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Ciò che vogliamo ascoltare

A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è l’undicesimo, lo ha scritto Stefano Galardini, e con l’editing l’allieva editor Sara Passannanti e la redazione hanno suggerito all’autore interventi per mettere a fuoco l’oggetto narrativo del racconto, ridurre il numero dei personaggi e riscrivere alcuni dialoghi che non sembravano coerenti con il tono.


Durante una visita di routine, i medici scoprono nel respiro di Linda un suono che non sanno spiegare. Linda non riesce a comunicare alla figlia Angela che c’è qualcosa che non va. La donna ha insegnato ad Angela sin da bambina a distrarsi dai problemi della vita ascoltando inesistenti rumori di sottofondo. Due generazioni a confronto, legate dallo stesso comportamento illusorio: tentare di ascoltare il suono dell’erba che cresce, ferme, in attesa, mentre il tempo intorno a loro, come la vita, non si ferma.


Ciò che vogliamo ascoltare

di Stefano Galardini

Angela aveva sette anni la prima volta che Linda, sua madre, l’aveva portata in giardino ad ascoltare l’erba che cresce.

L’aveva messa a sedere sulla sua seggiolina di plastica rosa, quella del set da tè delle principesse, apposta per farla stare comoda e buona in mezzo ai trifogli e alle margherite, perché doveva concentrarsi, perché non era facile riuscire a cogliere – in mezzo al verde dei cespugli e della siepe – il suono dell’erba che cresce.

Angela era una bambina ubbidiente. Nemmeno per un attimo aveva messo in dubbio quello che le aveva detto di fare la mamma, anche se il giardino dava sulla strada, erano le cinque di pomeriggio e, con il rumore delle auto dell’ora di punta, ascoltare l’erba che cresce non era per niente facile.

Angela ci si era messa d’impegno. Oltre al brusio dei motori, un merlo dispettoso ciarlava dal giardino della vicina, alle sue spalle sbuffava la ventola dell’aria condizionata. Qualche piano più sopra qualcuno aveva tirato lo sciacquone del bagno e il tubo dello scarico aveva gorgogliato come un tacchino lungo tutta la facciata del caseggiato. In lontananza una sirena si era messa a ululare, Angela aveva provato a distinguere se si trattasse di un’ambulanza o di un camion dei pompieri, le piacevano i camion dei pompieri, così rossi, grossi e veloci. Comunque, non stava pensando nemmeno più al suono dell’erba che cresce, se n’era dimenticata, distratta pure dal fruscio che il suo vestitino leggero faceva ogni volta che spostava il mento da un palmo all’altro.

La luce del sole si era fatta più gialla e più trasparente: Angela aveva cominciato a sentire freddo, aveva deciso che era il momento di tornare in casa, di confessare alla mamma che non era riuscita a fare quello che le aveva chiesto, avrebbe detto che c’era troppo rumore là fuori, magari poteva riprovarci il giorno dopo? Non voleva deludere la mamma e fu con una certa fatica che si era girata sulla sedia preparandosi ad alzarsi, quando li aveva sentiti.

Aveva drizzato le orecchie e sentito che mamma e papà si stavano gridando addosso un ottimo compendio di tutte quelle parole che ad Angela avevano fatto divieto categorico di utilizzare. Li vedeva attraverso la finestra, camminavano a passi veloci da un lato all’altro della stanza, sempre in direzione contraria l’uno all’altra, senza mai incontrarsi.

Angela si era voltata di nuovo verso il giardino e si era rimessa in ascolto.

Dopo quella prima volta, quando la mamma usciva a recuperarla tirando su con il naso e con un fazzoletto stretto in un pugno, lei le diceva sempre che era riuscita ad ascoltare il suono di dodici, o trentanove o seicentosedici fili d’erba che crescono.

