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Mare nero

A seguito della nostra call abbiamo ricevuto 106 racconti. Letti e selezionati dalla classe di Apnea ’20/’21, ne sono infine stati scelti 13 per la pubblicazione.


Questo è il settimo, lo ha scritto Francesca Zoppei e ha richiesto un primo intervento di editing che lo aiutasse a chiarire il nodo della questione senza edulcorarsi e senza censure, e a mantenere ritmica e fresca la scrittura senza perdere di credibilità. Ci hanno lavorato la corsista di Apnea Paola Laudadio e le nostre caporedattrici. Un secondo intervento è stato fatto da Francesca de Lena sul montaggio e la tensione della seconda parte. Correzioni a cura della redazione.


Salvare gli oceani dall’inquinamento o comprare i pannolini super-inquinanti per la bambina? L’Autrice racconta senza carezze la giornata di una neomamma frustrata dalla sua nuova condizione, e il sogno a occhi aperti di tornare per un istante a com’era la vita incontaminata dalla maternità. Il problema dei sogni è che a volte possono mettere in pericolo la vita.


di Francesca Zoppei


«Il mare è in pericolo», mi dice la ragazza di Greenpeace al telefono, «una marea nera sta sporcando e danneggiando le acque al largo delle Isole Mauritius». «Oh mi spiace!» rispondo, e aggiungo al carrello una latta di fagioli bianchi Regina, i preferiti di Damiano. Mia figlia rosicchia il suo coccodrillo massaggiagengive, lasciando penzolare i piedi, lo sguardo rapito dai colori degli scaffali. «È necessario intervenire al più presto per salvare gli animali che stanno soffocando in quelle acque», continua la ragazza. Annuisco con la testa e, anche se lo abbiamo finito ed è in offerta, ripongo il tonno sullo scaffale. Lei pare vedermi: «Apprezziamo la sua sensibilità e ci serve il suo aiuto».

Ha una voce cordiale, ma priva di passione. Immagino l’ufficio da dove chiama, un ufficio come il mio, con un tavolo lungo e stretto, le finestre ampie e lei, con le gambe incrociate sotto la sedia, a ripetermi quello che ha già raccontato al nome precedente della lista e che ripeterà a quello successivo. La bambina batte un piede sulla grata del carrello, ne esce un suono, ride. Batte l’altro, i due piedi insieme, ne è estasiata. Si sporge, pericolosamente direbbe mio marito, a controllare di sotto. «No», ammonisco «cadi» e la rialzo. Lei si ributta per verificare suono e piede, piede e suono: «Ma-ma-ma», esulta a testa in giù.

La ragazza descrive immagini apocalittiche che i loro volontari hanno girato per denunciare l’emergenza in atto con le oltre quattromila tonnellate di carburante che stanno fuoriuscendo dalla petroliera. Io, con il telefono tra la guancia e la spalla, carico la pasta, il pomodoro, una bottiglia di olio ma piccola. Calcolo il contenuto di una sola borsa, perché so che dovrò uscire da qui con la bambina in un braccio e la spesa nell’altro, salire in macchina, trovare un parcheggio comodo e poi scaricare e ricaricare il tutto sul passeggino, per salire finalmente a casa. «Ma-ma-ma! Ma-ma-ma!», continua a chiamarmi la bambina sferragliando sul carrello.

«Oh ma c’è una bambina lì. È sua figlia? E come si chiama?», esclama la ragazza del call center. «Come?», chiedo. Ho sentito la domanda, ma non così bene, insomma non come se fossi da sola nel silenzio del mio ufficio davanti al pc a trattare con un fornitore. È una domanda facile, me ne rendo conto, ma gliela lascio ripetere e intanto valuto se acquistare un pacchetto di Digestive o i Canestrelli. «Mi pare di aver sentito la voce di una bambina, sua figlia suppongo, come si chiama?». «Anna». «Ma-ma!», ripete mia figlia che sa dire solo questa parola e la usa per tutto.

