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Natale per sempre

A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti e selezionati dalla classe di Apnea ’20/’21, ne sono infine stati scelti 13 per la pubblicazione.


Questo è il quinto, lo ha scritto Riccardo Romagnoli e ha richiesto un editing che lo aiutasse a chiarire certi non detti di troppo, a far emergere il nucleo conflittuale più intimo del protagonista e a rafforzare l’identità stilistica. L’editing è a cura di Francesca de Lena e della corsista di Apnea Letizia Merello, correzione della redazione. Bravo l’autore soprattutto nella costruzione dell’atmosfera.


La Vigilia di Natale, una città soffocata dalla neve, l’incontro fra un anziano e una giovane donna, entrambi soli, il primo da molto tempo.
Una favola nera carica di atmosfera, dove la solitudine può essere un animale che cerca e dona compagnia, ma anche una belva affamata che divora.


di Riccardo Romagnoli


Lenta cade lenta lenta. Neve larga e leggera. Bianca e bianchissima. Precipita e va. Vola e cade. Lenta lenta. Fitta. Continua. Dal cielo si stacca e porta giù il cielo, bianco esso e bianca lei. Uniforme e brillante accecante ipnotica, incantesimo periodico. Incessante. Sommerge e colma, riempie e non dà tregua.

Felici le persone che camminano in corso Buenos Aires. È la vigilia di Natale. Luci accese e alberi colorati. Din don din din don don, suonano e cantano finti babbi Natale, uomini mascherati che saltano e ballano, pupazzi meccanici che fanno le riverenze e sorridono sempre, bianchi e rossi, eternamente lieti.

«Lo voglio, lo voglio», gridano i bambini che desiderano i regali. «Domani, domani», rispondono i genitori.

La neve scende e da un giorno intero scende viva e fresca. È ormai trenta o quaranta o cinquanta centimetri e le macchine rallentano fino a fermarsi del tutto bloccate. La gente avanza contro il vento e contro la neve alta che resiste. Va piano e pianissimo, a fatica procede e quasi non va: è difficile.

La vita si condensa e si ghiaccia, mentre la gioia esplode di bimbi e adulti che guardano in alto e dicono «Ancora» benché “ancora” significhi la città paralizzata e forse morta. Il metrò è chiuso. Bus e tram giacciono ingorgati in strade e rotaie. I lampioni si accendono e si spengono. «Manca l’energia elettrica», qualcuno dice, ma l’allegria non diminuisce e le vetrine rimandano a specchio volti contenti e beati. «È Natale! È Natale!».

Il signor De Olivares è in corso Buenos Aires davanti al bar Cin Cin. I suoi passi vanno e restano però. Non ce la fa. È vecchio. C’è troppa gente. C’è freddo. È triste. È Natale.

Din din din don don don, sente De Olivares alla sua sinistra e si spaventa, grasso e incerto, vacillante e perso, nel suo mantello nero di lana antica, sobbalza e guarda smarrito, non sa perché. È stanco e instabile. Il bastone scivola. Non ce la fa.

Ricorda le feste di quando era piccolo e allora i din don din don non gli facevano paura e c’erano tanti enormi regali che più belli non ce n’erano e la mamma lo baciava in fronte e gli diceva «Sei il mio bel bambino e non ti lascerò mai». Erano tempi felici. La mamma e il papà abitavano un castello sul mare. C’erano ospiti da ogni parte del mondo. De Olivares era amato e vezzeggiato e sorrideva e sognava una vita serena.

«Non c’è vita, non c’è gioia, non c’è niente», pensa a voce alta.

«Ahi, mi scusi», sente dire.

Una ragazza, di corsa, è caduta e gli è andata addosso, giù distesa nella neve.

«Scusi», ripete e si alza. «Le ho fatto male?». Piange.

«No. Non so», balbetta De Olivares e vede il pianto di lei e le lacrime congelate dal freddo e dal dolore.

«Che hai?», chiede. «Che piangi?».

«Niente. Nulla. È così».

«Non è così. Se si piange non si sta bene».

«Sì».

I fiocchi di neve le imbiancano le ciglia lunghe e i capelli raccolti e biondi.

«Vieni. Ti offro un caffè. Fermati», dice De Olivares che ha nuove energie che spingono la sua testa a sollevarsi e i suoi occhi a guardare intensi.

La prende per un braccio, con delicatezza estrema, ed entrano nel bar Driade in fondo al corso, vicino a Porta Venezia.

«Siediti che hai freddo. Tremi. Hai bisogno di qualcosa di caldo».

«Sì grazie. Mi chiamo Giulia».

«De Olivares».

Giulia beve. Piange. Si asciuga le lacrime. Beve. Si aggiusta i capelli. Si tocca le labbra. Si carezza le guance. Ha vent’anni, forse.

«Piangi alla tua età?», domanda De Olivares.

«Sto male».