Fuori dalla porta chiusa dell’ambulatorio poteva sentire il galoppare delle scarpe di una folla sul linoleum del corridoio. Le porte di un ascensore sibilarono dentro il muro, il rantolo di un distributore automatico spremeva caffè istantaneo dalle proprie viscere dentro un bicchierino di plastica. Il cellulare di Linda trillò imbavagliato nella borsa. La donna fece al medico il gesto di aspettare e quello si ritirò senza una parola. Linda guardò lo schermo. Era sua figlia.

«Angela?».

«Mamma com’è andata?».

«Sono ancora qui. Ti richiamo quando ho finito», chiuse la comunicazione e rivolse al dottore un breve sorriso di scuse.

«Faccia un altro bel respiro», le disse il medico e lei inalò aria a bocca aperta.

«Ancora».    

Linda obbedì.

«Quanti anni ha detto che ha signora?».

«Sessantasette».          

Il medico aggrottò la fronte fissando gli esami del sangue e alzando gli occhi verso lo schermo del computer, come se non l’avesse sentita.

«Qualcosa non va, dottore?».    

L’uomo ancora non rispose. Il naso di Linda si arricciò in una smorfia appena percettibile. «Qual è il problema?», tentò ancora.

Il dottore si grattò dietro l’orecchio sinistro, rilesse per la terza volta la cartella, contorse le labbra in una smorfia sospirando rumorosamente dal naso.

«Dottore, ho seppellito i miei genitori e un marito. Se ha brutte notizie le voglio sapere subito, niente giri di parole», la donna lo guardò dritto negli occhi e il medico sembrò infastidito nel trovarsi disarmato sotto gli occhi di un’estranea.    

«La verità è che non so davvero cosa dirle. Gli esami del sangue sono perfetti, la funzionalità polmonare è ottima, stacca un bel novantanove al saturimetro. A parte il raffreddore ricorrente per cui è venuta da me non ho trovato nulla che non vada, tranne…».

«Tranne?».

Il dottore sospirò ancora. Linda non aveva nulla in contrario verso i tic delle persone, tutti ne avevano almeno uno, lei per esempio si mordeva l’interno della guancia quando era impaziente, lo stava facendo anche in quel preciso momento. Il problema era che il dottore aveva l’alito pesante, probabilmente ne era a conoscenza anche lui e tentava di nascondere il miasma gastrico masticando caramelle alla menta, ma il mix era per Linda comunque micidiale.

«Allora?», lo incalzò con uno stridio nella voce che non le apparteneva.

Il dottore capitolò: «Sento un crepitio di sottofondo».

Linda aggrottò le sopracciglia. «Si spieghi».

L’uomo si sedette su uno sgabello davanti al lettino, per essere alla stessa altezza della donna: «Quello è il problema, non me lo so spiegare. Lei è in forma perfetta, glielo confermo. Eppure auscultandola sento come un crepitio nel suo respiro. Come qualcosa di molto piccolo che gratta con le unghie dal di dentro».

Linda inorridì.

«Signora Valentini, posso chiederle di aspettare, mentre chiamo un mio collega? Vorrei un secondo parere».

Linda si tirò su la spallina del reggiseno: «Ci mancherebbe! Voglio sentirlo anche io!».

Il primario di radiologia si presentò con tanto di credenziali e Linda gli strinse la mano raccomandandogli di non perdersi in chiacchiere e offrendogli la schiena. Quello appoggiò lo stetoscopio freddo alla pelle nuda e le chiese di fare dei bei respiri.

«Allora?».

 «Sento anche io qualcosa», ammise annuendo. «Molto flebile, se non mi avessi detto che c’era non ci avrei fatto caso, come un debole fischio».

Linda cominciò a rivestirsi in fretta, rischiò di strappare la manica della camicia per l’impeto con cui ci infilò dentro il braccio. Dentro la bocca sentiva il sapore amaro del sangue, l’interno della guancia eroso dal lavorio straziante dei denti.

Nel tempo che lei impiegò per rivestirsi il primario di radiologia era sparito e il medico si era risistemato composto alla sua scrivania.

