intervista a cura di Marco Terracciano
La madre di Eva (romanzo inserito nella dozzina finalista della passata edizione del Premio Strega) è il tuo esordio letterario: come hai vissuto l’esperienza dell’editing?
Mi fa molto piacere parlarne, perché la mia esperienza è stata da un lato estremamente interessante, dall’altro piuttosto difficile. L’editing in sé non è stato invasivo, anzi, abbiamo lavorato di cesello. La struttura del libro è rimasta identica, così come i capitoli. Credo che se un lettore leggesse il prima e il dopo non noterebbe la differenza, almeno in termini di composizione interna. La verità, però, è che la differenza c’è ed è notevole, dal momento che è stato fatto un grande lavoro di pulizia e asciugatura su una scrittura peraltro come la mia già piuttosto secca e cruda. Ogni tanto c’era qualche scivolone, qualche voragine di poeticità che andava contenuta, un eccesso di enfasi in alcune scene chiave. Apparentemente un lavoro di questo tipo non sposta nulla, ma è chiaro che se si limitano certe ridondanze, certe cadute di stile, cambia completamente il ritmo del romanzo.
Credi che il lavoro di asciugatura sia stato fatto per valorizzare la tua scrittura o per tenerla a bada?
Il lavoro di un bravo editor è quello di sapere qual è la direzione del testo e cercare di condurre tutto il lavoro in quella direzione lì, che è poi la direzione intrapresa il più delle volte dallo stesso autore. Il mio romanzo ha tratto grande beneficio dal lavoro di editing, ma un’operazione di questo tipo non avviene mai senza ferite e difficoltà.
Dici “ferite”. Perché?
Ci sono delle cose a cui gli autori sono molto legati (parlo di frasi o intere scene, a volte perfino di virgole) e spesso lo sono in maniera errata, per cui è giusto che le lascino andare. Ci sono altre cose che invece è giusto che restino lì, al loro posto e nella loro forma di origine. Allora qual è la differenza? Come fare a riconoscerla? Io a volte mi trovavo a dire al mio editor frasi del tipo “questa cosa voglio che resti qui, dimmi che va bene!” nonostante lui mi avesse già consigliato di eliminarla. Ma avevo bisogno della sua approvazione perché avevo paura di contraddire le sue posizioni, e nello stesso tempo volevo fargli capire che da autrice sentivo l’importanza di una parola, di un ritmo, di un aggettivo, un’importanza che forse lui non poteva afferrare. Più di tutto volevo che capisse il valore di alcune soluzioni formali, e in nessun modo mi andava di imporre le mie scelte. Non perché non potessi farlo, sia chiaro. Solo non volevo che cedesse, volevo che approvasse. Certe volte ci riuscivo, ed ero contenta perché lui veramente mi dava l’impressione di aver capito. Certe altre non ci riuscivo, ed era più frustrante. In entrambi i casi, tutto sommato, i compromessi mi hanno sempre lasciata soddisfatta.

foto di chris barbalis
Puoi farmi qualche esempio concreto?
Ti faccio un esempio sciocco. A un certo punto, a chiusa di un capitolo, la madre dice «e poi scendemmo in corsa fino a qui». Il mio editor mi diceva “non si può dire in corsa, si dice di corsa”. Sosteneva sarebbe stato letto come refuso. Io però ero legata a quell’espressione, per me lo scendere in corsa era scivoloso, andava giù con loro, vedevo questi piedi e queste mani che si aggrovigliavano, invece scendere di corsa mi sembrava inutile, ma soprattutto non aggiungeva un’immagine. Forse su queste cose ci siamo un po’ scontrati in alcune occasioni, ed è inevitabile quando si è alla prima esperienza. Allora secondo me l’editing da qualche parte lascia sempre piccole ferite e cicatrici.
O qualche pezzo di immaginario per strada. In un’intervista che ti è stata fatta hai parlato del momento in cui questa storia ha cominciato a ronzare nella tua testa, e poi ne hai descritto il viaggio che ha fatto dentro di te. Dei turbamenti e delle ossessioni che questo ha comportato. Un immaginario non è fatto solo di episodi e storie, ma anche di enigmi, di simboli, di immagini appunto, e di soluzioni semantiche che aiutano a dare una forma linguistica a queste immagini. Quanto è difficile trasmettere il proprio immaginario a un editor?
