A seguito della nostra call Rumori in sottofondo abbiamo ricevuto 54 racconti. Letti, selezionati, editati prima dalla classe di Apnea ‘21/‘22 poi dalla nostra redazione narrativa, ne sono infine stati scelti 14 per la pubblicazione sulla nostra rivista. Questo è il decimo, lo ha scritto Stefano Ficagna, e attraverso l’editing la redazione ha suggerito all’autore interventi di microediting sul lessico e sul sistema di immagini, soprattutto sul finale, rendendolo più incisivo e coerente con il tono del racconto.
Una ragazza si trasferisce in un appartamento in condivisione, allettata dall’affitto basso e dalla vicinanza al posto di lavoro. La convivenza funziona, anche se la coinquilina si vede di rado e sembra soffrire di un disturbo da accumulo ossessivo-compulsivo. Nell’arco di due anni passati sotto lo stesso tetto il loro rapporto verrà scandito dalla progressiva assenza di contatti e dalla diminuzione dello spazio comune, processi che arriveranno ad assumere proporzioni insospettabili.
L’intimità degli spazi violati
di Stefano Ficagna
All’inizio non ci faccio troppo caso. Mi infastidisce quando i miei spazi vengono violati. Evito di litigare per qualche centimetro rubato all’interno della dispensa, ma sento irrigidirsi i muscoli del collo vedendo tutte quelle confezioni di pasta accatastate. La mia coinquilina avrà trovato un’offerta irrinunciabile al supermercato, oppure ha intenzione di fare una festa e non mi ha detto niente.
Abitiamo insieme da tre mesi, durante i quali ci siamo parlate lo stretto necessario. Non so neanche da quanto ci stia lei, in questo bilocale periferico, ma ha un modo di abitare lo spazio che la fa apparire come la padrona piuttosto che una semplice affittuaria. Anche se coi gesti e le parole si è mostrata sempre gentile, quell’aura dispotica me l’ha fatta temere sin dal principio.
Ho l’impressione che mi tolleri come un contrattempo momentaneo, una delle tante che è passata e che passerà, ma qui l’affitto è basso e sono relativamente vicina a dove lavoro. Non ho alcuna intenzione di andarmene tanto presto.
Quando rientro a casa, il sabato notte, tutto è silenzioso. Non c’è stata nessuna festa, la pasta resta a occupare spazio nella dispensa.
Sei mesi sono tanti. Ci sono persone di cui ho scoperto la vita nell’arco di una sola serata, logorroici mezzi sbronzi che chissà perché pensavano fossi una che sa ascoltare. È passato l’inverno, si è fatta primavera, io della mia coinquilina conosco il nome e poco altro. Nessuno viene a trovarla, la sera esce di rado. Non ho idea se lavori, studi o cosa faccia per vivere, ma le bollette le paga sempre lei (la mia metà la prende in contanti) e nessuno ci ha ancora staccato le utenze.
I nostri spazi comuni sono il corridoio, che divide la mia camera dalla sua, e la cucina, grande a malapena per farci stare un tavolo e due sedie. Mangiamo a orari diversi, ci laviamo a orari diversi, anche le nostre vesciche sembrano regolate su ritmi divergenti. Abbiamo degli accordi, quelli sì: lasciare pulita la doccia, non intasare di capelli il lavandino, non abbandonare piatti e pentole nel lavello, pulizie una settimana a testa. Sono una persona metodica, mi sono adattata in fretta e lei non ha avuto niente da ridire. Lo sgarro della dispensa non è rientrato, ma si è stabilizzato su quella dimensione di pochi centimetri, giusto lo spazio di schernire il mio bisogno di simmetria.
Poi un giorno trovo venti confezioni di dentifricio che sporgono dalla mia parte. Il fastidio aumenta. Quel gesto testimonia un’invasione volontaria, un’azione a cui deve corrispondere una reazione. Vado di fronte alla sua porta ma invece di bussare mi fermo a guardarla. Da dentro non arrivano rumori, il silenzio è così intenso che romperlo mi intimorisce. Mi dico che potrebbe essere uscita e non faccio niente.
Torno alla dispensa e schiaccio un po’ più in là la pasta, il dentifricio e quelle poche scatolette che rappresentano gran parte della sua dieta. Il suo scomparto nel freezer è quasi vuoto, nel frigorifero stipa giusto qualche foglia d’insalata e della frutta di stagione. Non sembra avere gusti sofisticati. Se dovesse allargarsi ancora, mi dico, infilerò a forza un tacchino intero nel frigorifero per dimostrarle che anche io posso approfittare della mia libertà.