«Signora Valentini, a questo punto consiglierei di continuare l’indagine con ulteriori esami per scoprire l’origine del… del crepitio nei suoi polmoni».

Linda imbracciò la borsetta e si alzò dal lettino, pronta a uscire. La porta era rimasta socchiusa dall’uscita di scena dell’altro dottore e i rumori dell’ospedale aggredivano le parole del medico che Linda riusciva a carpire e decifrare a malapena. Il cicalino del CUP che segnalava il turno del paziente successivo in coda la fece sussultare.

«Si sieda», l’uomo le offrì la sedia di fronte a sé con un gesto cortese e automatico della mano, ma Linda scosse la testa. «Direi di cominciare a prendere un appuntamento per una TAC; una volta avuto l’esito, programmeremo i passi successivi».

In seguito, non avrebbe saputo dire come ritrovò il corridoio giusto che l’aveva portata all’uscita, aveva camminato senza guardare niente e nessuno in particolare, come estranea da sé stessa. In attesa alla fermata dell’autobus riuscì a contare i suoni che l’avevano accompagnata nel tragitto, il chiacchiericcio delle tazzine vicino al bar, il cigolio delle ruote di una sedia a rotelle sul pavimento, la risata di un’infermiera che parlava con un collega. Alzò gli occhi quando avvertì la presenza ingombrante dell’autobus di fronte a sé, il raglio dei freni la strappò al ricordo onirico degli ultimi minuti. Si accorse di avere ancora la richiesta in carta rossa che gli aveva consegnato lo specialista, raccomandandola al suo medico di famiglia.    

Linda si fiondò sul pullman diretto al suo quartiere con la fretta di una decisione presa all’ultimo momento.    

Percorse il tragitto fino a casa con la testa svuotata e le energie che piano piano la stavano abbandonando, dalle spalle verso il basso. Si era lasciata cullare dal rumore del traffico oltre il vetro abbassato. All’interno del pullman una donna sudata in un tailleur spiegazzato e con una ventiquattrore a tracolla che sembrava troppo spessa e pesante parlava alla madre come si parla con una bambina. Linda chiuse gli occhi, ringraziando mentalmente di aver trovato un posto a sedere, lo spazio in piedi si era presto riempito di corpi che occupavano tutto il corridoio, la sinfonia disordinata dell’umanità intorno a lei la rilassava, odiava dover aspettare da sola, Linda non leggeva, non possedeva uno smartphone e i lunghi tragitti erano uno stillicidio senza la musica della presenza di vita attorno a sé. Quando si ritrovava da sola finiva sempre per concentrarsi e tentare di carpire i suoni impossibili. Quel giorno il motore dell’autobus che tremava più forte del solito era una piacevole linea di basso che armonizzava in un’unica canzone tutti gli altri rumori.

Dopo essere entrata in casa, per prima cosa scartò una confezione di biscotti Balsen e si sedette di fianco al telefono. Inforcò gli occhiali e alzò il mento per mettere a fuoco il tastierino; masticando il primo biscotto compose a memoria il numero della figlia.

«Pronto, mamma?».

«Ciao Angela, sei ancora al lavoro?». Nel ricevitore Linda sentì il passaggio di un’onda di elettricità statica che si esaurì ancora prima che potesse davvero capire cosa fosse.    

«Sì. E credo che ci rimarrò fino a tardi. Ci saranno gli audit la prossima settimana e Maugeri vuole che ricontrolliamo tutte le bolle di spedizione dall’inizio dell’anno. È un lavoro infame, ma che gli importa?», poi, più piano: «Tanto la gatta da pelare ce la dobbiamo smazzare noi».

Linda mise in bocca un altro biscotto e il ricevitore si riempì del suono dei suoi denti che sminuzzavano il boccone croccante.

«Mamma ma stai mangiando?».

«Mh». Inghiottì. «Un biscotto. Mi sa che ho un calo di zuccheri, non mi sento granché bene. Quindi mi stai dicendo che ti sto disturbando, allora ti saluto».