È molto difficile. Ed è un lavoro che un editor dovrebbe fare in punta di piedi perché si tratta di aprire una porta delicatissima e far entrare un estraneo che comincia a mettere sbreghi sulla tua carta immaginaria, dicendo “questo no, questo no”. Il mio editor era così, molto duro sotto quest’aspetto. E deciso. Io avevo un immaginario che, attenzione, era quello di una madre. La storia di cui venni a conoscenza mi aprì le porte di un mondo nuovo, certo, ma dentro c’era anche la mia storia, perché io ho scritto quel libro, e l’ho scritto in quel modo, perché sono una madre. Non avrei scritto lo stesso libro se non lo fossi stata. Il mio editor è, al contrario, un uomo che non ha figli e che ha tutto un altro tipo di sensibilità. Da qui certi attriti. Eppure credo che, da un certo punto di vista, questa situazione abbia un grande risvolto positivo perché l’editor è anche un caterpillar che ha il compito di abbattere quel che c’è da abbattere. Da un altro punto di vista la mia sensibilità è stata fortemente condizionata e indebolita, nel senso che io a un certo punto avevo il terrore di mandargli le bozze e di parlarne, temendo un giudizio perentorio. È vero, più ci penso e più mi rendo conto di aver avvertito una sorta di invasione, ma ero alla prima esperienza e con un desiderio incredibile che questo libro uscisse dall’editing nel miglior modo possibile, con molta poca fiducia in me e molta più fiducia in lui che era così bravo nel suo lavoro. Ho permesso quindi che in certe circostanze entrasse a gamba tesa nel mio immaginario e sì, non è stato indolore, ha portato a disaccordi, discussioni vivaci. Ma io non ho mai pensato che non fosse adatto a questo editing, e non immaginavo un editor diverso, non avrei mai chiesto di cambiarlo e credo che se il romanzo ha una forma che funziona, molto è anche merito suo.

foto di florian perennes
Forse c’era bisogno di questo scontro tra immaginari.
Forse sì, per limitare gli eccessi in cui sfociava il mio e rendere il libro più universale e adatto a tutti. Per questo dico che il romanzo ne è uscito con una grande forza. Ho capito tutto ciò solo dopo la pubblicazione, col tempo, ed è stato doloroso. Se io avessi saputo prima che l’editing fa parte anche di questa cosa che tu hai un immaginario e un intimo da aprire e non ti devi sentire colpito o ferito, sicuramente l’avrei apprezzato di più in quel momento.
E allora, se fossi tu editor, come ti comporteresti con un esordiente?
È una domanda bellissima, ma a cui non ho risposta. L’ultima cosa che farei nella vita è l’editor. Mi sembra un lavoro così delicato che io non avrei mai il coraggio, ecco, di aprire la porta di un immaginario e di una sensibilità a me estranei, e metterci le mani. Forse perché sono stata una scrittrice, sono una scrittrice, so cosa c’è dentro, quanti anni di lavoro, quali rovelli, quali pianti, quali storie. Ho negli occhi l’immagine di me che entro in una stanza e comincio a buttare a terra di tutto, e questo, a volte, può davvero essere una forma di violenza. Per fare l’editor devi avere la pelle dura, devi essere una persona che non teme il giudizio degli altri. Io, che ho un’autostima molto bassa, passerei le giornate a scusarmi per questa o quella correzione, per questo o quel giudizio. Quindi la mia risposta può essere: non riuscirei mai a calarmi nel ruolo. Se invece qualcuno mi chiedesse di aiutarlo a scrivere un romanzo, be’, anche in quel caso mi sentirei poco adatta. So come comportarmi per tirar fuori il meglio da me, ma fare lo stesso con il lavoro di qualcun altro è un’operazione molto complessa.
Per concludere il discorso sulla figura dell’editor, credo che un bravo professionista debba avere, oltre alla pelle dura e alla conoscenza letteraria, anche una certa maturità di vita: l’editor che impara il mestiere a scuola ha bisogno di vivere un po’ prima di esercitarlo, e non sono solo sui libri e leggendo i libri.
foto di copertina di daniel jensen