discussione, fuoricollana
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Il remix della bellezza al Gucci Fest

di Claudia Vanti

In questo strano periodo pandemico è difficile trovare argomenti che scuotano anche solo superficialmente il mondo di chi pensa e produce vestiti o di chi ne scrive, ne parla e li guarda per curiosità.
La sensazione più diffusa, anche fra i molti addetti che pure continuano a lavorare con difficoltà aumentate da necessità di distanziamenti e tempistiche incerte, è che parlare di moda con un’emergenza sanitaria in corso sia “fuori luogo”, come se si dovesse scontare un atavico stigma per colpevole frivolezza.
Le cose sono in realtà un po’ più complicate, e non solo per la ricaduta economica negativa, ma anche perché proprio in questi mesi nei quali le varie forme di racconto, dalla (ri)lettura di classici nella fase più acuta del lockdown alla fruizione quotidiana e diffusa dei servizi di streaming in abbonamento, anche la moda può inserirsi come generatrice di contenuti narrativi.
Lo storytelling rivolto al marketing di un prodotto o di un brand è una pratica comune, ma l’atto del raccontare sta alla base dell’ispirazione dei grandi sarti già un secolo fa, attraverso suggestioni artistiche, esotiche, e esperienze personali. Il tutto finalizzato a creare un mondo di riferimenti e rimandi estetici che catturasse l’attenzione delle clienti.
Decennio dopo decennio, i racconti sotto forma di capi da indossare si sono moltiplicati e differenziati, trovando un ulteriore sbocco narrativo alla fine del secolo scorso, con l’affermarsi di quella forma espressiva specifica che è “la sfilata spettacolo”, rappresentazione ibrida a metà fra l’esigenza creativa e quella commerciale, oltre che formidabile strumento di comunicazione.
A partire da una grammatica estremamente semplice (una camminata in uno spazio più o meno circoscritto) negli anni si è evoluto l’insieme dei fattori di contorno – concept, scenografie, musica – arrivando di fatto a mettere in scena qualcosa di molto simile alla performance teatrale.
Oggi lo stop a molti eventi in presenza ha ridotto le occasioni di incontro e questo ci sta facendo provare nostalgia anche per l’ulteriore forma di narrazione che si crea attorno a questi show, compresi gli inevitabili ritardi, le location scomode, irraggiungibili, e la folla – essa stessa un racconto – in sala, backstage o in attesa sul marciapiede.

Evidentemente il fascino dello show, dell’uscita in passerella delle modelle, il sentimento di aspettativa e di attesa fremente che si crea, enfatizzato dalla scenografia, dalla musica, e dal rituale un po’ isterico messo in atto dalla popolazione degli addetti ai lavori, espressione di un mondo sostanzialmente autoreferenziale che trasforma la drammaturgia in liturgia e che, anche attraverso le ovvie punte di colore, alimenta il mito, ebbene, tutti questi fattori, insieme alla “materia prima”, gli abiti, i colori, le stampe, creano una vera e propria forma di spettacolo e un veicolo di comunicazione che resiste malgrado la reiterazione di un copione fin troppo rodato.
Ma i tempi e la necessità di scrollarsi di dosso un format che ci accompagna da tempo impongono dei mutamenti, e Gucci, attraverso il suo direttore artistico, Alessandro Michele, si intesta questo vero o presunto cambiamento con una miniserie diretta da Gus Van Sant e interpretata principalmente da Silvia Calderoni – attrice e performer attiva principalmente nella scena teatrale contemporanea e di ricerca – miniserie intitolata Ouverture of something that never ended e diffusa in streaming dal 16 al 22 novembre scorsi sotto la denominazione di GucciFest.

