intervista a cura di Marco Terracciano
Qual è stata la tua prima esperienza con l’editing e cosa ti ha colpito?
Il mio primo editing l’ho fatto con lo scrittore Gabriele Dadati su un saggio pubblicato da Laurana, 10 modi per imparare a essere poveri ma felici. Ho notato una differenza tra gli editor-scrittori e gli editor-editor, differenza che non è di qualità, ma di approccio al testo. Il punto di vista cambia profondamente. L’editor-scrittore conosce alcune sfumature dell’atto della scrittura, del modo in cui il mondo esterno ti entra dentro e tu attraverso il filtro interiore lo riporti nella pagina. Conosce quel meccanismo e riesce a comprenderti quasi un attimo prima che inizi a scrivere. L’editor-editor quella cosa in più ce l’ha in un’altra fase, non quando l’idea prende forma, ma nel momento immediatamente successivo.
Hai qualche aneddoto da raccontare a proposito?
Ti faccio l’esempio di quello che mi è successo durante l’editing di Anni luce. In quell’occasione il mio editor era Stefano Del Prete. È stato divertente perché ci siamo sentiti per la prima volta dopo che aveva letto il testo per intero, e la prima cosa che mi ha detto è stata: “Guarda, io non ne so nulla del grunge, io vengo dal jazz” [Anni luce è la storia di un uomo e della sua passione per la musica grunge degli anni Novanta, n.d.r.]. Una cosa paradossale, eppure da un certo punto di vista molto utile perché riusciva ad avere un occhio più lucido, meno coinvolto emotivamente. Il suo distacco dal tema mi ha permesso di tenere a bada lo scarto emozionale e la veemenza che avevo nel trattare questi argomenti. È importante questo aspetto, poi è chiaro che il rapporto varia da scrittore a scrittore. Io sono tra quelli che cercano sempre qualcosa in più dal loro editor rispetto al semplice passaggio che si fa sul testo. Cerco comprensione, soprattutto per quanto riguarda temi molto intimi come quelli del mio ultimo libro, L’uomo che trema. Quando si fa questo tipo di narrativa non si tratta semplicemente di lavorare sulle strutture del testo, ma di entrare veramente nella vita di una persona.
Cosa è cambiato con la scrittura di L’uomo che trema?
In quel caso ho lavorato con Dalia Oggero, che è una editor-editor. È subentrato fin dall’inizio un rapporto che trascendeva il lavoro sul testo. Da Anni luce in poi mi sono dedicato alla non-fiction autobiografica e quindi, come ho detto, devo intervenire direttamente sulla mia vita. Con L’uomo che trema è stato un processo particolare perché ho cominciato a raccontare quello che vivevo in presa diretta. Mi succedevano delle cose e il giorno dopo ne scrivevo. Questa condizione a un certo punto ha fatto sì che mi ponessi una domanda grossa, un dilemma morale enorme per uno scrittore. Mi sono chiesto: “Ma non è che sto condizionando la mia vita in funzione della cosa che sto scrivendo?”. Dalia, in quell’occasione, è intervenuta in maniera decisiva. È riuscita a tranquillizzarmi nel momento in cui avevo bisogno di essere tranquillizzato. Mi trovavo in un punto di svolta notevole non solo a livello di trama, ma anche di storia individuale. Lei lo ha capito e mi ha detto che se non me la fossi sentita di andare avanti il libro sarebbe andato bene anche così com’era. Ovviamente non era pronto, ne avevamo circa la metà.
Come ne siete venuti a capo?
È riuscita a liberarmi dicendomi: “Se è vero che la scrittura sta influenzando la tua vita e se questa influenza riesce a tirare fuori qualcosa di positivo, allora va bene così”. Per il resto mi ha dato una libertà totale, così ho continuato a scrivere la mia storia, l’ho portata a conclusione e solo a quel punto abbiamo iniziato il lavoro vero e proprio sul testo. Non so se si può parlare di editing di primo e secondo livello. Quel che posso dire è che mi sono trovato coinvolto in un caso di editing che entra nella vita. È stata così importante come esperienza che, alla fine, le ho confessato che avrei avuto difficoltà a lavorare con un altro editor in futuro, dopodiché le ho chiesto esplicitamente di essere il mio editor personale da lì in avanti.
