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Prendila come una critica 3 – fragole e uova di Savinio

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, esercizi di analisi del racconto Mia madre non mi capisce di Alberto Savinio]


Fragole in dicembre!

di Massimo Grecuccio

Ci sono buoni indizi per arrivare a credere che in Mia madre non mi capisce il narratore sia una prima persona camuffata da terza. Buoni indizi non significa certezza. Osserviamo però che Nivasio, nome, è l’anagramma di Savinio, il cognome dello scrittore, che Maria è la moglie di Nivasio, e che Angelica e Ruggero, i figli del racconto, si chiamano come i figli dello scrittore Savinio, sposato con Maria. Nel racconto il cognome della famiglia è Dolcemare, ma questo indizio è debole, per la ragione che non è un vezzo raro che uno scrittore usi pseudonimi (in questo caso: lo pseudonimo di uno pseudonimo). C’è altro che dal racconto porta a Savinio, ed è una casa nella località balneare Poveromo, casa di proprietà della famiglia, dove Maria e i bambini vanno per le vacanze estive.

Al di là delle corrispondenze tra la famiglia di Savinio scrittore e la famiglia di Nivasio personaggio, e nonostante il narratore, è del tutto irrilevante credere o meno autobiografico il racconto.

Un racconto, cupo e pieno di pretesti, attraversato da una pulsione di morte. Un cenone di Capodanno di cui non si saprà quasi nulla, né delle vivande, né delle bevande, né delle conversazioni intorno al tavolo. I convitati, semplicemente “i signori”. Il portiere servile incongruamente, il servo eccellente perché gesuitico, e altre quisquilie, tutto solo distrazioni. Nella casa aleggia un fantasma, il fantasma della madre morta, la ex Signora Dolcemare. Con il trapasso, questo titolo è stato assunto dalla moglie di Nivasio, Maria. Nivasio Dolcemare avverte questo passaggio come una deposizione, e questo è il dramma. Il narratore, a questo proposito, si esprime così: “La sua persona occupava la porta dell’avvenire e la precludeva altrui”. Tutto ciò induce a emettere già, se non una sentenza, almeno una presa d’atto: qui, è vero, aleggia un fantasma ma c’è anche un Complesso di Edipo. La relazione tra Nivasio, il figlio, e il fantasma, la madre, è la diade mortifera incistata nella storia. Tutto, tutto è fumo negli occhi, se paragonato all’Edipo. La cena è finita, Nivasio Dolcemare si ritira nel suo studio per crogiolarsi nelle lodi di alcuni suoi lettori. Sente un lamento fioco e triste. Gli ritorna in mente la lunga agonia della madre. Nivasio Dolcemare insegue il lamento e scopre, accanto al suo studio una stanza di cui ignorava l’esistenza. Entra. Dentro trova, vede una gallina piccola piccola. La stanza ignorata cosa può essere se non l’inconscio? Nivasio Dolcemare, lì dentro, passa allo stadio di pulcino e resta con la piccola gallina che nel lamento dice parole frammentate (in cui la parola madre si riduce alla parola ade). La gallina (post mortem: la madre) e il pulcino (ante mortem: il figlio) sono la circolarità, il compimento assoluto dell’Edipo.


Massimo Grecuccio vive e lavora a Lecce, dove insegna matematica in un liceo. Ha il vizio della lettura anche di saggi. Tanti anni fa (1997) ha pubblicato un libricino di versi (Minutame, Manni editore). Occasionalmente scrive brevi interventi critici su autori di versi della sua provincia e sull’arte visiva.


Uovo Benedetto

di Sara Passannanti

C’è qualcosa di molto disturbante nel racconto di Savinio, qualcosa che va al di là del sentirsi soltanto figlio, di sentirsi mancante davanti alle aspettative dei propri genitori. Qualcosa che va a sfiorare l’incesto e che in Mia madre non mi capisce riesce a trattenersi sulla soglia, evocando un parto indiretto, dalla gallina all’uovo e dall’uovo al pulcino.

Mi soffermerò solo su questo aspetto, benché il testo offra tantissime occasioni di meraviglia e, per parte mia, di godimento. Ma l’oscillazione tra moglie e madre è quella che più di tutte suscita sgomento, a partire dalle descrizioni dell’una che sono sempre speculari a quelle dell’altra.

Da un lato una madre che è monumentale, la sua è descritta più volte come maestà, anche sottilmente: persino il momento in cui Nivasio inizia a notare un rantolo provenire dall’altra stanza è quello in cui abbiamo un richiamo al gioco regale per eccellenza, gli scacchi, con il signor Cavallo da Marghera*. La moglie, al contrario, la vediamo in un’istantanea molto prosaica, con «la testa irta di papigliotti» e «la faccia unta di crema».

Ma la monumentalità della madre, oltre che maestosa, ci appare ingombrante: «La sua persona occupava interamente la porta dell’avvenire e la precludeva altrui». In questa frase sta tutto il senso del racconto, e ancora una volta a fare da contrappunto alla madre, è la figura di Maria che, «scintillante di gioielli», lascia invece trasparire la luce, come una lente d’alabastro, «illuminata in trasparenza da una luce interna».

E infine il racconto scivola nell’onirico, ed è grazie al buio nebbioso che Nivasio può vedere «l’altro aspetto delle cose»: di nuovo la morte come un parto al contrario, in cui chi agonizza non chiede di essere trattenuto indietro, ma chiede di essere spinto verso l’altra parte. Allora, anche lui come in una nascita al contrario, rientra nel suo uovo, la sua stanza d’infanzia, rinuncia a quella che «credeva» la sua vita. Piange, e nel suo pianto si riflette il lamento della madre, e a noi rimane l’impressione che sia infine lui a pigolare «I…ono…tu…iio» come massima affermazione possibile di sé.


Sara Passannanti, palermitana trapiantata a Torino.
Dopo un passato remoto da ingegnera, un’intercapedine in cui ha insegnato fisica, e la partecipazione al nostro corso di lettura e editing Apnea, oggi lavora per alcuni service editoriali come redattrice freelance. Guida un gruppo di lettura nel suo quartiere e collabora con la Libera Università dell’Immaginario. Da diversi anni fa parte del comitato di lettura di un premio nazionale per scrittori esordienti.

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