fuori serie, studio & analisi critica
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Da Superman a “Legion” passando per Shyamalan. Il superpotere della malattia mentale.

di Chiara M. Coscia

Tra le varie complessità sempre più spesso incorporate dai personaggi di nuova creazione, la malattia mentale gioca un ruolo iperattivo. Ne troviamo rappresentazioni plurime: quasi tutti gli antieroi di cui si è parlato in queste pagine durante l’ultimo mese sono afflitti, chi più chi meno, da una certa forma di disturbo psicologico. In questo senso, i supereroi contemporanei non fanno eccezione.
Esiste una cronologia di base della narrativa dei supereroi che parte da Superman e arriva ai giorni nostri. Creato nel 1933 dalla penna di Jerry Siegel e dalle tavole di John Shuster, il supereroe più famoso di tutti i tempi nasce in realtà come cattivo, un personaggio malvagio di nome Bill Dunn che ottiene i suoi poteri grazie a una droga sperimentale, e li usa esclusivamente a proprio vantaggio. Con il primo albo nel 1938, in piena avanzata del Nazismo in Europa e a fine New Deal negli Usa, Superman “si trasforma” nel primo supereroe dei fumetti, stabilendo sin da subito lo standard e alcune regole base del genere: la missione, l’identità segreta, i poteri soprannaturali. Durante la Seconda guerra mondiale, mentre il male assoluto incombeva sulla storia, i supereroi super buoni, super perfetti, invulnerabili e superiori alla legge affollavano le storie. Proiettati a sconfiggere il male, personaggi come Superman, Aquaman, Wonder Woman, Captain America sono i protagonisti della così detta Golden Age della narrativa supereroica. Erano eroi che venivano da lontano, da un passato glorioso e distante, posizionato nell’assoluta distanza epica che tutto circonda di luce positiva, e le cui vicende si muovevano sul piano dell’intrattenimento e dell’escapismo. L’antesignano di questo tipo di supereroe americano è identificato nell’eroe della frontiera, l’eroe solitario e schivo, dal passato misterioso, privo di legami affettivi, giustiziere, redentore, portatore di stabilità nel caos della wilderness, dotato di forza e potere, che nel caso dell’eroe della frontiera è il potere della conoscenza del territorio, dello spazio da camminare, delle armi, del nemico. Il mito dell’eroe della frontiera è fondativo della cultura statunitense, e la nascita nonché la vivacità con cui le narrazioni supereroiche hanno prosperato e continuano a farlo dipende molto dalla ricerca di quel mito d’origine, di quella valvola di sfogo della frustrazione quotidiana (a questo proposito c’è l’ottimo The Myth of the American Superhero, di John Shelton Lawrence and Robert Jewett).

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foto di esteban lopez

Il fumetto americano segna la riscrittura dell’epica, incarnando quel desiderio di mito direzionante, che consente di assegnare dei valori sovrastanti e di orientarsi in senso storico e ideologico. Il mito è sempre servito a questo, a guidarci attraverso le narrazioni lontane nella lettura della contemporaneità, che è sempre la fine, sempre cupa (Michail Bachtin, “Epos e Romanzo”, in Estetica e Romanzo). Tuttavia, come l’eroe epico, semidio, superuomo, legato a una missione, a una terra, ha lasciato nel tempo il posto all’eroe romantico, umano, identificabile, individuale e individuato, così il supereroe della Golden Age si è spostato verso orizzonti sempre più tormentati, pieni di complessità, diversità, dubbi, e sfiducia. Col passare degli anni e delle scosse storico-sociali del novecento, e grazie anche alla modifica del Comics Code (1971), che consentì la trattazione di tematiche come l’uso di stupefacenti e ridusse la “censura” a monte delle trame dei fumetti, i supereroi si sono spostati sempre di più nel mondo reale e hanno acquisito una forma sempre più complessa, sfaccettata, umana.
Stan Lee affermò che l’obiettivo dei suoi fumetti era di rendere i personaggi il più credibile possibile, portatori di questioni etiche, di dubbi e discussioni del concetto di responsabilità e giustizia sociale, carichi di emozioni a volte sopraffacenti, con problemi di identità, autocoscienza, esistenza. Ed ecco che Iron Man combatte con l’alcolismo, Wolverine ha problemi mentali, e il vissuto tragico rappresenta una componente della loro forza. A rimanere tratti distintivi sono: l’identità, la missione e il potere, nonché (quasi sempre) la mancanza del padre. Che sia una scomparsa, una morte, un mistero, i supereroi sembrano non lasciare spazio alla paternità. Al suo controllo disciplinante e ordinativo oppongono la propria eccezionalità fuori norma.
Da portatori di exceptionalism i personaggi diventano quindi portatori di difference. E con il cambiamento dell’accezione del prefisso “super” entra in gioco, anche, la malattia mentale, trasformando man mano il tropo dell’eroe senza macchia in quello dell’eroe ferito, tormentato all’estremo.
Spostando la lente dal fumetto allo schermo (piccolo o grande che sia) il discorso non cambia. I supereroi contemporanei sono sempre più afflitti, controversi, portatori di un disagio spesso intrinsecamente connesso con le decisioni che si trovano a prendere e con la responsabilità del potere. Dal gruppo eterogeneo di giovani sbandati di Misfits, alla famiglia disfunzionale degli Umbrella Academy, passando per il disturbo da stress post-traumatico, l’alcolismo e la rabbia incontrollata di Jessica Jones, abbiamo molti esempi di supereroi che si muovono ai margini della categoria di eroe, che talvolta indugiano (se non si trasferiscono definitivamente) nello spazio del villain, e che sono portatori di disturbi e manie come tutto il resto del genere umano, tanto che talvolta, in certi casi, le narrazioni supereroiche finiscono per situarsi a metà tra la finzione che raccontano e quello che potrebbe essere un racconto-saggio di psichiatria.

