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Prendila come una critica 2 – La camera oscura e troppo chiara di Savinio

di Martina Ásero

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di elogio e di stroncatura del racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio]


ELOGIO

In una camera oscura

Mentre il 31 dicembre in casa dell’affermato scrittore Nivasio Dolcemare si celebra l’immancabile cena di commiato per l’anno al crepuscolo, in una stanza nascosta si compie un parallelo rituale  di riconoscimento che lascia i lettori stupefatti, per la delicatezza e lo strazio. Stati d’animo opposti, eppure conviventi, come tutte le situazioni che combaciano in questo breve, bellissimo racconto. Un autore imborghesito che veglia la notte con la mollezza di un poeta ormai estinto, una moglie che ha sottratto un nome matriarcale, e ha l’orgoglio, ma non la monumentalità, per poterlo indossare, un cameriere la cui furbizia, da nota di demerito, si converte in promozione professionale. Tutto nella scrittura di Savinio sembra sdoppiarsi, persino l’autore anagrammato nel protagonista. Lo sdoppiamento inizia con la collocazione della casa in una via signorile in cui le abitazioni civili si specchiano negli scheletri arborei che sporgono dal convento di fronte. La chiarezza minacciata dalle tenebre. Mi sembra un annuncio protatico di quanto si disvelerà circolarmente nel cuore del racconto, con la scoperta di un lato oscuro della casa non ancora esplorato. Come nella camera del fotografo, adagiata nel rosso, le immagini prendono vita per la prima volta nel liquido amniotico della mistura chimica, la scrittura estrae dai negativi le ombre silenziose e le espone alla nostra vista ammaliata. Dove lo fa? In un’abitazione, un interno domestico convenzionale e insospettabile dove si allentano le cerniere della razionalità. Trovo qui rintracciabile la visione psicanalitica della casa come estensione delle istanze dell’io; e il protagonista che, udendo un lamento, scopre la camera sconosciuta, ingombra di mobili dell’infanzia accatastati, è il viaggiatore dell’inconscio, pronto a tornare nella valle del rimosso, con tutto il suo carico di storia e penombra. Non trovo casuale, pertanto, nemmeno la frase incompleta della commovente gallina – la cui putrescenza risorta a nuova vita era già anticipata dalla scena del cameriere Giulio e del pollo – e che nel dichiarare la propria identità prosciuga un madre in ade: l’asportazione di due consonanti è sufficiente a riversare una vita nel regno degli spettri

Come la Coraline di Neil Gaiman o il protagonista dello Psycho hitchcockiano, anche Nivasio Dolcemare incontra un lato oscuro in questa grande allegoria dell’io che è la casa, e si congiunge al perduto, in uno sfogo commovente raggiunto nell’apice del finale. In una notte magica, con una scrittura che moltiplica l’incanto, il sommerso affiora, gli opposti si sciolgono, e ciò che separato si unisce in un eterno, riconoscente abbraccio materno.


STRONCATURA

Un’oscurità troppo chiara

Ci sono almeno due motivi per evitare di perdere il proprio tempo leggendo il datato racconto Mia madre non mi capisce.

Il primo è la banalità disarmante dell’applicazione narrativa dell’argomento scelto. Savinio seleziona luoghi comuni e stilemi freudiani per  un ordito poco originale dove basta leggere le prime righe per intuire la trama. Una via signorile preclara e dignitosa fronteggiata da rami neri che si innalzano dalle mura di un convento. Da un incipit così composto non ci si può aspettare altro che un banale saggetto sulla luce e l’ombra dell’essere umano. Dopo Star wars, per colpire il lettore contemporaneo parlando di lato oscuro, ci vuole ben altro. Il secondo motivo è l’improbabilità delle situazioni proposte che rende del tutto incredibile il piano di realtà a partire dal quale dovrebbe intromettersi l’elemento fantastico. Quale uomo si porterebbe in casa un cameriere che ha cercato di spacciargli per buono del pollo andato a male? È evidente che si tratti solo di un gancio narrativo che anticipa l’apparizione finale della gallina. O meglio: di una donna rediviva incarnata in una gallina. Esiste simbolo più trito della madre chioccia? Del tutto improbabile, poi, che uno scrittore borghese, per quanto affermato, risieda in una dimora talmente ampia da non aver avuto il tempo di esplorarne tutte le stanze. Anche qui, lo scopo narrativo di Savinio appare fin troppo leggibile, e così anticipatorio da suscitare soltanto noia in un lettore anche solo minimamente esperto.

Ancora una volta Savinio, che malamente si camuffa dietro uno pseudonimo tanto prevedibile quanto snervante, offre una prova inconsistente di presunto buon racconto e imbroglia l’occhio più sprovveduto esponendo sotto una debolissima teca di supposta oscurità, ma indiscussa trasparenza, una struttura tanto friabile quanto l’ala decomposta del suo infelicissimo pollo.


Martina Ásero gestisce un centro di formazione artistica in Sicilia e cura il canale YouTube dedicato ai libri Ima AndtheBooks. Insegna lettere alle scuole medie. Ha pubblicato narrativa per Caravaggio Editore, Centoautori e Nous. 

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