Ti racconto quest’aneddoto per dire come un professionista della scrittura, nel mio caso, sia riuscito a fare una sorta di consulenza psicologica, a entrare, cioè, nei meccanismi della mia percezione della realtà. Dalia ha capito non solo i problemi che io stavo affrontando come scrittore, ma anche quelli che stavo affrontando come uomo in quel preciso momento. Questo è stato il primo passo per arrivare al testo letterario.
Hai mai provato vergogna nel far leggere al tuo editor le cose che scrivevi?
Su questo punto sono stato chiaro con me stesso. Se ti fermi a pensare al pudore, se ti metti a pensare alla possibile ricezione di quello che stai scrivendo o, più semplicemente, se immagini che lo leggeranno i tuoi familiari, i tuoi amici, dei perfetti sconosciuti – al di là dell’editor – quello è il momento in cui fallisce il tuo atto di scrittura autobiografica. Da lettore ho capito che una delle cose fondamentali della scrittura autobiografica è proprio questa: non avere freni. Come quando ti getti da una montagna con gli sci ai piedi. Se ti fermi quell’attimo di troppo a pensarci non ti lanci più. I testi autobiografici che secondo me funzionano meno sono quelli dove sento il freno a mano tirato. Da questo punto di vista il lettore ha delle antenne affilatissime. Si accorge subito se non sei stato onesto. Onesto, però, non significa che tu abbia aderito in maniera documentale alla realtà, perché questo è di fatto un’utopia, ma che sia andato quasi più a fondo. Poi puoi anche aver inventato qualcosa, non è quello il punto. La cosa fondamentale è la sincerità assoluta col lettore prima ancora che con te stesso.
Passando al testo vero e proprio, come avete lavorato sulla stesura finale?
Dal momento che si trattava di un lavoro in via di definizione, cioè di un testo che avevo iniziato senza sapere bene dove mi avrebbe portato, abbiamo deciso di procedere un passo per volta. Non avevo una scaletta, ma un’idea di massima e molto dipendeva dalle circostanze della mia vita. Abbiamo stabilito questo metodo: io avrei scritto orientativamente tre parti da inviarle separatamente. Lei avrebbe fatto una lettura e un intervento minimo di editing, appuntandosi le impressioni più fresche sul contenuto, l’impatto che ne riceveva. Alla fine ha fatto un lavoro in cui si andava un po’ più a fondo nel testo. Sciogliere alcuni grumi nella lingua per cercare di uniformarla, per esempio. L’uomo che trema si basa su due registri temporali, passato e presente, e spesso riusciva a sentire molto bene alcuni incastri, a individuare momenti in cui le due lingue non coincidevano. Infine qualche sporadico spostamento di capitolo per cercare di dare una maggiore circolarità all’insieme.
Se fossi un editor, allora, come ti comporteresti con un autore esordiente?
Cercherei in primo luogo di metterlo a suo agio. Spesso l’editor è il primo lettore per uno scrittore esordiente e questo significa assumere su di sé una grossa responsabilità. L’enorme aspettativa è un aspetto che uno scrittore può soffrire molto, così come il confronto professionale sulla sua scrittura. Per cui la prima cosa che farei nelle vesti di un editor sarebbe quella di stabilire un rapporto di non belligeranza. Gli direi: “Non sono qui per esaminare il tuo testo, per mettere dei voti”. Cercherei di creare una sintonia e, di conseguenza, di guadagnarmi la sua fiducia. Se un editor non ha la fiducia dello scrittore, con ogni probabilità non ne verrà fuori niente di buono.