Racconta che il fidanzato l’ha lasciata, proprio quel pomeriggio, e lei lo ama e sarebbero stati insieme per Natale. Non è andata a casa dai suoi che vivono in un paese in provincia di Salerno e che si sono arrabbiati e le hanno detto «Non sei nostra figlia se non vieni a Natale. Siamo la tua famiglia», ma non è andata perché aveva Paolo.

«Paolo?».

«Il mio fidanzato».

Hanno litigato. Tante parole e parolacce e insulti e lamenti. Se n’è andato. «È finita».

È la vigilia di Natale.

«Io lo amo. Non so stare. Oggi. Stanotte. Sola».

De Olivares ascolta. Seduto. Indossa un vestito scuro, elegante una volta, ora macchiato sui bordi e consumato, una camicia bianca, lisa al colletto, una cravatta nera.

«Cos’ha sotto la camicia? È un insetto?», chiede Giulia allarmata.

«Eh? Nulla, un capello».

De Olivares prova a distrarla, le racconta dei viaggi che ha fatto.

«Ho visitato i templi di Angkor, in Cambogia, e la foresta e le radici degli spong grandi come tentacoli di piovra».

«Davvero?».

De Olivares aveva visitato i grattacieli di New York e di San Francisco, di Dubai e Singapore e Hong Kong, le tombe reali del Sipan, in Perù, e le mummie incaiche conservate sulle Ande a seimila metri di altitudine, «Sono rimaste come appena morte», i deserti del Sahara e del Maranhão in Brasile con le dune che si muovono e si trasformano, i ghiacciai della Patagonia e le isole colorate del Cile, le montagne dipinte in Cina e le grotte millenarie e infinite di Jenolan in Australia.

«Lei conosce il mondo, De Olivares. È magnifico».

La neve scende là fuori e pare che sia onde e schiuma di mare che nasconde e protegge loro che sono in quel bar e che parlano e De Olivares fa gesti e trova parole precise e ha l’intelligenza infuocata, e Giulia ha dimenticato, chissà, l’amore finito e chiede ed è curiosa e si stupisce che un uomo grande, e forse direbbe “vecchio”, le piaccia.

«Stanotte cosa fa lei? Festeggia la vigilia? Ha figli, parenti, amici?».

Sente tenerezza e curiosità per De Olivares. Lui è una persona dolce e malinconica che ha bisogno di una parola buona. La aiuta a non pensare a Paolo e a ciò che è avvenuto.

«Non ho nessuno. Tutti morti e io lo sarò presto, penso».

Giulia, senza riflettere troppo: «Perché non lo passiamo insieme?», propone.

È contenta di questa scelta improvvisa e forse strana.

«Mi dia il suo indirizzo», dice. «Devo andare a casa per una doccia e poi arrivo».

De Olivares le dà l’indirizzo.

Giulia esce, saluta e va via.

La neve cade.

Il traffico è fermo.

Din din don don, piace a De Olivares che ordina in una grande salumeria la cena. Ci saranno tartufi e caviale russo, salmone scozzese e ostriche normanne, ravioli e cannelloni ripieni, brasati e cacciagione, champagne millesimato, mousse e bavaresi alla frutta.

«Mandatemi tutto a casa».

Pagando si accorge che ha speso gli ultimi soldi che aveva e non sa come farà poi.

«Non importa».

Prende via Melzo e si avvia verso casa, in una strada silenziosa con ampi giardini. Abita in una villa a un piano. Cadente. Le persiane rotte. Sulla facciata l’intonaco è staccato. È quello che gli è rimasto, delle ricchezze sue e della famiglia. Rovine, quasi. Si vergogna che Giulia venga nella sua casa abbandonata, ma, per una volta, non sarà solo e qualcuno lo ascolterà con gioia.

Entra.

Le termiti si fanno ad anello intorno a De Olivares che intanto si è messo su una poltrona. Lo circondano con i loro brusii. Sono milioni, piccole e nere. Si muovono all’unisono. Escono dagli angoli bui, da sotto i tappeti, dai mobili. De Olivares le osserva pensieroso. Loro lo capiscono. E lui capisce loro. Sono agitate e frenetiche. Appaiono e scompaiono a grandissima velocità. Si arrampicano sui muri e corrono, infastidite se la luce è troppo forte. Una di esse è tra le pieghe della camicia di De Olivares.

Le termiti si mettono all’opera e in poco tempo la casa è lucida. Si sente suonare alla porta. Sono i fattorini che portano il cibo ordinato. De Olivares apparecchia usando il corredo che gli aveva fatto sua mamma con merletti delle Fiandre. Ci sono le posate buone e i piatti di Sèvres, e i cristalli di Boemia. Se ci fossi tu, mamma, a vedermi adesso, pensa. A vedermi cenare con una bella ragazza. Ha dovuto vendere gli oggetti di famiglia, per vivere e sopravvivere. Quasi niente ha conservato, ma stasera vuole fare la sua figura con Giulia.

