lettura, non prenderla come una critica
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Non prenderla come una critica – “I giorni felici” di Teresa Ciabatti,

di Daniele Campanari

Da dove si parte

Ai tempi del successo ricercato nei talent show non sorprende che il sogno di una bambina di pochi anni sia partecipare allo Zecchino d’Oro.
Come non sorprende che ad accompagnare questa bambina, tenuta per mano nei corridoi della Rai, ci sia un padre padrone del suo destino – o almeno di quel destino che si vorrebbe compiuto: perché la bambina, si dice, è un talento e diventerà una star internazionale.
Non sorprende tutto questo, né l’attaccamento magnetico di un genitore che vede nella figlia una possibile macchina da soldi e il successo che non ha ottenuto in una vita iniziata da infante e proseguita in giacca e cravatta. Una forma di psicologia riconosciuta nell’insoddisfazione. Di conseguenza molto è conteso nello stare bene grazie agli altri, tanto che non si capisce, difettuccio, se il protagonista de I giorni felici di Teresa Ciabatti (Mondadori) sia il padre o la figlia.

A soli sei anni Sabrina Mannucci sapeva suonare il violino, scrivere, leggere (libri per adulti e giornali), cantare; conosceva arie di operette, autori e titoli dei più importanti romanzi dell’Ottocento; era in grado di sommare, sottrarre e moltiplicare cifre a tre zeri (la divisione invece era una scocciatura); possedeva una collezione di francobolli di cui sapeva illustrare anno, città e disegno. E poi c’era quel dono: lei sentiva che tempo avrebbe fatto il giorno dopo. Per la verità, era stato il padre a metterglielo in testa, suggestionato dalla storia di Rosa Kuleshova, una piccola russa che aveva fatto parlare di sé il mondo intero per le sue capacità paranormali.

Siamo al principio, l’inizio della storia che si apre – ovvio – con una descrizione. Generalmente le storie sono accompagnate dagli appunti dello stato d’animo, dalla rivelazione del paesaggio o dalla forma di una figura; in questo caso ci troviamo sotto un metaforico arco in cui si chiede di guardarne la struttura prima di percorrere la via della narrazione, aspettare per conoscere il prodigio della bambina con una fotografia che, se non soddisfatti dall’immaginazione, è possibile vedere in copertina: gambine incrociate, abitino elegante, sorrisino sdentato; si prepara a un inchino.

Abuso sessuale o no? No. (Puntini sospensivi)

Più avanti, archiviato l’esordio descrittivo e penetrando nel romanzo, da un dialogo si mostra il capriccio della mocciosa – termine adatto all’antipatia suscitata dalla bimba – che, come da programma, punta a essere la migliore al mondo. È un dialogo che potrebbe essere frainteso se escluso dal contesto, comunque caratteristico per il comportamento del personaggio. Ciò che accade, allora, è un colpo di scena: saremmo di fronte a una molestia. Per di più su una minorenne.
Così dichiara la bambina, è lei a dire di aver subito un trattamento irrispettoso attraverso un breve e stilisticamente corretto scambio di battute col padre. Si sa che i piccoli dicono bugie – non meno degli adulti – quando potrebbero ottenere qualcosa di buono. E la bambina in questione cavalca la sua stella con un’accusa brizziana (da: Brizzi – Fausto – per intenderci) in assenza di prove:

“Sabrina, cosa è successo?” – domandò Riccardo, allarmato.
“Il maestro” – mormorò lei.
“Il maestro cosa?”
“Papà, il maestro Rescigno mi ha molestata.”

È una bugia posta volontariamente a fine capitolo per sospendere il lettore tra il vero e il falso, il detto e il non detto. Dunque già dalla pagina successiva è risolto il dubbio: non si consumano abusi in questa storia. Quella della bambina-Ciabatti è soltanto una vendetta, del tipo: Non mi fai diventare qualcuno, allora dico che sei cattivo. L’intento è attirare l’attenzione sulla – povera – bambina. Così viene tolto il senso del giudizio ora tramutato in sensazione scandita da una discutibile interpunzione:

E sai cosa? Era molto meglio così, che lui morisse! […] Quante bugie gli aveva detto solo per non deluderlo! Papà, non è colpa mia, è il sistema… ha vinto Arturo Vicari […] Perché lo zio è amico del direttore… è successo mio malgrado, loro mi odiano!…

addirittura puntoesclamativopuntisospensione tutto attaccato.
Non è un dialogo che giustifica la ricerca della parola da dire, l’attesa della risposta da parte del cervello umano che determina l’azione; si tratta di un’apertura del capitolo: cinque righe singhiozzanti alle quali sembra essere andato qualcosa di traverso. L’intenzione narrativa sarebbe rivolta all’attesa, appunto, una specie di suspense tra… una… parola… e… l’altra…, magari volendo suscitare curiosità. Invece ciò che salta fuori è nervosismo, che si trasmette al lettore.

