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Prendila come una critica 1 – cuore e realtà di Alberto Savinio

di Giuseppe Cofano

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di elogio e di stroncatura del racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio]


ELOGIO

La stanza segreta del cuore di Savinio

Nella quieta vita borghese di Nivasio Dolcemare, protagonista del racconto Mia madre non mi capisce, tutto concorre a un senso di felicità e di benessere. Il calore familiare, il successo professionale come scrittore, la cerchia di amicizie agiate: tutto riempie il suo lussuoso appartamento «di una vibrazione di felicità». Seguiamo divertiti il passo irresistibile con cui Nivasio rincasa durante una dolce serata natalizia e gli vengono incontro il portiere del palazzo, il servo fedele, la moglie scintillante e profumata, i bambini affettuosi, gli ospiti deferenti. Nivasio è un uomo appagato, non deve chiedere nulla di più alla vita.

Ma il tarlo c’è, ed è simboleggiato dalla figura della madre. Il ricordo della sua presenza forte, e poi della sua agonia e della sua morte, si ripresenterà a intermittenza, ineludibile, fino a quando crollerà il fondale delle apparenze e davanti a Nivasio si spalancherà la dimensione del rimosso (e dell’originario, che in Savinio coincidono).

La riuscita del racconto è tutta da ricercarsi nel costante contrappunto tra i due registri più congeniali a Savinio, quello fantastico (surrealistico) e quello umoristico.

Appartengono al primo le immagini tratte dell’universo zoologico e, in particolare, ornitologico, gli insistiti paralleli con tartarughe, cavalli, scarafaggi, ma soprattutto papere, pappagalli, pulcini e galline, al punto che si potrebbe immaginare una messa in scena del racconto i cui personaggi siano degli animali; la vorticosa scena di epifania finale, in cui all’interno dell’appartamento cittadino dai confini sicuri si palesa una stanza ignota e il protagonista ne viene irresistibilmente risucchiato; ma anche una certa limpidezza dello stile e un senso di placido distacco dal contingente e di sereno confronto con l’eterno, con l’irrazionale originario. Più che le ascendenze letterarie qui contano le ascendenze figurative: il surrealismo di Savinio (Nivasio è un anagramma del cognome dell’autore, a sottolineare il legame con il personaggio) ha i tratti dei quadri di De Chirico o di Dalì, e i paralleli tra personaggi, oggetti e animali, ad esempio l’automobile «simile a una grossa tartaruga addormentata» o il servo «dai piedi dolci» (ossia piatti) come una papera, hanno il vigore di una raffigurazione statica e immutabile del metafisico.

Appartengono al secondo registro, invece, alcune scene di quieta critica della costellazione psicologica alto-borghese, in particolare la digressione sull’amicizia di Nivasio con l’«impareggiabile Giulio», il «servo psicologo» che sa come irretire il suo padrone per poterlo derubare «con amore», gli eroismi casalinghi del protagonista che di notte medita mentre tutti dormono, o l’osservazione fulminante sulla suora che assiste devotamente la madre in fin di vita, ma non vuole sentire ragioni quando si tratta di andare a messa; e, anche qui, va notata, a livello stilistico, l’abilità sorniona con cui Savinio dissemina di correlativi ironici la progressione narrativa, a partire da quel «maestosa persona» con cui viene designato Nivasio sin nell’incipit, e ancora di più «la vivente Mole Antonelliana», l’epiteto attribuito alla monumentale madre.

Il racconto, nell’incedere lento e rotondo della prosa di Savinio, si sviluppa in lunga progressione. Il gustosissimo contrasto umoristico ha una funzione strutturale, è la spia per il lettore che sotto la crosta fredda della felicità si muove un magma di inespresso. Ma l’umorismo nasconde la tristezza, la malinconia trapela attraverso il manto della parodia: e quando, in quello che è forse il momento più felice del racconto, Nivasio riceve l’elogio di un ammiratore di nome Cavallo e pensa «in un breve ma lucido delirio che ora anche i cavalli ammirano i suoi scritti», non siamo più al sorriso compiaciuto dell’umorismo ma agli occhi gonfi di una dolceamara immedesimazione.

E, nell’atteso rovesciamento finale, nel momento in cui la figura materna torna in scena, non ci sorprendiamo troppo nello scoprire che la verità primigenia dell’esistenza, quella verità che è preesistente alla storia e alla società, in cui l’umanità e il mondo «si vergognerebbero della loro storia: l’Umanità della storia dell’umanità, il Mondo della storia del mondo», non si esprime con le parole, che sono il timbro delle certezze e degli scrittori, ma nella regressione all’infanzia, nell’incapacità di parlare tipica degli animali (come la piccola gallina con «l’occhio rotondo e fisso» che «mostra di non capire») e del rimpicciolimento che precede la morte («per passare dalla vita alla morte bisogna curvarsi e farsi piccoli piccoli»).

In un colpo solo Savinio, scrittore borghese, figlio della civiltà borghese di fine ottocento e percorritore di tutta la prima metà del novecento, uomo coltissimo e artisticamente poliedrico, intellettuale serenamente antistorico e costitutivamente dissonante, fa giustizia di tutti i miti della civiltà, per lasciare in piedi solo la purezza dell’infanzia, quell’infanzia passata sulle rive del suo “dolce mare” Mediterraneo.