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foto di lena rose

A questo proposito, c’è una serie TV in particolare che affronta la narrazione dei problemi mentali in modo vivo e perspicace: Legion.
Legion è una serie di FX, ideata e prodotta da Noah Hawley, che mette su schermo l’omonimo personaggio della Marvel, David Haller, il figlio non riconosciuto del Professor X, un mutante potentissimo che soffre di Did, disturbo dissociativo dell’identità, e le cui diverse personalità sono dotate di poteri. Non è una visione di puro intrattenimento. Legion è complessa, contorta, si ingarbuglia su se stessa per non sbrogliarsi mai del tutto. La storia si svolge senza una narrazione lineare, è quel tipo di complessità televisiva che coinvolge lo spettatore nel disinnescare tutti i meccanismi interni, e nello stesso tempo incombe l’incubo che quello che stiamo vedendo sia solo nella testa di David, che non stia in realtà succedendo nulla, che il supereroe è solo un malato di mente di cui stiamo vivendo i deliri.
Ci sono dei toni di surrealismo, cupezza, disagio, perfino horror. La sofferenza mentale è rappresentata con tale perfezione da rendere Legion superiore, in questo senso, ad altre rappresentazioni più connotate. La bellezza della serie, che si muove con tempi talvolta frenetici e concitati, ma per lo più dilatati, affondanti, risiede nel modo in cui la narrazione si dipana senza essere mai banale, mai prevedibile. Le scene dell’infanzia e del passato rimosso di David sono un mistero per lui come lo sono per noi. David non capisce e non controlla il suo potere, vive nella menzogna e non è un narratore affidabile, e per tutta la prima stagione facciamo fatica a posizionarci in maniera univoca come interpreti della storia. Procediamo a piccoli passi, sommiamo le informazioni in un percorso che somiglia tanto a una piccola analisi. Questo percorso viene messo in scena attraverso movimenti di camera, inquadrature, colori, musiche, tutti con altissimo valore diegetico. Tutto è spaesante e sconcertante, come se fossimo noi stessi a vivere un disturbo dissociativo.
A narrare una storia simile, stavolta cinematografica, c’è la trilogia di M. Night Shyamalan, composta dai film Unbreakable, Split e Glass. In Unbreakable, David Dunn, unico sopravvissuto a un disastro ferroviario, si muove alla scoperta dei propri superpoteri, con fatica e sfiducia e continui momenti di sconforto, fino a un’accettazione finale del proprio potere che va di pari passo con la tremenda scoperta di essere vittima di una tragedia orchestrata. In Split, Kevin Weller Crumbs, un uomo afflitto da Did, si ritrova a perdere l’orizzonte di tranquillità conquistato con anni di duro lavoro terapeutico sulle sue ventitré personalità, diventando succube di un’orda (da cui il nome The Horde) di alcune represse identità malevole, tra le quali la Bestia, che rapisce e uccide delle giovani donne da lui definite “impure”. Impuro, scopriremo, è chi non ha mai sofferto. Solo dal dolore viene la “purificazione”. In Glass vediamo il supereroe Dunn e il supervillain The Horde scontrarsi e finire nello stesso istituto criminale in cui si trova Elijah Price, Mr Glass, artefice del disastro ferroviario e sorta di “creatore” di entrambi i personaggi. In quest’istituto, la dottoressa Staple prova a convincerli del loro essere afflitti da una malattia mentale, dando spiegazioni scientifiche a tutte le manifestazioni dei loro supposti poteri e facendo in modo di contenere e sedare ogni istinto all’eccezionalità.

