di Elisabetta Giromini
A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ’21/’22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il sesto, lo ha scritto Elisabetta Giromini e ha richiesto un intervento di editing da parte delle allieve editor Serena Grassia e Tiziana Nonni e della redazione volto ad assicurare la coerenza interna al racconto in termini di riferimenti (appartenenti tutti a un solo “universo”) e, soprattutto, un punto di arrivo che imprimesse una direzione al racconto e un senso alle informazioni disseminate lungo la storia.
La storia: un uomo passeggia a Milano in un pomeriggio d’estate. Sta andando a un appuntamento. I suoi passi sono ogni giorno uguali, stringe una busta vuota di plastica azzurra nella mano, si orienta nel percorso di suoni di quella città che non è la sua ma nella quale vive da sempre.
Milano si svegliò dalla forzata controra con un odore di gas di scarico, la calura estiva impediva di uscire prima delle cinque. Il cigolio di un portone metallico sovrastò per un momento i rumori del traffico. L’illusione di frescura del cortile in ombra si infranse quando l’afa gli batté contro. L’uomo uscì in strada, accompagnò la porta che si richiuse gentile. Un odore dolciastro di mango prossimo al marcio si sollevava dall’emporietto esotico lungo il marciapiede. Alle strisce pedonali uno stridere di freni, una macchina inchiodò. Lui attraversò composto, la busta di spessa plastica azzurra che teneva stretta in una mano oscillava al ritmo del suo passo, strusciando i pantaloni. Clacson lo incitarono a sbrigarsi, ma non accolse l’invito e mantenne la sua andatura pacata, diritta. Appena fu sul marciapiede opposto, i motori ripartirono e il traffico ricominciò il suo flusso.
La strada era sempre la stessa e lui l’aveva percorsa migliaia di volte. Camminava tra le vetrine dei negozi e le macchine parcheggiate, rasente al muro. Nel pomeriggio c’era stato un temporale estivo, l’acqua si era gettata severa dal cielo sulla città. Grosse gocce insistenti avevano martellato le strade e i palazzi, la gente e le macchine se ne erano rimaste zitte, rintanate, come in pausa. Finita la pioggia però, il formicolare frenetico della città aveva ripreso intonso.
Nonostante ora il vento soffiasse a folate lunghe e si udissero fischi di rondini in lontananza, niente placava quel moto incessante. Alcuni uomini fuori da un bar parlottavano tra loro, uno tossiva, a intermittenza. Una tosse di luglio, di quelle secche di uomini consumati dalle intemperie. Per qualche istante l’odore di fumo di sigaretta, amaro e polvere, gli entrò dalle narici. All’incrocio il semaforo emise un lungo suono a intervalli, a significare luce rossa. Le auto e le moto, gli autobus, continuavano a correre sullo stradone urbano finché il suono divenne più veloce e squillante, e l’uomo attraversò.
Prestava l’orecchio a un motivetto western, qualcuno subito dietro di lui fischiettava con passo andante una melodia che lo riportava ai cow boy dell’infanzia e a quei film visti e rivisti finché la testa non cadeva sul tavolo della cucina. “Vieni a dormire”, sentiva chiamare dall’altra stanza. Il motivetto andò a scemare, entrò nel parco del santuario toccando il fresco dell’inferriata all’ingresso. Dietro alle prime file di siepi, voci allegre di bambini e qualche pianto, rallentò il passo. Le madri a consolare salmodianti i singhiozzi, o a incitare vivaci le impese dei piccoli. Il vento turbinò tra le fronde degli alberi e i cinguettii degli uccelli si fecero più ostinati. Passò davanti a due donne anziane che chiacchieravano sedute a una panchina, riuscì a sentirne appena il borbottio per il tanto soffiare di vento e tutto quel petulante pigolare. Avrebbe voluto stare ad ascoltarle, fermarsi addirittura per carpire il discorso, il dialetto. Forse venivano dallo stesso paese di sua moglie, giù in Calabria. Continuò per il vialetto alberato. Lo scroscio era crescente e si fermò un istante, poi andò verso la fontanella, quella con la testa a draghetto, strofinò con le dita la testolina che sormontava una bocca spalancata a V da cui usciva l’acqua, “le vedovelle di Milano, se ne stanno da sole”. Il fiotto scendeva deciso e consistente fino alla piccola pozza a terra che era una ressa di rimbalzi e zampilli. L’uomo si chinò a bere, bagnandosi il mento. L’incontro del getto con la risacca produceva minuti tonfi, gorgheggi. Acqua che sbrodola acqua. Un cagnetto abbaiò acuto, due volte.
