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Ma Borges non è un orologiaio del racconto

di Giuseppe Cofano

[dal nostro corso di critica letteraria a cura di Matteo Marchesini, un esercizio di critica della critica: dove si critica Giovanni Raboni che a sua volta aveva criticato Jorge Luis Borges]


Jorge Luis Borges è stato tra i volti letterari ante litteram del postmoderno. I suoi giochi di labirinti, finzioni, specchi, di infinite ripetizioni e di esplorazioni libresche, al centro dei più celebri racconti pubblicati già negli anni quaranta, sono diventati, qualche decennio dopo, il simbolo per eccellenza di una teoria filosofica e di un gusto letterario e artistico che ha inteso eliminare concetti ingombranti come la verità e la fattualità in nome della fantasiosa e libresca ode alla finzione e alla speculazione.

Questo, la sua natura di precursore e di ponte tra modernismo e postmodernismo, è uno dei motivi che hanno decretato lo straordinario successo dello scrittore di origini argentine e il fascino che le sue opere hanno esercitato presso autori di assoluta rilevanza (in Italia, per citarne qualcuno, due pesi massimi come Italo Calvino e Umberto Eco, il quale addirittura nel suo romanzo più famoso, Il nome della rosa, omaggia Borges rendendolo un personaggio chiave della storia e del simbolismo sotteso).

Tra questi ammiratori non c’è, però, il poeta e critico Giovanni Raboni, che in un intervento del 1986 per L’Europeo definisce Borges un «eccellente specialista e virtuoso», ridimensionandolo a interprete di un sottogenere del fantastico che mancherebbe della dote essenziale propria dei grandissimi scrittori, cioè di quella consistenza opaca e viscosa della scrittura che è lo stemma degli immortali. Raboni giudica i racconti di Borges un vuoto e astratto divertissement intellettuale, privo di quella indispensabile corteccia imbevuta e trasudante di linfa che è propria di ogni grande opera letteraria. Secondo Raboni Borges donerebbe ai suoi lettori l’ebbrezza dell’alta letteratura, dell’alta quota, alzandosi però «di pochi metri da terra». La sua produzione narrativa sarebbe, in sostanza, un surrogato di grande letteratura, un prodotto di lusso per esteti che desidererebbero raggiungere la vertigine dell’abisso senza sobbarcarsi la fatica della pagina.

Qualche considerazione. Al di là delle gerarchie di valutazione assolute, che sono sempre molto scivolose in campo letterario, fa intanto riflettere, con l’occhio di oggi, l’analogia tra la tesi sostenuta da Raboni e una categoria che è molto attuale, quella della “letteratura di nobile intrattenimento” (teorizzata dallo studioso Gianluigi Simonetti), cioè la nuova forma della narrativa midcult capace, con adeguati e furbi accorgimenti, di fornire l’ebbrezza della vertigine sublimante. Quello che oggi appare come un grande classico moderno, un autore di indiscutibile spessore, poteva apparire a Raboni, poeta che si richiamava a ben altre concezioni rispetto a quelle postmoderne, un impostore magnificato oltre i propri meriti. Fa riflettere anche l’accusa, velata ma chiara, di costruzione del personaggio mediatico, del mito autoriale, quello dell’oracolare bibliomane fatalmente destinato alla cecità come tutta la famiglia: anche qui non si possono non scorgere i parallelismi con una tendenza dell’editoria che oggi ha raggiunto altra diffusione.

Ma Borges è stato molto più che un seriale orologiaio del racconto. Il senso di disperata e lucida ricerca intellettuale, il motivo dell’inseguimento implacabile alle pagine disperse di un raro volume, per esempio di un tomo dell’Enciclopedia Britannica, come quest esistenziale, ha influenzato autori disparati: un nome su tutti, celeberrimo, quello di Bolaño, a cui di sicuro il senso dell’amore, della paura e di tante altre umane passioni, altro rimprovero di Raboni a Borges, non manca. E la cifra stilistica dello scrittore argentino, la sua inconfondibile voce lucida e dottamente allusiva, resiste molto meglio di quanto Raboni pretenderebbe alla prova del riassunto, della riduzione alla pura storia.

La varietà con cui Borges nei suoi racconti padroneggia le sottili inversioni di prospettiva, i rovesciamenti dello sfondo delle vicende umane (del cielo e della terra), gli scarti narrativi, i richiami circolari e le infinite ripetizioni, passando dal mito di Omero al nazismo come abisso del male novecentesco, ha questo di caratteristico: che non si scorge il meccanismo dell’ingranaggio, quello che Raboni vorrebbe perfetto e visivamente nitido. E questo fa la differenza tra un grande scrittore e un eccellente specialista: il fatto che alla fine della lettura i suoi racconti lascino un senso di spaesamento, di turbamento che deriva dal non avere capito il principio che ne sta alla base.

Il sospetto, a dirla tutta, è che Raboni, nel prendersela con i racconti cesellati di Borges, stia in realtà prendendosela proprio con il postmoderno, con le astratte speculazioni (i giochi di specchi) in cui spariscono l’amore, la gelosia, la paura, la gamma di sentimenti umani che sarebbero per lui il nucleo fondante dell’arte. E che quindi stia sostanzialmente confessando una propria personale idiosincrasia. Legittima, rumorosa, ma tutta contenuta nel gioco infinito (infinito alla Borges, e torniamo circolarmente a lui) della letteratura.


Giuseppe Cofano è ingegnere informatico appassionato di letteratura. Pubblica sul suo blog personale L’Incompetente articoli di critica, recensioni e interviste ad autori.

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