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foto di judeus samson

Pur sembrando partire dagli stessi presupposti e dalla stessa storia (tanto che The Horde sembra una versione umana e non mutante di Legion), queste narrazioni hanno in sé una differenza di assunto di base alquanto rilevante. Mentre Legion parla di un supereroe convinto di essere malato, ma la cui malattia si rivela essere il suo potere, Shyamalan mette in scena dei personaggi già di per sé disturbati, il cui potere assume le dimensioni e le connotazioni di una malattia.
Nel primo capitolo di Legion, uno dei personaggi principali, Syd, afferma che la malattia mentale non è qualcosa di necessariamente problematico. È solo parte di ciò che sei. “Quella cosa che ci dicono essere la nostra follia è quello che ci rende ciò che siamo” (S01E01). In Split, la dottoressa Fletcher afferma che le persone fragili e ferite siano addirittura “more of us”, superiori, e che da queste persone forse deriva storicamente il nostro senso del soprannaturale. Entrambe queste affermazioni trovano una loro base teorica negli scritti di Michel Foucault sui confini della malattia mentale tracciati a livello culturale. Per Foucault, la malattia non è solo un “vuoto funzionale”, ma anche un “pieno” costituito da attività che sostituiscono tale vuoto. La malattia cancella, è vero, ma accentua anche. E così facendo abolisce una determinata forma di condotta stabilita dalla società, ne rappresenta la perturbazione, portando alla luce un passato arcaico, una regressione infantile, talvolta animale, ed essendo l’apoteosi della mancanza di autocontrollo.
In entrambe le narrazioni prese in analisi si fa spazio un altro concetto: quella della società che cospira contro le forze degli individui eccezionali, di quelli che non possono essere irregimentati e controllati, e quindi vanno uccisi. Quest’atteggiamento viene evocato anche da Foucault nelle modalità in cui la cultura occidentale affronta il problema dell’alterità.
Per Michel Foucault la follia è un interrogativo centrale della cultura occidentale, una variabile incontrollabile capace di mettere in crisi i sistemi di contenimento. Prima della rivoluzione borghese, scrive Foucault in Malattia mentale e psicologia, la cultura occidentale era stranamente accogliente nei confronti della follia, assorbita come oscillante tra magia e religione. A metà del 1600 nascono le prime grandi strutture di internamento europee, atte a (r)accogliere non solo i “folli”, ma anche i malati terminali senza grossi mezzi, quelli affetti da mostruose e mostrificanti malattie veneree, gli anziani poveri, i clerici disobbedienti alle regole dell’ordine. Insomma, dei veri e propri contenitori di tutti quelli che, “in rapporto all’ordine della ragione, della morale e della società danno segni di disordine” (ivi, p. 79) . Non sono luoghi di cura, sono luoghi di chiusura, di repressione preventiva e controllo dell’alterità, rappresentata da individui la cui categoria unificante è l’incapacità di partecipare alla “produzione”. Una sorta di progetto di ristrutturazione dello spazio sociale.
Ma non è solo questo ad accomunare le due storie.
Un altro aspetto interessante che viene messo in luce, con i viaggi nella memoria in Legion e nei piani strategici di Mr Glass in Shyamalan, è la questione della narrazioni, di come ci costruiamo attraverso le storie che ci raccontiamo. Il potere si manifesta solo nel momento in cui i supereroi credono in loro stessi, sbrigliandosi dalle catene del conformismo e della sottomissione. Uscendo dalla paura e abbracciando la propria storia.
Scriviamo e i riscriviamo i ricordi, la rappresentazione di noi stessi, in una continua tensione di racconti che oscillano tra empatia e paura, come dice il personaggio di Oliver Bird in Legion. Sono queste, dice, le storie che ci insegnano come stare al mondo.

2 Comments

  1. Bellissimo articolo!
    Facendo un parallelo con la Golden Age, verrebbe da pensare che questi tempi cupi e tormentati (quelli che stiamo vivendo) appaiono una congiuntura perfetta per dare origine a una nuova esplosione di supereroi, no?

    "Mi piace"

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