Si sedette a un banco a circa metà della navata. La chiesa del santuario era ampia, all’ora dei vespri una donna intonava la preghiera. «Cuore di Gesù». E la platea rispondeva scoordinata ma composta. «Cuore di Gesù». Sua moglie si vergognava della sua voce, si concedeva di cantare soltanto in chiesa e la sentiva ancora nell’orecchio sommarsi alle altre. Rispondeva alla preghiera, sapeva tutte le parole, non c’era tanto da farsi domande. Il riverbero continuo delle voci lo faceva sentire meno rigido nei confini della sua stessa pelle, di quella città che non era casa sua, ma in cui viveva da sempre. In certi momenti alcune si distinguevano più gravi o più acute, ed era un ulteriore richiamo alla comunione, un piccolo risveglio per poi riperdersi nell’intonazione monocorde. Sentì un uomo seduto davanti accelerare le parole, neanche questo poteva impedire alle preghiere di continuare nella loro cantilena sonnolenta. Era una quiete morbida in cui riposare, affidarsi a “Dio che è Padre e artefice di tutte le cose”. Era avvolto in una crema di suono, dolce come il conforto di mani familiari che abbracciano, nutrono, al fresco di quelle mura vecchie otto secoli.
I suoi piedi pigiavano morbidi sull’asfalto e cercava di seguirne l’andatura col respiro, o era l’andatura a seguire il respiro, tranquillo dopo la messa. Il rombo di una moto lo distrasse. Alla fermata del tram le persone stavano sparse ad aspettare, qualcuno urtò la busta vuota che ancora teneva in mano, la sentì schiacciarsi contro la coscia, accartocciarsi, un bimbo passò dicendo qualcosa in una lingua asiatica.
Quando era arrivato a Milano cinquant’anni prima si sentivano dialetti diversi, adesso tante lingue diverse, tanti odori nuovi e speziati.
A quell’incrocio s’intersecavano più binari, come tutta quella gente che arrivava da ogni parte del mondo, i motori di macchine e moto si alternavano, e il loro passaggio sulle vie di ferro dei tram creava un’onda sonora, come uno scavalcamento, un tu-tum attutito ogni volta che le ruote calpestavano la striscia metallica. Il vecchio tram si avvicinò e fu un frinire di grilli, si nascondevano negli angoli di quella vecchia macchina degli inizi del Novecento. Un gridolino acuto era il segnale di apertura seguito dal gracchiare delle porte. Di nuovo grilli e striduli fischietti. Non prese il tram, aspettò che ripartisse.
Una macchina stava ferma vicino alla fermata col finestrino abbassato, suoni di radio, musica hip hop a tutto volume, i bassi colpivano i timpani e vibravano nella cassa toracica.
Era vivo, il suo corpo rispondeva ai suoni, agli spostamenti d’aria, ai movimenti dei corpi vicini. Alcuni colpi di clacson come in un botta e risposta lo risvegliarono dal torpore, riprese il cammino. Aveva appuntamento alle diciotto e trenta, come ogni martedì. Sfiorò l’orologio da polso, mancavano ancora dieci minuti, il tempo di un caffè al bar accanto all’ingresso. Si avvicinò al bancone liscio e fresco al tatto, la tv era sintonizzata su un programma preserale.
«Caffè macchiato?».
