(La prima parte dell’articolo è qui)
Ideata, prodotta e diretta da Steven Conrad (già sceneggiatore di La ricerca della felicità e Wonder), e trasmessa da Amazon Prime, in Italia la serie crime americana Patriot è passata quasi inosservata: una rapida ricerca su Google produce pochi risultati (soltanto su siti specializzati) e persino la pagina wiki si ferma alla prima stagione; in più, a prescindere da qualsiasi filter bubble, è arduo imbattersi per caso in qualcuno che l’abbia vista. In questo articolo cercherò di identificare i punti forti di Patriot, ma anche le cause della sua immeritata invisibilità, nella speranza di convincervi a darle una chance.
Per apprezzare una serie come Patriot, a metà tra spionaggio e dark comedy, può essere utile fare una premessa: qualsiasi serie tv rispetta due tipi di norme, quelle del genere cui appartiene e quelle “intrinseche”, stabilite dagli autori per caratterizzarla; queste ultime devono essere comunicate allo spettatore il prima possibile, magari già nel pilot, e determinano ciò che può o non può succedere, psicologia, ruolo e registro dei personaggi, livello di verosimiglianza, rispetto del genere, e così via. In tal senso, Patriot sembra porsi l’obiettivo di deridere tutte le norme del genere spionistico e di tradire costantemente quelle “intrinseche”, offrendo allo spettatore un intrattenimento che riprende le logiche della morra cinese. Ma andiamo con ordine, provando innanzitutto a riassumerne la trama.
L’agente segreto John Tavner viene incaricato dal padre Tom, capo dell’intelligence, di infiltrarsi sotto copertura in una ditta di tubature industriali e di sfruttarla come veicolo per trasferire una somma di denaro in Lussemburgo, allo scopo di impedire che l’Iran finanzi il proprio armamento nucleare proprio grazie all’ingente mazzetta con la quale lo stesso Tom aveva provato a influenzarne le elezioni. Per intraprendere la sua missione John deve superare un colloquio di lavoro, ed è per questo che, quando capisce di non aver convinto la commissione, decide di spingere sotto un camion l’altro candidato. Riuscito così a farsi assumere, deve subito affrontare un imprevisto: l’addetto allo smistamento dei bagagli dell’aeroporto di Lussemburgo gli ruba infatti la borsa coi soldi e John è costretto a seguirlo fin dentro casa, dove viene aggredito dai sei fratelli del ladro, tutti enormi brasiliani lottatori di jujitsu, trovandosi costretto a ucciderne uno. Il Lussemburgo, però, ha un tasso annuo di omicidi pari a zero, per cui il delitto diventa un caso nazionale e John si ritrova alle costole l’implacabile detective Agathe Albans. E qui ci fermiamo, perché la trama di Patriot è una concatenazione inesorabile di eventi sempre più grotteschi e sarebbe impossibile riassumerla senza elencarne ogni anello.

foto di jordan whitfield
Uno dei punti di forza della serie è l’umorismo, originale e coerente: non sono presenti battute né cadute di stile, e il riso è generato di volta in volta dall’attrito tra dramma e farsa, dai tempi comici, dai campi troppo lunghi, dalla gestione della sospensione dell’incredulità. Al contempo, è possibile che una parte del pubblico non trovi divertenti queste trovate, la cui comicità non è segnalata in alcun modo (ricordate le risate preregistrate delle sitcom? bene, siamo agli antipodi), un po’ come succedeva nella comedy The Office, che non suggeriva mai allo spettatore a quale livello dovesse ridere (per le battute? Del fatto che non facessero ridere? Della consapevolezza degli sceneggiatori?). Chi cerca una comedy convenzionale rimarrà deluso.
Il secondo punto di forza, compenetrato al primo, è il rapporto con la verosimiglianza. Le coincidenze abbondano e le intuizioni geniali scimmiottano quelle dei supereroi investigativi. I tempi scenici sono più teatrali che cinematografici, e può capitare che il protagonista si sieda da qualche parte e che tutti gli altri personaggi lo raggiungano, a turno, uno alla volta, per dirgli qualcosa, senza accorgersi di chi è andato via o di chi arriva dopo. Patriot mette lo spettatore nelle condizioni di indovinare la prossima assurdità (quante possibilità ci sono che la moglie e la persecutrice di un ricercato si ritrovino sullo stesso aereo, vicine di sedile, e diventino amiche? Nessuna. Allora succederà), per poi disorientarlo con svolte spiazzanti (Agathe che ritrova la figlia ma la affida alla moglie di un uomo che reputa sanguinario). Questa tecnica raggiunge l’apice nella scena della morra cinese (in L’Affaire Contre John Lakeman, S01:E08), che nella sua prevedibilità risulta più appagante di un colpo di scena, anche grazie all’esasperazione dell’espediente comico della ripetizione.
