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Specchio riflesso, signor Borges

di Carmen Verde

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di critica della critica: dove si critica Giovanni Raboni che a sua volta aveva criticato Jorge Luis Borges]


È borgesiana la stroncatura che Giovanni Raboni fa di Jorge Luis Borges? Lecito domandarselo, dato che è Raboni stesso a chiederselo (facendoci tornare in mente, fra l’altro, che il primo a dire “Ne ho abbastanza di Borges” fu Borges stesso). La risposta è: no, lo spirito con cui Raboni smonta l’Omero argentino non è borgesiano. Non ne ha la postura di statua. E però, dato che com’è noto sempre i sentieri si biforcano, la risposta è anche: sì, la stroncatura di Raboni è borgesiana, e in un modo birichino.  

A Borges i detrattori non sono mancati mai: restando in casa sua, il porteño Roberto Arlt (“Scrittori che hanno una fama superiore ai propri meriti? Borges, certo, benché ancora non possegga una sua opera”); e, siccome leggenda vuole che segretamente i due si amassero (“unire Borges e Arlt è una delle utopie della letteratura argentina”, scrive Ricardo Piglia), come dimenticare allora Ernesto Sabato, il preferito di chi scrive nonché l’unico capace di mettere Borges in seria difficoltà sul suo stesso terreno del ‘sogno’ (se non anche su quello dei ‘ciechi’). In Europa, tra gli altri, Elias Canetti: “Borges non mi piace affatto. Non cozza con la pietra. La blandisce”, così scrive in uno dei suoi appunti.

Senza deprezzare i precedenti, ciò che affascina del frizzante elzeviro raboniano è tuttavia il modo con cui Raboni organizza e sferra l’attacco alla fortezza.

Conosce, Raboni, il potere di calamita delle metafore borgesiane e sa anche che, per togliere di mezzo Borges, non basta denunciare l’ossessiva presenza dei ‘labirinti’ nelle sue pagine: nel teatro di Skakespeare le immagini ricorrenti non diminuiscono l’emozione, anzi; e, in musica, i ‘motivi’ delle opere wagneriane non (sempre) stufano.

Conviene aspettare. E allora, evitando di andare a rompersi la testa, allinea sotto gli occhi del lettore i nomi di Kafka, Beckett e Céline. Il perfido, squisito attacco lo muove direttamente dall’interieur della biblioteca. E trattasi di attacco libresco terribile. Far rivaleggiare Borges con Kafka… In una quadreria, lo stesso effetto lo farebbe mettere un Guttuso accanto a un Goja.

È mai stato disperato Borges? mi sto domandando a questo punto della lettura del pezzo (e mi chiedo se me lo sono mai chiesto prima). La sua tristezza morbida e vanitosa conosce la confusione dei sentimenti, sa che ‘si cerca gemendo’? E che confidenza ha con l’eternità tutta terrena dell’amore, con la voluttà di essere un relitto? Mi è appena tornata in mente una sua frase che mai mi ha convinta fino in fondo: “Leggere è un’attività successiva a quella di scrivere: più rassegnata, più civile, più intellettuale.” Esattamente, Borges che intendevi dire con ‘rassegnata’?

Forza Raboni, non farti attendere. Spiegami perché Jorge Luis Borges mi sta antipatico e non lo sapevo. Dimmi perché il doppio borgesiano non ha (non ha avuto mai) il dono prezioso dell’ambiguità, e perché la labirinto-mania – che ai beati tempi tuoi non aveva anche l’equivalente in salsa emiliana di Franco Maria Ricci, il labirintuccio il cui biglietto d’ingresso è oggi assai salato – da sola non è titolo sufficiente per la letteratura.

E soltanto a questo punto Raboni, che ben conosce e coltiva il senso dello sviluppo della pagina, indica birichino ai miei occhi, uno dopo l’altro, gli orrendi “cartelli segnaletici: attenzione, labirinto; attenzione, sistema di specchi; attenzione, trasformazione del personaggio nel suo doppio, della veglia in sogno, e così via”. Ecco cos’era! Lo vedo adesso gli escrementi d’insetto, quel continuo ‘nominar le cose’ che stanca…

Con genialità tutta rabonesca, in finale d’elzeviro, Giovanni Raboni conficca così nella testa di noi lettori i medesimi cartelli segnaletici tanto amati da Borges. Potremo più leggere lo scrittore argentino senza pensare “attenzione, labirinto; attenzione, sistema di specchi; e così via”? No, non potremo.  E, soltanto a pensarci, in quei labirinti perfetti “segnalati come le curve e le cunette sull’autostrada”, tutti così imparentati con Il Labirinto Centrale Borgesiano, quasi quasi (bel colpo, Raboni) non ci va più di scrutare.   

Specchio riflesso, signor Borges.


Carmen Verde vive a Roma. Ha scritto Una minima infelicità, 2022, Neri Pozza.

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