La tavola è pronta. De Olivares si fa una doccia e si profuma. Sono le 22.00.

In cucina sono accesi i fornelli e il forno. La neve scende. I rumori scompaiono nel silenzio. Le termiti sono entrate nel baule che è il loro nido preferito. È un baule senza fondo, collegato con la terra e con le fogne e le condutture di Milano. Le termiti vanno e vengono dal baule e per labirinti, cunicoli, fessure, anfratti, pozzi, giungono fino alla Serra da Capivara, in Brasile, da dove loro provengono e dove sono nate.

Sono le 22.30.

De Olivares è impaziente. Sono le 23.

Giulia non c’è. Succede. Un piccolo ritardo. Sono le 23.30.

Si sarà persa. O forse con la neve ha avuto difficoltà. Mezzanotte. L’una. Le due. Giulia non c’è. «Avrà avuto un incidente». Le tre.

De Olivares osserva le termiti che gli stanno vicine e puntano il cibo ben disposto sulle mense. «Mangiatelo voi. Io non ho fame». Con la testa china si siede sul divano. Le termiti si avventano sul cibo e in pochi minuti lo divorano. La neve cade lenta e dolce. La notte è calma. Persone in strada cantano. Din don din din don don. De Olivares si stringe le mani. Le termiti intonano uno zzzzzzzzzzzz armonico da ninna nanna e De Olivares presto si addormenta.

Le termiti corrono via sotto la città e cercano finché non la trovano in un albergo di via Sammartini, l’Eden si chiama, e ha una sola stella e grossi scarafaggi che lottano e le termiti mangiano d’un colpo. Sono arrivate seguendo il fiuto che hanno e si sono nascoste nella stanza 22 in un cono d’ombra che è nero come esse sono, e ascoltano.

«Abbracciami! Non potevo stare senza di te», sta dicendo Giulia che è nuda e sul letto.

«Sono qui, piccola. Non ci lasceremo mai più».

Paolo va in bagno. Lascia la porta socchiusa.

Le termiti escono, in massa, avvolgono Giulia e subito le entrano in bocca perché non possa gridare. In milioni la sollevano e di corsa si immettono in una condotta fognaria e in poco tempo sono di nuovo da De Olivares che intanto dorme mentre l’alba è appena oltre l’orizzonte e rischiara debolmente la neve che scende e ogni fiocco si adagia sul precedente e produce una coltre morbida e profonda, di quiete e di abbandono.

Qualche campana suona il Natale che è arrivato e, come fosse un richiamo, sveglia altre campane in Milano che rispondono, ovattate nella neve che non cessa e non se ne va.

Le termiti escono dal baule aperto e depongono Giulia sul letto come una bambola. Le sono entrate in corpo e nel cervello e la controllano nei nervi, nei muscoli e nei movimenti. Al di là delle pupille le termiti compaiono con le loro mandibole taglienti e sono sagome nere.

De Olivares apre gli occhi. Le termiti lo chiamano.

«Oh», dice.

La neve è alta più di un metro e non si può uscire.

De Olivares tocca il corpo di Giulia e dove tocca resta l’impronta delle dita.

«Oh», ripete.

Tocca e si diverte a vedere che il corpo di Giulia cambia posizione ed è lui che decide come disporlo.

«Bella».

Va in cantina e torna con una scatola. Toglie lo spago che la chiudeva. Ci sono gli addobbi natalizi che usava da bambino.

Prende le palle colorate e le attacca alle braccia e alle gambe di Giulia, ai fianchi avvolge stelle d’oro e d’argento, festoni piccoli e grandi. Sulla testa pone una magnifica punta rossa e gialla. Per completare il suo albero attacca le candeline che sono ancora quelle vere di cera. Le accende e Giulia si illumina.

Le termiti osservano e hanno riempito la stanza perché tutte hanno desiderio di vedere e di sapere. De Olivares pensa alla mamma e ai giochi che faceva, che erano magnifici di lusso e di meraviglia. Le termiti si allargano e si restringono in masse compatte con cui si spostano e che sembrano macchie di buio mobile. Ora ci sono e si vedono, ora non ci sono e sono un sogno.

Ormai il Natale è ovunque. La luce del mattino compare. La neve cade cade cade.


Riccardo Romagnoli è nato nel 1955 a Firenze e vive a Milano.
Ha esordito nel 2012 col romanzo Il diciottesimo compleanno (Transeuropa Edizioni). Suoi testi sono pubblicati presso Effe, Vicolo Cannery e la Nottola di Minerva. Nel 2014 ha pubblicato il racconto Il 39 di Via Marco Aurelio nella raccolta Milano d’autore, Morellini editore).
Nel 2015 ha pubblicato Post Coitum – Giornate fiorentine (Morellini editore): antologia di racconti con prefazione di Vanni Santoni.
È del 2018 e del 2021 (seconda edizione aumentata) la pubblicazione di Brasile (qualcosa del) (Morellini editore) che raccoglie racconti di viaggio.


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