ciabatti i giorni felici

L’ego dei risorti

Stavano apparecchiando per la sera. Riccardo aveva voluto
che tutto si svolgesse in modo normale: la cena, l’albero,
i regali ai bambini. Così loro si erano divise i compiti. Sabrina aveva anche fatto l’albero – riposte nel controsoffitto c’erano le vecchie palle e il puntale di quando erano piccoli –
e ora aiutava la madre. Con zio Claudio e Anna sarebbero stati dieci.
“Su, anche tu sei stata piccola” ribatté Mariolina.
“Ero molto educata, tanto per cominciare.”
“Ma avevi il tuo bel caratterino.”
Sabrina scosse la testa. “Che poi Lapo ancora ancora, ma lei… tu lo sai che quella bambina crescendo andrà incontro a seri problemi, vero?”
“È identica a te da piccola. Lo stesso carattere.”
“Non dire eresie.”
“Lo dicono tutti! Sembra figlia tua.”
Sabrina fece una smorfia inorridita. “Quella bambina
è capricciosa.”
“Sei cattiva.”
“Sono realista, mamma. E mi convinco sempre di più
che la scelta di non avere figli sia la migliore, considerata anche la società di oggi.”

In I giorni felici c’è la generazione attuale – nonostante il libro sia stato pubblicato dieci anni fa – la generazione dello spettacolo, quella che vorrebbe essere riconosciuta per strada a tutti i costi, al costo di vendersi la famiglia. È la stessa generazione della modernità liquida ampiamente discussa dal sociologo Zygmunt Bauman in cui ogni uomo o donna si sveglia al mattino cercando nei cassetti la strategia per soddisfare il proprio ego.

E quindi ecco il padre: uomo adulto, maturo, con un incarico attivo in Rai e una faccia tosta nemmeno intimidita di fronte a Ettore Bernabei, intellettuale di lungo corso al quale scrive una lettera di presentazione e di fronte al quale non dimostra alcuna percezione della realtà quando scendendo dall’auto gli si avvicina pensando di essere ricordato per un episodio passato, tranne restarci malissimo quando si accorge che Bernabei non lo riconosce. Al lettore si restituisce così un particolare senso di inadeguatezza, che lo umanizza.

Chiaro che da una bambina non ci si aspetta un atteggiamento simile, ma la Ciabatti tenta comunque di estremizzare il suo caratte – si riferisce a sé stessa, probabilmente, come già accaduto in altri libri; per quanto si voglia smentire, non c’è barriera tra realtà e finzione – l’unica tra le bambine sul palco dello Zecchino d’oro a distinguere Cino Tortorella dal Mago Zurlì seppur si tratti della stessa persona, l’unica che dopo l’esibizione sogna l’applauso di Corrado Mantoni. Personaggi ai quali si aggrappa per realizzare il desiderio di essere famosa.

Ecco, era arrivato il suo momento. “Corrado, amico mio, mettiti comodo e ascoltami bene, senti questa voce straordinaria e dimmi pure che sono la più brava del mondo! Batti le mani e pregami in ginocchio di venire in trasmissione. Prendimi in braccio e lanciami in aria felice. Abbracciami, baciami e salta per la stanza urlando: ‘la Shirley Temple italiana!’. E poi Corrado, per favore, asciugati quelle lacrime di commozione che hai versato mentre io cantavo”.
Su questi pensieri lei socchiuse gli occhi e immaginò migliaia e migliaia di persone davanti. Trasse un respirone e poi, con un filo di voce, iniziò. Le prime parole le uscirono flebili, poi prese sicurezza e alzò il tono. Mai aveva cantato con tanta energia. Mai aveva fatto simili acuti.

Morti in diretta

I giorni felici è un romanzo che parla, inoltre, della spettacolarizzazione della morte. È il programma Chi l’ha visto a entrare in scena come il preferito del padre Riccardo, con la tivvù di oggi che fa la statua ai morti. Meglio se in diretta. Su questo palcoscenico di perenne attesa, identificativo della vita comune, fanno la loro apparizione Denise Pipitone, Natascha Kampusch, Tommaso Onofri, Francesco e Salvatore Pappalardi protagonisti dell’esaltazione della gente, nomi talmente noti al pubblico che potrebbero essere scambiati per rockstar, scomparsi e mai più ritrovati o trovati ossa. Così il romanzo ricorda che la morte in tivvù è attraente seppure raccapricciante, una roba social.

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photo by rachel park on unsplash

Lo dice la Ciabatti con la sua scrittura che come fosse originata da una pala sposta la terra dalla superficie tirando fuori quello che c’è sotto, riaffiorando una civiltà nascosta tra le pieghe del cervello. Il perché del romanzo va ricercato sotto la luce dei riflettori, sopra la tavola imbandita dove ci si accorge che non è possibile ottenere tutto quello che si vorrebbe. A maggior ragione se ci si trova a un centimetro dalla morte. Questo è chiaro dal principio, da quando con la descrizione sensazionale del prodigio si capisce che quella raccontata è una storia vera, sì, comunque piena di fantasia al pari della vita.

Nelle trecento pagine e oltre che fanno I giorni felici è evidente perché molto della narrazione viene dedicato alle azioni compiute dai personaggi: si tratta di un invito a non restare impalati tra le mura di una stanza; meglio armarsi, partire e lasciare giudicare il proprio talento. Tutto accompagnato da una escalation di dialoghi facilmente assorbiti durante la lettura, dialoghi assorbenti che trattengono lo stile scorrevole e mai sopra le righe del romanzo.

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