Angela sospirò: «Ma no, ma no. Una pausa la faccio volentieri».

Il sospiro alzò un pulviscolo di crepitii nella cornetta di Linda: «Come dici? La linea è disturbata».

«Dicevo che staccare un attimo mi fa bene. Sono contenta che tu mi abbia chiamato».

Linda ingollò un nuovo biscotto, cercando di frantumarlo con la lingua contro il palato perché la figlia non se ne accorgesse. Lo spezzò in due, poi in quattro, lo inghiottì praticamente intero: «Vieni a pranzo da me domenica?», un nuovo sospiro, un nuovo crepitio. «Angela?»

«Sì, d’accordo», una pausa. «Ancora non mi hai detto com’è andata la visita. È tutto a posto?».

«Oh, la visita. Tutti buoni a parlare quelli».

«Quelli chi?».

«I medici».

«Mamma cosa ti hanno detto? C’è qualcosa che non va?».

«Ssssh!», Linda la zittì. «Hai sentito?».

Silenzio, la linea pareva muta.

«Che cosa?».

«Ssssh!», fece di nuovo la madre. «C’è qualcuno lì con te?».

«No, sono nel mio ufficio, da sola».

Una pausa più prolungata.

«Mamma?».

«L’hai sentita adesso? Come una voce, qualcuno che parlava».

«Magari è un’interferenza, mamma. Diceva qualcosa di interessante?».

Linda scosse la testa come se la figlia potesse vederla attraverso il ricevitore.

«Si sente ancora. La voce di un uomo. Parla di numeri, cifre. Non capisco».

«Mamma non preoccuparti, sarà un’interferenza, a volte succede».

Linda ascoltava la voce dell’uomo, meccanicamente mise un altro biscotto Balsen sotto i denti, senza preoccuparsi che la figlia la sentisse mangiare. «Ora discute a voce alta, ma non si capisce. Soffia nel telefono. Sembra ce l’abbia con qualcuno, ma non riesco a capire».

«E chissenefrega mamma! Cos’hai oggi? Sei strana».

«Ssssh! Non si sente più niente. Sparita».

«Grazie al cielo».

«E se fosse stato qualcosa di importante?».

«Non era niente di importante. Era solo un’interferenza, allora per domenica…».

«Eccolo di nuovo!».

«Pronto? Mamma?».

«Vuoi stare un momento in silenzio, Angela? Voglio capire cosa dice, ora sembra che stia piangendo…».

«Mamma ma cosa…».

«Sssh!», l’ultimo sibilo fu soffiato tra i denti come un ordine e Angela si zittì davvero. Ascoltò il respiro sottile della madre all’altro capo della cornetta che ascoltava una conversazione inudibile, appena sopra il livello di un disturbo elettrostatico. Passò un minuto, due.

«Mamma, sei ancora lì?».

Linda c’era, ruminava un biscotto dopo l’altro, frantumandoli piano piano, come se la voce nell’interferenza avesse potuto sentirla e scappare via.

«Mamma devo tornare al lavoro», le disse, la voce era stanca. «Ci sentiamo per domenica».

Le rispose un sussurro: «Ancora un attimo cara. Potrebbe essere qualcosa di importante, si sente appena un fruscio, un crepitio di parole, forse un fischio».

«Devo andare, ci sentiamo, ciao».

«Aspetta!».

Angela uscì dall’ufficio che era buio. Prese la borsa, compilò il tabulato delle ore dovute e lo firmò, chiedendosi se questo mese gli straordinari sarebbero finiti in busta paga o ad accumularsi nel fantomatico monte ferie che non aveva mai utilizzato nei tre anni in cui aveva lavorato per Maugeri. Stava in piedi in virtù del caffè, ma era sempre meglio di quando dormiva soltanto in virtù degli ansiolitici. Si guardò allo specchio dell’ascensore che la portava al pianterreno studiandosi la ricrescita. Com’era quella marca di tinta per capelli che le aveva consigliato Barbara? «Sai com’è», le diceva quando si riuscivano a incontrare per un caffè veloce sempre più arido di argomenti di conversazione, «i bambini ti fanno ammattire», e rideva. Ne aveva tre di figli Barbara, e no, Angela non lo sapeva com’è.