Arrivate al settimo mese raggiungiamo il picco della nostra intimità. Una mattina trovo una fetta di torta sul tavolo e un bigliettino col mio nome. Non c’è scritto perché, forse è il suo compleanno o chissà, magari si è laureata. Lascio un bigliettino con scritto grazie, dopo averci pensato su aggiungo un punto esclamativo. Vorrei ringraziarla anche di persona, la sera dopo la sento che rientra in camera e mi decido a bussare. Mentre attraverso il corridoio vedo che l’anta della dispensa è aperta, cerco di chiuderla ma qualcosa fa da ostacolo.
Dentro ci sono almeno venti confezioni di preparato per torte. La nostra ritrovata intimità si trasforma in silenziosa indignazione.
Passa un anno, con gli amici non faccio altro che lamentarmi di lei. Loro alzano gli occhi al cielo, sbuffano e mi chiedono perché non me ne vado e basta. Le mie invettive al bar sono l’unica reazione a quello che succede in casa.
Quelle che sembravano stranezze si trasformano gradualmente in un piano volto a escludermi da ogni superficie comune. La dispensa si riempie di ogni genere alimentare a lunga conservazione, cui si aggiungono shampoo, bagnoschiuma e igienizzanti. Il freezer scoppia di surgelati. Rimane a mia disposizione il frigorifero, ma ogni giorno lo apro con il timore di trovarlo pieno di spazzolini o di qualunque altra diavoleria la mia coinquilina voglia far scorta.
Il processo di occupazione è stato veloce, la mia reazione no. Un pomeriggio ero pronta ad affrontarla, ma ho desistito. Sono rimasta fuori dalla sua porta per più di un minuto, in attesa di un segno della sua presenza, poi ho cominciato a sentire una specie di cigolio provenire dall’interno. Appoggiando l’orecchio ho distinto meglio il suono: una specie di lamento, simile a quello di un animale che piange. Avrei voluto bussare, ma non sono brava a consolare gli sconosciuti.
Da un po’ di tempo trovo le bollette sul tavolo, il giorno dopo lei ci trova sotto la mia parte: così facciamo per l’affitto e per qualunque altra questione economica.
Continuo a lamentarmi con gli amici, loro continuano a suggerirmi di andarmene. A loro non dico mai che nonostante tutto lì ci sto bene, ho la mia intimità, è come abitare da sola ma in un appartamento più grande di quello che potrei permettermi se me ne andassi. Posso pagarmi un account premium di Netflix, il wi-fi, esco molte più sere a settimana, tutto ciò che devo sacrificare è un po’ di spazio per le mie cose di tutti i giorni. A conti fatti è un ottimo compromesso.
Ogni tanto guardo il cielo e mi chiedo a quale catastrofe la mia coinquilina si stia preparando, per stipare tutta quella roba.
Dopo un anno e mezzo conosco un ragazzo. Si fa chiamare Chucky, come la bambola assassina di un vecchio film, un nomignolo ridicolo che stona coi suoi modi rilassati. Usciamo insieme qualche volta, ci piacciamo, comincio a passare la notte da lui. Facciamo un sesso rumoroso e noncurante, le pareti sono sottili e i suoi vicini conoscono i dettagli della nostra vita intima quanto noi. Ogni tanto incrocio sulle scale uomini che mi osservano e fanno sorrisini complici a cui non rispondo mai.
La mia vita si inserisce nella sua, ci incastriamo gradualmente. Non pensavo sarebbe mai successo, e non con tanta naturalezza. Vorrei condividere anche i miei spazi, ma tentenno. Quando mi decido dobbiamo dribblare i pacchi di carta igienica nel corridoio. Non mi fa domande, ma lo sento trattenuto e il sesso non è lo stesso di sempre. Più veloce, più disinteressato. È come se si sentisse osservato, qui, a casa mia, dove l’unica presenza è un’assenza.
Passano altri mesi, la parola “relazione” smette di farci paura. La situazione nel mio appartamento, invece, diventa sempre più preoccupante. Ogni giorno devo togliere qualche scatola dalla doccia per potermi lavare, confezioni sigillate con scritto su ogni lato “fragile”. Io e la mia coinquilina continuiamo a evitarci, a far finta che sia tutto normale.
Io e Chucky cominciamo a parlare sempre più spesso di convivenza, anche se lui ha un contratto a termine che non sa se gli rinnoveranno. Il suo appartamento lo escludiamo, abbiamo bisogno di intimità, e mi sono stancata degli sguardi allusivi o giudicanti dei vicini.
Quando troviamo una buona soluzione fatico a trovare il modo giusto per dirlo alla mia coinquilina: fra le nostre stanze ormai c’è una distanza invalicabile. Le lascio un biglietto, spiegando la situazione e comunicandole la data in cui me ne andrò. Al rientro, la sera, trovo la porta della mia camera sbarrata da un muro di confezioni di assorbenti.