Nello svolgersi degli episodi della serie di Gucci vediamo Silvia (una Silvia che è tanto Silvia Calderoni stessa che un personaggio fictional che si muove all’interno di luoghi e situazioni di fantasia) a casa, mentre sceglie vestiti e ascolta lo scrittore e filosofo Paul B. Preciado (una voce di riferimento per gli studi di genere, identità e teoria queer). Preciado parla di un tempo nel quale “i mostri stanno prendendo la parola” ma la rivoluzione sarà fatta da “dissidenti del regime del sesso” e incontra artisti e musicisti come Billie Eilish. Nel frattempo, Harry Styles chiacchiera al telefono con un Achille Bonito Oliva che, all’ufficio postale, pensa che “viviamo in un’epoca un po’ nervosa, fatta di conflitti, di confronti, ma anche di coesistenza di differenze […] E questo nell’ambito della cultura lo si può vedere nei vari campi… Seppure restano le differenze, l’arte, la musica, il teatro, il cinema sono campi che conosci in cui l’atto creativo diventa centrale”.
In seguito Silvia visita un vintage shop con Florence Welch e cammina di notte o va in scooter per le vie di Roma per ritrovarsi poi, nell’ultimo episodio della serie, in teatro, chiudendo il cerchio in un luogo tanto significativo per lei e nel quale nascono molte delle suggestioni estetiche di Alessandro Michele.

Questa modalità di presentazione della collezione P/E 2021 ha catalizzato l’attenzione e animato i discorsi di un settore in cerca di nuove identità: solo un modo per Michele di esprimere il suo istinto pantagruelico nel raccogliere e rivisitare input, citando e mescolando riferimenti discordanti, un remix prevedibile di elementi già visti, rinfrescati dalla firma di Van Sant e dalla presenza di un’attrice di talento come Silvia Calderoni? Oppure una forma di comunicazione che apre a esperimenti e ulteriori ibridi?
Le opinioni captate fra chi lavora a stretto con gli abiti non hanno concesso molto all’operazione di Michele, fra le righe e fra i commenti si è avvertito un entusiasmo eufemisticamente contenuto, se non un palese scetticismo sulle intenzioni (“puro marketing a mascherare il vuoto”).
Cinismo smaliziato di un ambiente concentrato su se stesso (come spesso accade nei milieu creativi) che però – spezzando una lancia – è continuamente bombardato da una miriade di suggestioni creative e culturali, immagini e immaginari in tutte le forme e che semplicemente non può o non vuole più stupirsi.

Qualcosa di diverso succede invece quando un argomento legato alla moda esce dal proprio microcosmo e diventa parte di una conversazione, crea domande o si traduce in una citazione che rivela qualcosa di chi ne parla: preferenze estetiche, certo, ma anche un sistema valoriale che si fonda su un immaginario prettamente visivo.
Perché a parte la fruizione diretta e materiale del prodotto moda, c’è evidentemente qualcosa di più, ed è una fruizione di tipo culturale, il contributo alla costruzione di un patrimonio condiviso di immagini ed elementi che si traducono in identità culturale, generazionale, sociale e politica.

Ed è qua che si inserisce una diversa chiave di lettura della miniserie diretta da Van Sant, come è accaduto per altre analoghe incursioni di Alessandro Michele e di Gucci in ambiti di confronto/scontro contemporaneo, sui canoni di bellezza, sulla legittimazione dell’eterodossia in tutti i campi, estetici e culturali, con la ormai consolidata contaminazione fra “alto” e “basso” costantemente rimodulata a innescare nuovi spunti di discussione e interminabili flame fra fans e haters sui social network.
Come dimenticare nei mesi scorsi le “polemiche” (in realtà soltanto banale e vieto body shaming) sulla modella Armine Harutyunyan? Dopo anni passati criticare modelle troppo magre, troppo belle, troppo lontane dalle donne comuni, sono arrivati modelli estetici (e modelle, appunto) diversi, e paradossalmente (o no, visto il livellamento al basso del discorso sociale e culturale contemporaneo) le critiche sono aumentate in maniera esponenziale rivelando un generale appiattimento e un’adesione convinta a canoni di bellezza che definire mainstream è generoso.
Se gli addetti ai lavori sanno che stilisti e fotografi sono spesso affascinati da corpi e soprattutto visi straordinari (nel senso letterale del termine) e ricordano il successo di alcune icone come Rossy De Palma come testimonial per Jean Paul Gaultier, le sopracciglia marcate e il naso lungo di Armine hanno per contro scatenato gli haters e contemporaneamente sollevato una questione importante.