Il sole era calato presto e si era alzato un vento freddo, soffiava come rumore bianco dentro le orecchie soffocando qualsiasi altro suono. Il parchetto davanti al suo palazzo era buio e fosco e Angela fece il giro largo per evitare di passarci in mezzo.    

Fece una smorfia infilando la chiave nel portone, l’androne era ghiacciato, una luce artificiale bianca troppo forte si rifletteva sul marmo grigio e rimbalzava sul grande specchio in cima alla scala. Angela ci passò davanti senza alzare lo sguardo.

Tirò un sospiro chiudendosi la porta di casa alle spalle. Nell’appartamento la temperatura era giusta, il riscaldamento era centralizzato, i doppi vetri chiudevano fuori freddo e rumori. In cucina rimase per un momento incantata dalla luce del frigorifero che si rifletteva sui ripiani vuoti, dallo scomparto nella porta prese uno yogurt, non aveva nemmeno fame, recuperò un cucchiaino dal cassetto e si mise a mangiarlo davanti alla finestra, guardando fuori le fronde degli alberi che ondeggiavano frustati dal vento.

Si fermò, il cucchiaino a mezz’aria tra la bocca e il vasetto, cercò di sentire la risata delle fronde che ancora cariche di foglie si facevano beffe dell’inverno appena cominciato, ma riuscì a distinguere soltanto il ronzio monotono dei caloriferi. Si concentrò di più, aggrottando le sopracciglia come quando da bambina si sforzava di ascoltare il suono dell’erba che cresce, il gioco che aveva inventato sua madre quando voleva distrarre la sua attenzione e preservarla dagli inconvenienti della vita. Aveva ascoltato il rumore dell’erba che cresce quando era morto Lucky, il piccolo Cavalier King che le avevano regalato a Natale, quando si era ammalata la nonna, quando papà era stato licenziato.

Angela si concentrò per ascoltare il fruscio delle foglie degli alberi nel parco davanti a casa, non voleva aprire la finestra, voleva capire se poteva sentirne il suono anche con i doppi vetri chiusi, se potesse carpire ancora il canto della vita anche da lì, dal suo appartamento immerso nel silenzio, anche dalla sponda della vita su cui era arenata. Si sforzò a lungo, trattenendo il respiro, ma quando infine i rami smisero di agitarsi Angela non seppe dire se l’aveva sentito davvero o era stata invece soltanto suggestione.    

Posò il vasetto dello yogurt sul tavolo, un sapore acido nella bocca che non riusciva a deglutire. Si avvicinò alla maniglia della finestra, la fece ruotare, l’aprì. Fuori nella notte era il silenzio. Attese qualche istante il ritorno di una folata di vento che le parlasse piano all’orecchio, sicura che questa volta l’avrebbe sentito, sarebbe stato vero, ma non accadde nulla. Tornò a rinchiudersi nel mutismo dell’appartamento. Quando passò accanto alla borsa prese il cellulare e scrisse un messaggio a sua madre. «Mi chiami? Vorrei sapere quello che ti ha detto il medico».

Quando si coricò per tentare di dormire, Linda ancora non aveva risposto.


Stefano Galardini nasce a Genova nel 1985, vive in Brianza dove lavora come O.S.S. Nel 2017 esce il suo romanzo d’esordio Il tempo dentro di noi. Dal 2018 si dedica a consolidare le sue competenze, a mettere a fuoco la sua voce frequentando corsi e laboratori di scrittura creativa come il Gruppo di Supporto Scrittori Pigri e i Costruttori di ILDA. Nel frattempo suoi racconti vengono pubblicati in diverse antologie. Nel percorso di coaching con Luca Mercadante vede la luce il suo ultimo romanzo. E si ributta nella scrittura.

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