Quando è avvenuto il tuo primo incontro con l’editing? Come l’hai vissuto? Si è modificato nel tempo? Com’è stata la prima volta e com’è oggi?
Avevo sedici anni, pubblicavo i miei primi racconti su una rivista palermitana, si chiamava «Perapprossimazione», una rivista diretta da Gaetano Testa, che veniva dalla Scuola di Palermo del Gruppo 63. Uno dei redattori, poi diventato mio grande amico, Francesco Gambaro, interveniva pesantemente sulle frasi, portando alle ultime conseguenze le mie scelte lessicali un po’ cerebrali, un po’ timide, così “circonvoluzioni della mente” diventava “circonvallazioni della mente”. E si apriva un mondo. È stata una scuola di possibilità. Oggi soffro molto la prima lettura dell’editor che non ha ancora preso le misure del libro, le domande sul testo che mi rivelano che qualcosa secondo me chiarissimo non è arrivato, che alcune chiavi del libro non risultano reperibili. Normalmente, in seconda lettura, si forma fra me e l’editor un’alleanza sicura: lui mi capisce e io accetto più di buon grado i consigli che finalmente anch’io mi spiego. Così è capitato con Fabio Stassi nell’ultimo libro, La prima vita di Italo Orlando.
Che tipo di editing hai ricevuto: lavoro sulla trama? Sulla struttura? Sulla forma? Puoi farci degli esempi concreti?
In un solo caso ricordo un intervento sulla struttura: è stato l’intervento preziosissimo di Nicola Lagioia che mi ha consigliato di portare a due i piani temporali di Eravamo bambini abbastanza, in origine erano tre. Mai nessuno mi ha fatto appunti sulle trame. Per il resto, mi viene indicata soprattutto l’opacità di alcuni passi. A volte risulto incomprensibile.
Che differenza c’è, se c’è, tra il lavoro di editing che hai ricevuto sui romanzi e il lavoro di editing che hai ricevuto sui racconti?
Sui racconti talvolta mi è stato chiesto di aggiungere descrizioni, di rallentare la corsa verso la conclusione; per i romanzi non è mai successo.
È raro trovare autori e autrici che usano il punto di vista dei bambini in un romanzo per adulti, come hai fatto tu. Come si è lavorato in fase di editing a questa (difficile e affascinante) particolarità?
La scelta della voce in Eravamo bambini abbastanza non è stata oggetto di editing e, superato lo scoglio iniziale – quello in cui Nicola ha messo in discussione la struttura – tutto il lavoro in quel libro è stato improntato a una grande allegria. Nicola aveva presente l’andamento delle frasi, persino il ritmo, non mi ha mai suggerito un cambiamento che togliendo o aggiungendo una battuta potesse irritarmi.
Credi che l’editing cambi la qualità della tua scrittura e della tua voce autoriale?
Non è mai successo. Mi sono state messe di fronte le questioni, ho trovato io le soluzioni, sulla base della mia consapevolezza autoriale.
Qual è e dov’è, per te che lo ricevi, il limite dell’editing?
Tutto va bene, purché l’ultima parola spetti a me, come per altro è normale.
Quando l’editor sei tu, come ti comporti sui testi degli altri? Come funziona, nella pratica, il tuo approccio e il tuo apporto al lavoro altrui?
Cerco di entrare nelle intenzioni e nella voce di chi scrive, di individuare le leggerezze, le pigrizie, l’adagiarsi sull’ovvio e sul già sentito. Indico gli errori strutturali, quelli per cui il libro non sta in piedi. A volte propongo timidamente soluzioni, ma preferisco che me le proponga l’autore. Dove vedo errori, suggerisco occasioni.
foto di copertina di markus spiske