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Efecto boomerang. Come la critica di Raboni a Borges finì per ritorcersi contro

di Martina Ásero

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di critica della critica: dove si critica Giovanni Raboni che a sua volta aveva criticato Jorge Luis Borges]


Un uomo che si dedica per anni alla traduzione di un’opera labirintica come La recherche proustiana non può che indurre chiunque si accosti al suo cospetto a una genuflessione o, in caso di dolori articolari, quantomeno a una levata – e non metaforica – di cappello. Tuttavia, anche Dante Alighieri, pur avendo composto uno dei massimi capolavori dell’umanità, non era esente da asprezze ideologiche e comportamentali che rendevano la sua compagnia assai poco piacevole in ambienti svariati; così Raboni, inzuppato il suo cornetto alla crema nel cappuccino, lascia scoccare una freccia avvelenata contro Jorge Louis Borges, sottostimando l’effetto boomerang di certi dardi ricurvi.

L’opera borgesiana viene ridotta a due esigui e singolari capolavori, i racconti di Finzioni e l’Aleph, e anch’essi appaiono sminuiti all’essenza di una macchinazione narrativa tanto lucida quanto semplice, al punto da poter essere memorizzata e riproposta nel bel mezzo di una cena fra amici a mo’ di barzelletta. Niente a che vedere con i lavori impareggiabili di Stevenson e Kafka, che per essere goduti vanno letti per intero, in quanto tutto è perfetto e l’asportazione di una sola virgola corromperebbe l’architettura del progetto sapiente. Un autore che replica sé stesso ha già detto tutto ciò che andava detto, e la sua stessa presenza risulta ridondante.

Questo potrebbe anche essere vero, per certi autori, ma per Borges, proprio per Borges,  è impossibile.

Il punto è che lo stesso Raboni non può fare a meno di utilizzare il linguaggio borgesiano per raggiungere lo scopo di denigrarne il fautore, e finisce per interpretare il ruolo dell’ateo che contempla il creato e silenzia l’Autore. Il suo pezzo comincia con un’affermazione di dichiarato sapore borgesiano, sia nel concetto (mi è capitato di pensare che possa avvenire che…) sia nella costruzione sintattica e persino nella scelta della punteggiatura, con le parentesi che sembrano aprire varchi proprio dove si pianificava di erigere un muro. Un viluppo di ipotesi, considerazioni e accostamenti aggettivali scelto per suscitare un rimpianto ammantato di malinconia, tutto squisitamente sudamericano. È lo stesso Raboni a cogliere la borgesianità del suo costrutto, forse anche con un discreto compiacimento per la non troppo velata ironia. Ma se il primo riferimento può anche essere opportuno, sul secondo la già labile impalcatura crolla. Personalmente, sono a volte tentato di supporre (e anche questa, in fondo, è un’idea borgesiana: Borges è contagioso, inutile negarlo…) che Borges, in realtà, non esista, che sia un personaggio inventato dall’inconscio collettivo dei letterati europei. Così il dubbio insinuante che la realtà sia vera si inerpica pure nelle interrogazioni del critico che, seppur cerchi di divincolarsi, con dei tardivi scherzi a parte, dalla colla che lui stesso ha emesso, se ne ritrova impastoiato.  Forse, ciò che sfugge a Raboni è l’imperscrutabilità celata dietro l’apparente libro facile, quella stessa trasparenza e non convenzionalità  che in un articolo del 1995 pubblicato sul Corriere della Sera gli faceva definire Pier Paolo Pasolini capace d’essere poeta in tutto, nella critica come nel giornalismo, nella filosofia come nel cinema, così in tutto, tranne che nella poesia. In Borges, che era filosofo in narrativa, romanziere in poesia e poeta nella saggistica, non rintraccia i confini, e anziché interrogarsi sulle possibilità di essere universale in forme inedite, riduce il suo lavoro a gelatina intorno al pollo in gelatina.

L’ipovedente pare essere lui, che accusa l’argentino di aver cosparso i propri testi di cartelli segnaletici per indicare la strada ai viandanti, quando lo stesso Proust da Raboni così – giustamente – amato usa tale tecnica, e in modo persino più sfacciato. Cos’è la metafora del fiore femmina e del seme al principio di Sodoma e Gomorra se non un gigantesco segnale stradale sulla direzione che prenderà il volume? E il farsettaio Jupien in postura impettita, con la civetteria di un’orchidea all’arrivo del calabrone, non è forse una mise en ebîme delle cinquecento e più pagine che verranno?

A conti fatti, se uno scrittore ha forgiato – riplasmando materiale già esistente, e per sua stessa ammissione in modo ovvio, in quanto tutto ciò che si crea oggi è un rimodellamento di quanto l’antico ha già provato – un’immagine, un topos, una suggestione o un neoarchetipo e gli ha dato la forza sufficiente a diventare dialogante, tale scrittore ha già compiuto molto del proprio destino. Non credo sia un caso che il romanziere Tanizaki Junichirō, che ha condiviso in buona parte con Borges la propria porzione di anni terreni, pur non avendolo probabilmente mai incontrato, abbia scritto nel 1933 Libro d’ombra e che poco prima fosse uscita in Italia una raccolta di poesie di Jorge Luis Borges dal titolo quasi sovrapponibile: Elogio dell’ombra. Entrambi pongono al centro questioni estetiche e letterarie. Cos’avevano in comune i due letterati? Quasi nulla, se non che María Kodama, a lungo segretaria, poi  dispensatrice di occhi alternativi per il quasi cieco scrittore, avesse un padre giapponese. Ma le loro opere dialogano, separate da un oceano e da strutture sintattiche radicalmente diverse, e creano una costellazione condivisa che è il frutto di un sentire donato, un’essenza e una perspicacia propria di quei letterati eredi di una parabola antica: il poeta – e lo erano entrambi – vede quello che gli altri non vedono e si sintonizza su frequenze non udibili da tutti gli esseri umani. Resta il fatto che queste visioni vengono propagate dagli spiriti gentili senza nulla in cambio, anzi, ne ricevono talvolta un ingeneroso rinfaccio, come è accaduto stavolta. Peccato per Raboni che se Borges avesse letto le sue parole (la grande letteratura vive in una dimensione opaca e faticosa cui essa stessa dà vita, dove piacere e dolore, oscurità e sapere s’intrecciano lentamente, centimetro dopo centimetro) si sarebbe concesso una risata saporita, rintracciando nella precisa descrizione del critico nulla più che la propria firma. E con il bastone fra le dita e lo sguardo già altrove, si sarebbe domandato chi fra i due fosse il cieco.


Martina Ásero gestisce un centro di formazione artistica in Sicilia e cura il canale YouTube dedicato ai libri Ima AndtheBooks. Insegna lettere alle scuole medie. Ha pubblicato narrativa per Caravaggio Editore, Centoautori e Nous. 

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