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Dal minimalismo a Cobra Kai: dialoghi che riflettono il mondo

I dialoghi sono una parte della narrazione che, in fase di scrittura, arriva molto dopo la costruzione dei personaggi e dell’impalcatura narrativa. Perché, allora, do loro tanta importanza? Perché sono sempre lo specchio della storia che sto leggendo, o guardando. Un dialogo che appare “fasullo” (cosa che nulla ha a che vedere con “reale”, come dicevo qui un po’ di tempo fa) mi fa suonare subito un campanello d’allarme rispetto all’intera trama, alla costruzione della scena e dei personaggi. Perché i dialoghi sono il tramite tra me e il loro universo.

Nonostante i film ricchi d’azione mi entusiasmino sempre in veste di spettatrice, sul piano autoriale ho sempre fatto una certa fatica a “far succedere le cose”, a mettere i personaggi nelle condizioni di prendere decisioni e compiere delle scelte. Perfino nei videogiochi la parte che ho sempre preferito era il character design: le ore spese a costruire i personaggi nei minimi dettagli. Sono, come si dice, character driven e non plot driven: per me la storia è maggiormente determinata dall’arco narrativo dei personaggi e dal loro viaggio interiore piuttosto che ciò da che accade al di fuori. Il mio esempio d’elezione per spiegare questo aspetto resta sempre Sofia Coppola, autrice di storie in cui, in apparenza, “nulla accade”. Nella scrittura minimalista di Coppola nulla è reso esplicito: il linguaggio è indiretto, i conflitti sono invisibili. Il processo è lentissimo, i non detti e i silenzi sono essenziali.
Lost in Translation è la sua quarta sceneggiatura e la storia ruota attorno al particolare rapporto tra Bob, attore di mezza età in declino, e Charlotte, giovane neolaureata a Yale che fatica a trovare la propria strada. La scena del loro primo incontro è un concentrato di sottotesto: un continuo movimento che, sottopelle, rivela tensioni inespresse, bisogni e intenzioni dei personaggi. E ne svela i tumultuosi mondi interiori in contrasto con l’ambiente esterno: l’intimità si sviluppa rapidamente fra due sconosciuti americani al bancone del bar di un hotel di Tokyo, mettendo a nudo la complessità delle loro solitudini.

Bob: E tu che fai?
Charlotte: Hmm, ah, mio marito è fotografo, è venuto qui per lavoro… Non avevo niente da fare e l’ho raggiunto, abbiamo degli amici che vivono qui.
Bob: (le accende una sigaretta) Da quanto siete sposati?
Charlotte: Due anni.
Bob: Io venticinque secoli.

(da Lost in Translation, 2003)

Voltiamo pagina e passiamo a qualcosa di decisamente plot driven: sto guardando su Netflix la serie Cobra Kai. Ancora non sono riuscita a capire se si tratti di mero intrattenimento per il mio cervello stanco a fine giornata, o se effettivamente valga la pena fare un ragionamento su questo sequel di Karate Kid ambientato nella Valley odierna. Trentaquattro anni dopo gli eventi narrati nel primo Karate Kid (il cult in cui il maestro Miyagi accetta di dare lezioni di arti marziali a Daniel Larusso, adolescente che avrà, sul finale, la sua rivincita sul bullo Johnny Lawrence), la situazione tra i protagonisti è ribaltata: Johnny Lawrence è un fallimento su più fronti, mentre Danny Larusso è un imprenditore e un uomo di successo. La loro rivalità si riaccende nel momento in cui Johnny diventa mentore del giovane Miguel e riapre il vecchio dojo, dal quale la serie prende il nome. Cobra Kai, almeno apparentemente, non presenta alcuna sorpresa: non ci sono (quasi) twist inaspettati e vi è un utilizzo quasi stucchevole dei cliché sovvertiti. Il fatto è che funziona: rende palese quanto si possa ridere senza ricadere nel bullismo o pescare nell’iper-semplicità del becero (che non attacca il potere ma riafferma lo status quo). Trent’anni dopo, l’umorismo è cambiato, e non per via di una fantomatica “dittatura del politicamente corretto” che impedisce agli autori di scrivere cose divertenti: è cambiata la società, i nostri modi di agire e di parlare. Le battute dei personaggi di Cobra Kai ironizzano sul modello machista, sulle dicotomie “buoni/cattivi”, “nerd/sportivi”, “cose da maschi/cose da femmine” che fecero la fortuna di molto cinema negli anni ottanta.

Miguel: Hey! Sono Miguel. La mia famiglia si è appena trasferita al 109.
Johnny: Bene. Altri immigrati.
Miguel: Veramente veniamo da Riverside.
Comunque, volevo sapere se aveva problemi con l’acqua.

(da Cobra Kai, 2018)

Alla scuola di sceneggiatura mi è stato chiarificato in termini teorici un concetto che avevo intuito per esperienza: va bene, nella comedy, usare i cliché, purché questi vengano esplicitamente fatti notare all’interno della storia stessa. Call them out: mostrare la consapevolezza dell’operazione ironica che si sta compiendo e farla notare esplicitamente. Credo che il merito (anche umoristico) di Cobra Kai sia proprio questo: utilizzare la struttura (e l’estetica) naif degli anni ottanta per esprimere la complessità di cui abbiamo consapevolezza oggi.

Recentemente, invece, sono tornata al cinema per la prima volta dal pre-lockdown per vedere Tenet, l’ultimo thriller fantascientifico di Christopher Nolan. Questa sceneggiatura, pur avendo il merito di utilizzare una solidissima teoria fisica (cosa rara da ritrovare in tanta letteratura, cinematografia e narrazione seriale fantascientifica, ma comunque molto difficile da cogliere per la maggior parte del pubblico, me inclusa) sulla base della quale costruisce l’intero plot, manca completamente di ironia. Perché? Perché manca qualunque azione che espliciti i comportamenti e le battute stereotipate. Lo si vede bene dai dialoghi, che riescono a utilizzare in maniera seria formule come:

“Perché vuoi distruggermi? Perché vuoi farmi del male?”
“Perché se non posso averti io… non potrà averti nessuno!”

Tenet è espressione di un mondo patriarcale, e non è capace di vederne le debolezze per riderci sopra.

Che si tratti, dunque, di parole raffinate e di una scrittura sottile, come accade in Lost in Translation, o, all’opposto, di Cobra Kai, dove è tutto gridato per sottolineare l’intento ironico o parodico, che si tratti di una storia guidata dalla trasformazione dei suoi personaggi o dalle sue vicende, i dialoghi ben scritti hanno sempre lo stesso potere: quello di riflettere un mondo. E anche se i generi si trovano agli antipodi, il flusso drammatico, i rapporti di potere e il continuo bilanciamento/sbilanciamento degli stessi esprimono i valori della scena (e dell’intera storia): i dialoghi sono un modo per presentare la filosofia dei personaggi e della narrazione attraverso parole altre.
Come ci si arriva? Affinando uno specifico ascolto, attraverso l’analisi e esercizio. Fornendo alla storia un’architettura salda, certo. Ma soprattutto, per come la vedo io, partendo dai suoi personaggi.

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