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Patriot, “Un uomo triste in completo”. Prima parte: Il momento del mostro

di Mauro Maraschi

I Soprano (1999-2006), The Wire (2002-2008), Breaking Bad (2008-2013) e Mad Men (2007-2015): almeno quattro delle serie tv di maggior successo degli ultimi vent’anni sono incentrate su un antieroe e hanno inaugurato e poi cavalcato la tendenza tutt’oggi predominante.
Gli antieroi non li hanno inventati le serie tv. Esistono da sempre, e sono in genere personaggi privi delle qualità positive dell’eroe (idealismo, coraggio, bontà), o anche di quell’aspetto esteriore che, secondo la kalokagathìa, coinciderebbe con la rettitudine morale. Anche gli inetti letterari sono degli antieroi: da Ulrich e Zeno fino ai giorni nostri, i romanzi contemporanei ne sono pieni, anche se spesso il crimine peggiore che possono commettere è quello di annoiare il lettore.
Oggi, però, parlando di antieroi si intende quasi sempre “antieroi negativi”, quelli che un tempo erano i “cattivi”, personaggi che non soltanto sconoscono il bene, ma praticano attivamente il male. La differenza, rispetto al passato, è che oggi il cattivo non è più relegato al ruolo di nemesi e può persino essere il protagonista. Le serie tv che partono da questo presupposto fanno appello a quella che Mittell in Complex Tv ha chiamato una “moralità relativa”, contando sul fatto che, a furia di trascorrere ore a osservarne la vita quotidiana, gli spettatori finiscono per comprendere le motivazioni dei cattivi e provare empatia nei loro confronti: grazie a quel fenomeno noto come “interazione para-sociale”, possiamo addirittura affezionarci a individui dai quali nella vita reale ci terremmo alla larga. Questo tipo di esperienza non ha equivalenti al cinema, dove, nel peggiore dei casi, anche il cattivo più intrigante si congeda dopo un massimo di tre ore. Ma a questo punto facciamo un passo indietro, a una duplice distinzione: quella tra narrativa e audiovisivi e rispettive forme lunghe e brevi.

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Partiamo dal presupposto che, nel tentativo di elogiare un qualsiasi oggetto culturale, sia il discorso critico che quello popolare tendono ad accostarlo a generi, forme o medium considerati superiori a quelli propri dell’oggetto. Se in passato il cinema è stato legittimato mediante la dimostrazione della parentela con la letteratura (considerata un medium più nobile), allo stesso modo fino a qualche anno fa si diceva che una serie ben fatta era “cinematografica”, alludendo a production values superiori e alla presenza di attori hollywoodiani. Allo stesso modo, nel tentativo di valorizzare un’antologia di racconti, alcuni editori sostengono che sia leggibile “come un romanzo”. E ancora: consapevoli di vantaggi e svantaggi delle etichette, alcuni critici argomentano che una determinata opera ha un respiro troppo ampio per essere “ridotta” alla fantascienza. A parte le apprezzabili eccezioni, sono dell’opinione che in un discorso critico sia più proficuo attenersi a forma, genere e medium specifici dell’oggetto in analisi.
Prendiamo ad esempio il racconto, che si attiene a regole diverse da quelle del romanzo. Il racconto è una forma breve, ma non si può per questo considerare un “romanzo molto corto”. Nel racconto non c’è spazio per troppi personaggi, né per quell’approfondimento che, nel romanzo, avviene per accumulo e/o analisi: in un racconto identità e antefatti vanno svelati con poche pennellate, azioni o frasi. Un racconto nasce spesso da una buona idea riguardante il finale, mentre un romanzo si autodefinisce tramite lo stile e l’intreccio e chiude per sfinimento, con un finale vago o un colpo di scena, il tutto in proporzioni variabili. Per il resto, dal punto di vista industriale racconti e romanzi sono prodotti simili: sono attribuiti a un solo autore, si trovano in libreria e si avvalgono degli stessi processi distributivi e delle stesse modalità di fruizione.
Le differenze tra serie tv e film sono più sostanziali. Per raggiungere le sale un film deve essere “chiuso”, mentre una serie tv può cambiare traiettoria o essere cancellata in base all’accoglienza di pubblico e critica. Lungi dall’essere auto-conclusivo come un racconto, un episodio di una serie continuativa fa parte di una narrazione più ampia – la stagione – che ha oggi una durata media di 13 ore. Il numero di persone che entrerebbero in una sala per guardare un film di 13 ore è di molto inferiore a quello degli spettatori che, nella comodità domestica, potrebbero concedersi 13 ore di visione in modalità binge watching. Inoltre, prima della diffusione di Internet, DVD e supporti portatili, il fatto che la serie tv fosse fruita a casa limitava ciò che poteva essere mostrato sullo schermo durante determinate fasce orarie. È opinione diffusa che questo vincolo fu messo in discussione per la prima volta nel 1999 dalla serie tv I Soprano, ideata da David Chase.