Me ne vado a due anni esatti dal mio arrivo. Non ricevo biglietti di addio, né faccio qualcosa per incrociarla nei pochi spazi rimasti liberi dalle scorte accatastate ovunque. Alcune delle mie cose le abbandono nella camera, è più facile disfarsene che portarle fuori di lì. Gli oggetti di cui sento il bisogno sono sempre meno, l’asimmetria non mi provoca più disagio.
Il monolocale in cui andiamo a vivere io e Chucky non ha spazi privati. Il bagno è un’oasi in cui fare a meno della presenza l’una dell’altro, le mie docce durano un’eternità. Litighiamo più spesso, il sesso serve a riappacificarci: sono convinta della mia scelta, ma ogni tanto torno col pensiero a quella strana forma di libertà, limitata solo dagli oggetti che si accumulavano, forme di vita inerti a cui non dovevo rendere conto di niente e che chiedevano in cambio solo un po’ di spazio in più, sempre di più.
La convivenza non è il paradiso che credevo, ma ci farò l’abitudine.
Finché.
Un giorno esco per andare a lavorare, arrivo al secondo piano e vedo una montagna di carta igienica in corridoio. Penso a un trasloco, poi vedo un cane in giardino che spruzza di pipì un monolite di confezioni di pasta. La padrona ha la fronte aggrottata e la bocca aperta, come se si fosse bloccata nell’atto di esprimere una domanda.
In strada gli incroci sono pieni di provviste, beni di prima necessità spuntano dagli interstizi fra un edificio e l’altro. Nessuno tocca niente, neanche i senzatetto. Quando arrivo a lavoro la porta d’entrata sembra bloccata, mi faccio spazio a furia di spinte facendo crollare un muro di scatolette di tonno. Le scrivanie sono ingombre di lattine e scatole, faccio fatica a intravedere i miei colleghi dietro quelle barricate. Il mio principale mi saluta come se niente fosse, appoggiando dei fogli da catalogare su una pila traballante di saponi.
Comincio a lavorare, facendo respiri lenti e profondi per calmarmi. Mi dico che non c’è niente di cui preoccuparsi se nessuno pensa che ce ne sia motivo. Guardo persone che conosco da anni fare spallucce alle difficoltà di movimento come ho fatto io negli ultimi due anni, non dicono niente e io non faccio domande.
A metà mattinata la nausea mi assale. Cerco di resistere, ma dopo qualche minuto sono costretta a correre in bagno: una catasta di pannolini crolla al mio ingresso, ci faccio appena caso mentre mi inginocchio per vomitare. Dalla bocca mi esce solo bile, è come se avessi qualcosa nello stomaco che non riesco a espellere. Quando finisco faccio per prendere un fazzolettino dalla tasca per asciugarmi, ma trovo solamente la confezione di un medicinale che non conosco, cerco nell’altra tasca e ne trovo una anche lì. Mi chiedo come ci siano finite, ma ho paura di rispondermi.
Torno alla mia postazione, la testa mi gira e rischio di far cadere qualcosa a ogni passo. Non faccio in tempo a sedermi che sento un rantolo provenire dalla scrivania vicino alla mia, scavo un pertugio fra i saponi e vedo una segretaria con le dita conficcate in gola. Rimesta per qualche secondo, lo sguardo assente, poi estrae dalla bocca un termometro lucido di bava e sangue. Resto a fissarla finché non si volta verso di me, incredula, con gli occhi che sembrano sporgere un po’ di più a ogni secondo. Ricompongo la barriera poco prima di sentire un rumore come di popcorn che scoppiettano.
Serro le palpebre, il mondo continua a girare. Le oscillazioni seguono il ritmo di una melodia, una specie di ninna nanna. Sembra che il suono si propaghi direttamente dal mio timpano. La testa inizia a farmi male, a ogni nota il dolore aumenta, come se qualcosa si facesse strada a forza nel mio cranio, nella mia mente, qualcosa di superfluo che cerca uno spazio nel mondo.
Premo una mano sulla pancia, ancora scossa dalla nausea. Il mio corpo è l’ultima frontiera.
Stefano Ficagna è nato a Novara nel 1979. Lavora come operaio metalmeccanico in una fabbrica di bottoni; legge, suona, guarda film e serie tv, recita e scrive. Suoi racconti sono apparsi su riviste, uno sul disco Tl; Dl della band romana Vonneumann, uno ha vinto il concorso Romanzo Brevissimo indetto dalla casa editrice WoM Edizioni. Collabora col sito Read And Play e gestisce il blog Tremila Battute.