«Sì grazie».
«Prego», la erre che si nascondeva in una elle sorda, erano cinesi quasi tutti i bar là attorno.
Al tavolo poco distante uomini giocavano a carte. “Perdigiorno”, gli risuonava in testa la parola preferita di sua moglie quando sbirciava dalla vetrina d’ingresso al rientro da messa. Erano in quattro, ognuno con un bicchiere diverso, dialetti diversi. In quella città ormai tutti erano milanesi, anche i calabresi e i pugliesi e i siciliani, anche i cinesi.
Suonò al citofono della dottoressa Mari, si conoscevano da almeno vent’anni. Spesso non si parlavano neanche, era la segretaria a mettergli in mano le ricette che gli servivano.
«Buonasera!». La sua voce arrivava da dietro.
«Buonasera», si girò obliquo.
Si sentì stringere la mano e ricambiò incerto.
«La segretaria non c’è oggi, vuole accomodarsi?».
«Grazie».
«Si sieda prego, mi dica Mario, come sta?».
Il suo volto era proteso verso il basso, sembrava cercare il pavimento mentre parlava.
«Fa molto caldo, si cura di bere acqua?»
«L’acqua, dottoressa, a me non mi va proprio giù»
«Deve idratarsi Mario, è importante con queste temperature. Mangia per bene?»
«Ma che vuole che le dica, da quando mia moglie non c’è più».
«Mario, deve reagire…».
«Sua figlia è venuta a trovarla questa settimana?».
«No, sta impegnata. Sa, fa la professoressa con gli immigrati».
«Lo so, lo so».
«Posso avere le mie ricette?».
«Sì certo. Mario, c’è un circolo frequentato dagli anziani del quartiere…».
«No, dottoressa. Io non ce n’ho bisogno di stare con quei perdigiorno».
«E allora vada a trovare sua figlia».
«Sta tanto impegnata».
«Provi a chiamarla».
«Era mia moglie che la chiamava, che la cercava. Io non sono capace di fare queste cose. Sono pronte queste ricette?».
«Eccole. Abbia cura di sé, Mario».
Pinzò con le dita i sottili fogli di carta e li infilò nella busta di plastica azzurra. Si alzò e le gambe erano appesantite. La dottoressa lo accompagnò all’uscita, gli aprì la porta. Scese la rampa di scale che separava lo studio dall’androne tenendosi al corrimano.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
E ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Era di nuovo in strada. Già non prestava più attenzione ai rumori fuori. Ascoltava il suo respiro per distrarsi da quello che gli premeva dall’interno dell’orecchio, da tutto il corpo. Un circuito scandito dalla pompa del cuore. Un flusso che correva lungo tubature di tessuti, tonache, che circondavano una cavità, un lume, così si chiamava, gliel’aveva spiegato sua moglie che per tutta la vita aveva fatto l’infermiera. Luce e sangue giravano dentro al corpo e passavano ogni volta dal via. Tu-tum. Era acqua e fluiva a cercare percorsi sconosciuti e sempre nuovi. La sua strada verso il mare. Le sue mani si avvicinarono al portone di ferro, una trovò la serratura, l’altra infilò la chiave. Cigolare di giunture. Dal cortile si avviò verso il suo palazzo. Salì le scale, i piedi erano tonfi sul piatto dei gradini. Clac, sganciò il primo pezzo, clac il secondo, poi girò l’elastico attorno al bastone. Tastò le chiavi per trovare quella giusta. Sparì veloce in casa.
Elisabetta Giromini è freelance in progetti internazionali di ricerca, un mestiere che si adatta al suo spirito nomade. Ha viaggiato in oltre sessanta Paesi, in alcuni si è fermata a vivere per un po’, ma da tre anni è quasi stabile a Milano. Nel 2020 ha creato il blog in-giro.com e nel 2021 ha frequentato la Bottega di Narrazione di Giulio Mozzi portando a termine la scrittura del suo primo romanzo, Centomila tulipani.