La scelta di Silvia Calderoni, quindi (al di là della condivisione di passioni artistiche e teatrali con Michele) non è neutra, l’attrice che ha portato in scena MDLSX con la compagnia indipendente Motus (e la sua protagonista con un’identità fluida come nel romanzo Middlesex di Eugenides a cui la pièce è ispirata) anche nella serie per Gucci ridefinisce l’idea di corpo, la sua estetica, un’identità che si rivela o si trasforma (“siamo tutti in transizione, stiamo tutti scoprendo cos’è questa umanità, siamo tutti dissidenti senza bombe perché pensiamo in modo autonomo”, dice Michele), partendo dall’esteriorità per arrivare a (ri)costruire o (ri)velare l’interiorità: Silvia indossa abiti, si cambia, si diversifica e rappresenta l’inafferrabilità dell’identità,

Il genere è un argomento che apre alla transizione, alla mutazione e alla permeabilità dell’abito/habitus, che forse da solo non può fare il monaco, ma già nel significato dal latino “è dunque un ‘modo (di essere) che si ha, una disposizione ad agire in un determinato modo” (dall’ Enciclopedia Treccani).
Cosa ci racconta dunque questa manciata di “episodi” pensati per comunicare tanto una prossima collezione di abiti che una visione estetica?
Ci parla di interdipendenza fra le arti, assenza di barriere fra i vari ambiti creativi (e fin qui siamo in un terreno già esplorato, e ricordato da Achille Bonito Oliva), mentre la “legittimazione” del vintage – unico approccio all’abbigliamento realmente sostenibile – da parte di un luxury brand che produce e continuerà a produrre tonnellate di nuova merce è contraddittoria (e tutto nella moda lo è, non è compito suo dirimere questioni epocali) ma funzionale, diretta e non riconducibile a una fumosa coscienza ambientale che può essere tutto e il suo contrario.

Assistendo però a una conversazione fra Silvia Calderoni, la professoressa Laura Gemini e alcuni studenti dell’università di Urbino ho capito che l’aspetto che ha catturato maggiormente l’attenzione di questo piccolo campione di generazione Z è proprio quello del superamento dei modelli estetici tradizionali e della proposta di una bellezza gender fluid.
Tutte questioni che la moda macina – e metabolizza – da un po’, forse depotenziandole, con il rischio di rendere tutto omogeneo in una generica estetica del mix and match dove valga tutto e niente importi.
Il punto di vista degli addetti ai lavori – smaliziati, annoiati, assuefatti a un continuo reinventarsi di stili – è tuttavia molto distante dalla percezione dei non addetti, e ancora di più da quella di giovanissimi spesso abbastanza refrattari alle suggestioni del glamour e della moda, perciò l’attenzione al medium/messaggio del Gucci Fest non era scontato.

Il superamento degli stereotipi estetici e dei modelli è una questione molto sfaccettata, ma necessaria e urgente soprattutto per le generazioni più giovani, che con meno prevenzioni sono capaci di cogliere al volo quanto di utile allo scavalcamento di vecchi modelli, in un video di Gucci o altrove, tralasciando magari quanto fa storcere il naso ai fashion addict (“questo l’ho già visto tre stagioni fa”) o la considerazione che anche di marketing si tratta: vince la consapevolezza che è impossibile mantenere un atteggiamento “puro”, che la moda vive se i vestiti si vendono, che una proposta estetica non può rappresentare in assoluto la molteplicità di tutti i tipi fisici, che una fotografia scattata a una persona ne “esclude” almeno momentaneamente un’altra (troppo facile ricondurre Silvia Calderoni alla definizione di caucasica filiforme molto cara al fashion system. E, be’, è anche bionda).
La comunicazione di un’idea o di un’immagine non è mai scevra di conseguenze, soprattutto se si riesce a uscire dal proprio recinto di consuetudini e convinzioni.

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