perché scrivo, scrittura
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La scrittura è un fantoccio appeso sopra la mia testa

di Beatrice Galluzzi

L’ossessione per le parole è nata assieme alla smania del non poterle usare. Tra i banchi di scuola, costretta a un silenzio riverente, incapace nell’osservanza delle regole più elementari, quelle dello stare ferma e zitta. Nella perenne distrazione dai discorsi di cui intravedevo il significato, e che fluivano dalle labbra di maestre pazienti e volitive. Così come si conviene, dovevo stare attenta e partecipare, interloquire, rispondere. 

E invece, scrivevo. 

Più nozioni venivano messe in cattedra più il pensiero si dispiegava in diramazioni che non potevo fare a meno di imboccare, senza mai scegliere la strada che mi portava indietro, ma accelerando il passo.

Come forma, la mia scrittura è cominciata in rima. Reduce da pomeriggi passati ad annusare l’enciclopedia dei Quindici, alternando filastrocche a detti popolari, costruivo poesie inzeppandole di parolacce, per poi leggerle ai miei compagni e divertirmi con loro. E ogni volta, venivo ripresa. Parla troppo, dicevano gli insegnanti, Beatrice parla sempre. Avevano ragione, ma se non avessi scritto sarebbe andata anche peggio. Sicuramente non avrei saputo che cosa farne, di tutte quelle oscenità, e mi sarei messa a gridarle in mezzo all’aula, sormontata dalla mia incapacità di saper gestire la frustrazione.

Le immagini che mi circondano mi hanno sempre fatto girare la testa come se fossi su una giostra di calci in culo. Sedili cigolanti, vuoti, sorretti da catene rugginose, senza nessuno a bilanciarli con il proprio peso; e un pupazzo in cima all’asta, pendulo e svuotato, nell’attesa vana che qualcuno lo possa strappare al suo cappio. Un fantoccio perennemente eretto sopra la mia testa, questa è per me la scrittura, un’illusione che mi limito a sfiorare con le mani, spingendomi più lontano possibile con la poca forza che mi rimane. Un’allucinazione triste e seducente, che mi tiene ancorata al suo miraggio.  

Ho sempre scritto anche senza penna. Scrivo raccontando. Faccio mie le versioni più astruse delle storie inverosimili, immagazzinate intorno a me come se avessi una telecamere azionata dietro agli occhi.

Chi mi conosce lo sa: tutto è sotto la mia lente distorta, niente è al riparo dalla mia memoria. Scrivo per paura di dimenticare istantanee perfette, quelle che celano una qualche forma di desolazione. Lo vedo ovunque, il disfacimento, le cose e le persone che si sfaldano cambiando pelle. Se incontro un uomo ricoperto di terra e sudore, chino ad allacciarsi gli scarponi, con gli occhi assuefatti alla fatica, la sua storia si dispiega in me senza forzature, e mi trasporta nel posto reale da cui egli proviene, e dentro al quale mi riparo per non cedere allo strazio della sua figura incastonata nel tempo. Quell’uomo diventa l’eroe deforme di infinite possibilità di scelta, e suoi occhi tornano limpidi, oppure si fissano, per non esserlo mai più.

Colleziono volti, espressioni, scorci, li archivio in uno spazio dedicato, senza mai prendere appunti. Sono solo le parole chiave a rimanermi impresse per riportarmi al momento che mi deciderò a raccontare. Penso a “sconfitta” e vedo quell’uomo cedere alla stanchezza e accasciarsi, penso a “resurrezione” e lo vedo lanciare le scarpe.

Ho sempre considerato le parole avvolte in una sacralità che bisogna stare attenti a non violare; le frasi scritte sono immutabili, e quindi devono essere ponderate, e al massimo della loro forma. Un periodo ben costruito è carico della bellezza spiazzante della Pietà: è una madre che piange la morte del proprio figlio in una posa di abbandono, dove il dolore diventa compiuto, plastico, permeandosi nelle emozioni di chi assiste e che ne diventa il messaggero inglorioso. 

Che la mia vita ruotasse attorno alla scrittura l’ho scoperto solo durante il periodo dell’università, quando mi sono avvicinata alla linguistica. Venivo da una scuola superiore per segretarie, in un istituto di periferia, dove eravamo abituate a scrivere solo lettere aziendali. La noia, in quegli anni, avrebbe potuto annientarmi, e invece è stato lo spazio vuoto da abitare, e nel quale mi sarei trovata a mio agio, più avanti. Passando dalla scrittura tutto diventa sopportabile, questo scoprii, e la linguistica è stato il mio modo per vivisezionare questa mia ossessione, analizzarla come si fa con il proprio passato quando ci si siede sul lettino dell’analista. Quando mi sono resa conto di studiare in mezzo a futuri giornalisti, ne ho preso le distanze, perché le redazioni dei quotidiani mi mettevano paura. Sarebbe stato troppo doloroso, per me, descrivere le cose con un’oggettività doverosa, sotto pressione, cercando di arrivare in fretta alla notizia di cronaca e metterla giù in una forma collaudata, quanto più possibile vicina alla realtà dei fatti. 

E allora, una volta laureata ho intrapreso la strada più incoerente, decidendo di lavorare prima con le barche a vela, poi nella creazione di gioielli, e infine con gli arredamenti: facendo del restyling di vecchi oggetti il mio riscatto nel plasmare il passato e stravolgerlo a mio piacimento, ascoltandone gli echi, ancor più se sotterrati sotto strati di polvere e dimenticanza. 

D’altra parte è dai tavoli rotti, dalle bambole smembrate, dalle vecchie taniche di benzina, dai personaggi che rovistano negli avanzi della loro vita, che trovo il carburante per poter cominciare una storia e portarla a compimento. 

E a quest’idea mi sono rassegnata con profondo sollievo, perché io sono la prima a mettere insieme i propri rottami per poi esibirli in piazza senza pudore. Essere cresciuta a Ostia mi ha permesso di mettere a frutto la mia incontrollata passione per le visioni marginali, i paesaggi desolanti, le pose stanche, tutte atmosfere in cui non solo mi sentivo a mio agio ma che mi hanno resa spettatrice inconsapevole di un periodo, a cavallo tra gli anni ‘80 e ’90, in cui alcune linee di progresso andavano a velocità diversa da chi le osservava. Io sono rimasta indietro, fissa da una parte a osservare le comitive aggressive di adolescenti, dall’altra la follia colorita che avevo la fortuna di vivere in casa. Una fortuna, certo, essere la discendente di un genitore bipolare, e di una casta di personalità difficili e spostate. Non potrei vederla altrimenti, questa attitudine a entrare in contatto con la follia, perché mi ha resa partecipe di episodi memorabili, paurosi e unici, regalandomi infiniti spunti narrativi, che ho traslato nelle mie storie rendendole grottesche.

Della famiglia parlo sempre — anche quando affronto argomenti che non la riguardano — e faccio muovere i protagonisti in ambienti sordidi e dimenticati: quelli a cui sono più legata. Mi sembrerebbe impossibile raccontare storie che non sono le mie, o farlo senza un minimo di alleggerimento, tentando cioè di spazzare via ogni residuo di una malinconia che altrimenti non lascerebbe spazio ad altro. 

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