate sul treno, al bar, sotto casa, chiedendoci cosa differenzi un dialogo reale da uno credibile. Abbiamo limato le “stampelle” di chi ricorre alla voce narrante per evitare lo scontro diretto, abbiamo provato ad aggiungere delle direzioni registiche a quei dialoghi ancora troppo astratti. Quando le didascalie regalano profondità alla scena e quando invece le sottraggono ritmo e freschezza?
Nelle ultime pagine della sua guida, McKee affronta i dubbi e le frustrazioni degli autori alle prese con le parole dei personaggi, consigliando di affrontarle “con la spada in una mano e la bilancia nell’altra”: «Lo scrittore misura l’equilibrio dell’immagine contro la parola e della parola contro il silenzio. Giudica ogni scena in questo modo. La creatività non è imparare le risposte giuste ma porre le domande più difficili».
Con l’idea che i problemi di un dialogo siano i problemi di una storia e che, al contrario, dei buoni dialoghi possano far decollare dei personaggi ben costruiti, ci siamo posti ancora più domande, ci siamo lasciati con delle questioni aperte e un block notes di esercizi aggiuntivi. Nel tentativo di incontrare altri rinoceronti.