STRONCATURA

Se la realtà non può essere rifiutata a priori

Il racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio si presenta da subito come un’umoristica parodia di una vita alto-borghese di successo. Il protagonista  Nivasio Dolcemare, alter ego dell’autore (Nivasio è un anagramma di Savinio), torna a casa durante una serata natalizia, in placido connubio con se stesso e con il mondo, che ha decretato il suo successo di scrittore e di padre di famiglia. Il portiere del palazzo e il servo fedele Giulio fanno risaltare il mondo di privilegi che per diritto di nascita sembra appartenergli; l’appartamento in cui fa ingresso è ricco, ospitale, saturo dell’affetto dei figli e della moglie; ospiti di prestigio lo attendono per tributare il giusto omaggio ai suoi successi editoriali.

Ma qualche avvisaglia ci fa dubitare di quello che vediamo. Per strada Nivasio ha già incontrato «neri rami di alberi», «scheletri arborei [che] sono il solo aspetto triste di questa via»; e la sorniona ironia di Savinio ci ha già avvisati che la «maestosa persona» di Nivasio, «abbracciata da un ampio cappotto dai risvolti larghi come porte di armadio», fa dei pensieri meno sereni relativi alla madre, la “signora Dolcemare”, ora sostituita nella sua gloria sociale terrena (il «trapasso») da una nuova “signora Dolcemare”, la moglie di Nivasio.

Le avvisaglie si fanno più insistite. Nivasio a casa viene accolto dal coro unanime degli elogi degli ospiti, ma sente il bisogno, chissà come mai, di ritirarsi nel suo studio, per rimirare l’assegno ricevuto dall’editore e l’elzeviro omaggiante di un tal Paris, che di nome fa Eraclito come il filosofo greco, e di un tal Cavallo, il cui cognome animalesco è un rimando simbolico di non minore rilevanza, se si conosce un poco la poetica saviniana.

Nivasio ha bisogno di ritirarsi in se stesso. Il dubbio lo corrode, l’esigenza di una verità più autentica serpeggia in lui. E qui si arriva, lentamente, all’epifania, al momento in cui, senza anticipare troppo della catartica scena finale, grazie all’intervento straordinario della figura della madre Nivasio capisce come stanno le cose, capisce come quello che «a Nivasio ora pare disordine, forse è il loro vero ordine».

Il limite dell’intera costruzione narrativa è da ravvisarsi proprio in questa lineare progressione, che porta a un esito atteso sin dai primi paragrafi. Il finale ci sembra scontato, il “sugo della storia” è troppo scoperto sin dall’inizio, le polarità simboliche sono troppo dichiarate: le ragioni dell’arido razionalismo astratto da un lato, gli oggetti del pensiero libero dalle intellettualizzazioni discorsive dall’altro. Si intuisce facilmente che secondo Savinio il vero stato di felicità è nella regressione all’originario connubio materno (la madre essendo il primo elemento di contrasto con la felicità del mondo posizionato in apertura, dopo la rapida menzione dei «neri rami»), in cui le parole non sono disponibili, e proprio per questo una superiore comunione con la realtà è possibile.

La parodia della società borghese, delle finzioni e dei miti della civiltà novecentesca, della storia e dell’umanità è guadagnata troppo facilmente, è un a priori della narrazione.

E tale società, altro limite del racconto, è vista dall’esterno, come il «fumo degli ospiti» di Nivasio, che impedisce qualunque tipo di determinazione. Non si analizza la sua forza seduttiva, la ragione del suo successo, se non in qualche gustoso scampolo, come la lunga digressione narrativa sull’episodio dell’incontro con il servo Giulio, che sa irretire il futuro padrone con il suo inscalfibile sorriso «da salvadanaio» nonostante abbia servito in tavola un pollo che «pute», secondo la latineggiante lamentela di Nivasio. Ma, anche in questo, il racconto paga uno squilibrio formale, l’eccesso di spazio dedicato a un costone gustoso in sé, ma eccentrico rispetto al resto. Sarebbe stato preferibile rivolgere l’attenzione all’approfondimento della ragione per cui, ad esempio, la moglie di Nivasio non abbia alcuna tridimensionalità, ridotta com’è a orpello sociale, a status symbol borghese, o i figli non possano godere di quella comunione con i genitori che per Nivasio poi si rivelerà, una volta recuperato il ruolo di figlio, un momento di disvelamento assoluto.

Anche i simbolismi e la forza figurativa di certe immagini pagano lo scotto di questi limiti fondamentali, ossia la linearità della contrapposizione e la mancanza di contraddizioni interne: il razionalismo borghese da una parte, la stanza segreta nel cuore dell’appartamento dall’altro, con i suoi animali puri e con i suoi mobili che richiamano l’infanzia.

In fondo, più che alle camere ignote dell’appartamento cittadino, Savinio avrebbe dovuto dedicarsi a quelle ben note; alle scalfiture dei mobili e degli arredi, dei muri e degli infissi che testimoniano inequivocabili le contraddizioni della società e della storia.


Giuseppe Cofano è ingegnere informatico appassionato di letteratura. Pubblica sul suo blog personale L’Incompetente articoli di critica, recensioni e interviste ad autori.

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