Ma se nulla di ciò che accade è plausibile (spacciarsi per un ingegnere? Portare un uomo in uno zaino per ore senza che nessuno se ne accorga?), la recitazione è intensa, mai sbavata e aderente ad antefatti e comportamenti. Nonostante rientri nella categoria delle “mogli impotenti” (Carmela dei Soprano, Skyler in Breaking Bad, Betty in Mad Men, e così via), Alice è un personaggio a tutto tondo, spaesato ma vivido. La doppia natura di Leslie (Kurtwood Smith), leader e tossico, è plausibile e a tratti struggente (vedi il tentativo di riconciliarsi con il figlio, in S02:E05). La dedizione fraterna di Edward è credibile e dinamica. La glacialità di Agathe è spiegata attraverso un flashback su un’infanzia difficile (Army Of Strangers, S02:E05). E Tom, con la sua sorniona pacatezza e l’innocente egocentrismo, è un personaggio molto stratificato. Ma in tutto questo, il protagonista, chi è, cosa pensa, come si comporta?

foto di oladimeji odunsi
Pur fungendo da collante, John Tavner è un personaggio cavo, vittima di un disturbo da stress post-traumatico (nello specifico della «Sindrome di John Wayne», con la quale la polizia americana identifica i veterani convinti di essere supereroi). I sintomi comprendono «incubi, ricordi assillanti e difficoltà relazionali», e John li ha tutti: si intuisce che la sua depressione abbia avuto inizio dopo una missione andata male, ma non sono dati indizi sulle sue precedenti condizioni. Tutto ciò che vediamo è un uomo in balìa di un padre sconsiderato e che, nonostante le condizioni psicofisiche sempre più disastrate, risponde immancabilmente «abbastanza bene» a chi gli chiede come va. Attenzione, però: si tratta di un personaggio depresso ma non deprimente. Piacente, malinconico e capace di rari sorrisi spiazzanti, John è comunque tridimensionale, merito di una buona caratterizzazione e dell’interpretazione di Michael Dorman. In più, per aggiungere un tocco di inverosimiglianza, in ogni puntata John improvvisa un pezzo alla chitarra in cui svela i dettagli della sua missione, con un effetto comico che non sminuisce il piacere di questi intermezzi (a cantare e suonare è lo stesso Dorman). È un modo atipico di approfondire il protagonista, ma anche di raccontare la storia, che in un paio di casi ha esiti eccellenti, come nel piano sequenza cantato della puntata The Guns of Paris (S02:E03). Va chiarito che la giustificazione intradiegetica (John è un ex cantante folk) ci allontana dai territori del musical e che l’attenzione alla colonna sonora è alta.
Dal punto di vista estetico, Patriot è curata, elegante e piacevole. Tutto è artificioso, simmetrico, calcolato, a tratti pittorico, ma in armonia con toni ed eventi. In termini di inquadrature il richiamo più immediato è Wes Anderson; il design dei personaggi può far pensare ai Coen; i movimenti di camera richiamano Refn. E ancora, la suggestiva ambientazione a Lussemburgo è un’alternativa luminosa agli scorci gotici di In Bruges (2008), al quale Patriot deve anche alcuni elementi di humour nero. Un altro precursore potrebbe essere Burn After Reading (2008), ma con toni meno nevrotici. In generale, la regia tende a ripensarsi e a sperimentare, e dà il primo segnale di una forte autorialità nella sequenza finale dell’episodio John’s To Do List (S01:E04), tramite una sfocatura funzionale e metanarrativa.
Per quanto riguarda le scelte di rappresentazione di genere, in Patriot nessun personaggio femminile viene visto e rappresentato attraverso i dettami classici dello “sguardo maschile”. I costumi sono sobri, non sono presenti scene di sesso, non ci sono sottotrame sentimentali (cui ricorreva persino l’impietosa The Wire); nemmeno due innamorati come John e Alice entrano mai in contatto, esclusa una rapida sequenza del pilot. Se un personaggio femminile è forte questo attributo non è sottolineato come un’eccezione; è vero che l’ingresso in scena dell’autoritaria Bernice Tavner (Debra Winger), nella seconda stagione, può ricordare il ruolo di deus ex machina di boss occulte come Livia nei Soprano e Brianna Barksdale in The Wire; Bernice, però, non è una matriarca ma un pezzo grosso governativo, e non si fatica a speculare che Tom sia dov’è grazie a lei. Per contro, se tutta la narrazione ruota intorno alla critica della figura patriarcale, l’allucinata sequenza dei bagni della polizia (in The Sword and the Hand, S02:E04), con tanto di primi piani penieni, costituisce l’apice dell’umiliazione dei cliché machisti.
Patriot ha concluso la sua seconda stagione con un finale aperto che, in caso di cancellazione, rimarrebbe comunque appagante per lo spettatore. Vitale, per una serie di questo tipo, è la capacità di ripensarsi. Una terza stagione, quindi, dovrebbe rimescolare le carte in tavola, ed essere se possibile divertente in un modo ancora nuovo. Mi auguro quindi di aver convinto un numero sufficiente di potenziali spettatori affinché un immane afflusso di visualizzazioni, email e proteste dall’Italia raggiunga gli Amazon Studios a Los Angeles, in California, e convinca gli executive producer, gli sponsor o chi per loro a dare il via alla terza stagione. Se ci trovassimo all’interno di Patriot non sarebbe poi così inverosimile.