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I Soprano racconta le vicende di Tony, boss di una famiglia mafiosa del New Jersey, e propone un gustoso parallelo con la sua sfera privata, simile a quella di qualsiasi “famiglia”. Inoltre, Tony è succube della madre ed è mostrato in tutte le sue debolezze, confidate a una psicoterapeuta. Dopo le prime quattro puntate si può ancora pensare che sia una dark comedy (lo stesso Chase si era chiesto se non lo fosse); ma in Un conto da saldare (S01:E05), trasmesso il 7 febbraio del 1999, avviene qualcosa che, per quanto oggi possa risultarci familiare, ai tempi costituì un momento di rottura.
L’episodio parte in modo leggero, con Tony che accompagna la figlia in un tour delle università, in vista dell’iscrizione. In uno dei vari spostamenti, Tony intravede Fabian Petrulio, ex affiliato ora informatore dell’FBI, e lo comunica telefonicamente ai suoi compari, insistendo però per occuparsene da solo, spinto sia dalla frustrazione per l’obbligo di svolgere faccende famigliari, sia dal desiderio di confermare la sua dedizione al clan. Lasciata la figlia in albergo, Tony tende un agguato a Petrulio e lo strangola con un filo da bucato, in un’interminabile scena di un minuto e sedici secondi. Il mostro si è rivelato e, da quel momento, lo spettatore sa che può aspettarsi di tutto. È vero che già nel primo episodio, Affari di famiglia, avevamo assistito a scene cruente, ma stavolta l’assassino è il protagonista, e considerato che il successo di una serie dipende dalla fedeltà dello spettatore nei suoi confronti, da quel momento se continuiamo ad appassionarci alle tribolazioni di Tony Soprano siamo anche complici di un assassino. Mai prima di allora, nella storia della tv, lo spettatore era stato posto in una tale condizione di complicità.
È importante qui, ricordare l’etimologia di “mostro”, che è monstrum, “prodigio, portento”, in senso sia positivo sia negativo, e che si può riferire a «persona che riveli qualità, buone o cattive, oltrepassanti i limiti della normalità» (Treccani.it). Bene, nelle serie tv crime con antieroi negativi c’è sempre una scena nella quale il protagonista rivela di cosa è capace (che tipo di mostro è), un’informazione dalla quale dipenderà il nostro desiderio di seguirlo nelle sue avventure. Abbiamo appena raccontato il momento di Tony Soprano. Tony, però, è un criminale, per cui il compromesso con una “moralità relativa” era implicito fin dall’inizio, e si trattava soltanto di scoprire quanto Tony potesse rivelarsi mostruoso. Il discorso è diverso per Breaking Bad, nella quale il protagonista, Walter White, si presenta inizialmente come un uomo qualunque, uno stimabile e frustrato insegnante di chimica malato di cancro, motivo per cui ci mettiamo poco a schierarci dalla sua parte. Anche quando intraprende la sua lenta metamorfosi in Heisenberg, Walter White non può trasformarsi in un prodotto socioculturale (qual è un boss della malavita), ma rimane l’incarnazione parossistica del libero arbitrio, ovvero ciò che chiunque potrebbe diventare a partire da zero. L’abilità della writers’ room di Breaking Bad è stata proprio la gestione di un costante equilibrio tra compassione e simpatia per il male, che giunge al culmine in un’altra scena chiave della storia della tv, quella in cui Walter White lascia morire Jane per assicurarsi il monopolio di Jesse: da quel momento Walter diventa un cattivo, e noi, se continuiamo a seguirlo, i suoi complici. E considerato che la scena si trova alla fine della dodicesima puntata della seconda stagione, se siamo arrivati fin lì è probabile che rimarremo dalla parte del mostro.

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Tralasciando Mad Men, per diversi motivi, bisogna notare che in The Shield (2002-2008) il “momento del mostro” era stato collocato già alla fine della puntata pilota, Squadra d’assalto: qui, dopo un episodio pensato per presentare i personaggi principali, e soprattutto il cane sciolto Vic Mackey, vediamo quest’ultimo che spara in testa a un altro poliziotto, pochi secondi prima dei titoli di coda – una scena traumatica, nonché “immorale”. Si potrebbe citare anche Dexter (2006-2013), che già dalla sigla ironizza sulla violenza, se non fosse che il suo protagonista è addirittura un serial killer, e che nel pilot lo vediamo subito in azione (5:09), si definisce lui stesso “un mostro pulito” (8:27) e, di conseguenza, ha ben poco da “mostrare”.
Ma ecco che arriva Patriot (2015-2017), nella quale il “momento del mostro” si presenta nel pilot e ancora prima della sigla, a 2:42 minuti dall’inizio, e viene enfatizzato per contrasto dalle prime note della trasognata Train Song di Vashti Bunyan: vediamo il protagonista, John, che spinge un innocente sotto un camion. Non abbiamo ancora avuto modo di capire di cosa parli la serie, ma è già chiaro che, da quel momento, può succedere di tutto, considerato che il gesto di John non è dettato da una vendetta mafiosa (I Soprano), né dai conflitti intestini della polizia (The Shield), bensì dall’imperativo di ottenere un posto di lavoro: l’effetto è tragicomico, soprattutto perché l’atto rivelatorio, in questo caso, non è uno strangolamento o un colpo di pistola, ma una spintarella che, se non fosse per le ripercussioni, avrebbe tutta l’aria di un gesto infantile. La vittima, che non ha alcuna colpa, potrebbe anche essere morta, eppure lo spettatore sorride sbigottito, fissando una sigla che non c’entra nulla (un footage di filmini d’infanzia), lieto di aver trovato un nuovo e imprevedibile antieroe. La fascinazione per il male gratuito è inesauribile, e Patriot ruota intorno a questo tema, con derive masochistiche, oltre a mettere in discussione gli stilemi del genere crime. Come se non bastasse, diversamente dagli antieroi negativi che l’hanno preceduto, il suo protagonista non è accattivante né carismatico, né ha alcun potere sulla propria mostruosità: a conti fatti, se non sai chi è, potresti scambiarlo per un qualsiasi “uomo triste in completo”. Si tratta, però, di una soltanto delle tante peculiarità di una serie che, in Italia, è purtroppo passata quasi inosservata; cercheremo di intuirne i motivi nella seconda parte di questo articolo.

 

foto di nicola fioravanti

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