La ragazza si fa seria: «Mamma di Anna, lei sa quanto sia importante agire per il futuro del pianeta che lasceremo ai nostri figli, e dunque sono certa che vorrà sostenerci». Opto per i Canestrelli, ho bisogno di zuccheri e grassi saturi. «Ora partirà una breve registrazione», continua recuperando il suo ottimismo di routine «dovrà rispondere sì a tutte le domande, in seguito registrerà la sua mail e il numero di telefono, acconsentendo affinché le possiamo mandare l’IBAN per eseguire il versamento. La somma sarà lei a deciderla. Mi raccomando mamma di Anna, contiamo su di lei.»

«Ha figli?», chiedo, ma quella ha già fatto partire la registrazione.

Non avevo sentito nulla di questa nave incagliata nella barriera corallina al largo delle coste africane orientali. Possibile: non leggo i giornali da mesi. E non perché d’estate si presti meno attenzione alle notizie; da quando la bambina non è più parte del mio corpo, ma padrona indiscussa del mio tempo, esco col passeggino e solo nelle ore più tiepide, non mi trucco e fatico perfino a lasciare il balsamo in posa tre minuti sotto la doccia.

«I figli si fanno da giovani», aveva detto mia madre quando avevo compiuto venticinque anni e lo aveva ripetuto a ogni compleanno, con gioia all’inizio, poi con un crescendo di aspettativa, ammonimento e infine esasperazione. Finché ai trentotto aveva smesso e si era arresa all’impossibilità di diventare nonna. Avevo compiuto da poco quarantadue anni quando le avevo comunicato la notizia. «Ne sei sicura?», aveva chiesto. C’era angoscia nel suo sguardo. La stessa che ora nascondo nel mio.

La voce registrata ripassa le leggi a cui fa riferimento, chiedendomi se sono nel pieno delle facoltà mentali e libera da costrizioni di sorta. Nello specchio del reparto omogeneizzati mi vedo riflessa insieme a mia figlia. All’inizio lasciare l’ufficio e l’abitudine di apparire sempre a posto era stata una liberazione, ora ritrovo una donna sciatta, con i capelli sfibrati e le scarpe sbagliate.

Le domande registrate si susseguono: la bambina si riconosce nello specchio ed esulta, poi torna alla masticazione del suo coccodrillo di gomma. Io soppeso le caratteristiche di due tipi di pannolini. Dovrei passare ai lavabili, l’estate scorsa a Jesolo, con la pancia che cominciava a esplodere, avevo visto un pannolino gonfio d’acqua salata galleggiare come una medusa deforme stordita dalle onde. Mi ero ripromessa di essere una brava madre, migliore delle altre, di sicuro migliore della mia. Lascio i miei recapiti alla voce registrata, poi espiro e appoggio entrambi i pacchi nel carrello.

E mentre, nell’ufficio di Greenpeace, una matita sta tirando una riga sul mio nome, valutando se sia l’ora di una pausa caffè, a mia figlia cade di mano il coccodrillo massaggiagengive. L’animale rimbalza sul pavimento seguito da un lungo filo di bava ed entrambi si posano sulle piastrelle luride.

«Ma-ma ma!», grida lei spaventata.

Raccolgo il giochino sbavato e tento di spiegare alla bambina, con ampi gesti e parole ragionevoli, che ora non può più riavere il suo coccodrillo: «È pieno di germi. Bleah i germi, bleah! Devo lavarlo prima, con l’acqua, sotto il rubinetto, disinfettarlo con l’Amuchina. A-mu-chi-na», ripeto e ne metto un flacone, grande, nel carrello. Lei butta la testa all’indietro e inizia a urlare, dimenarsi e sferragliare con una rabbia assordante che quasi copre gli annunci degli altoparlanti. Spingo il carrello alla cassa, tutti ci guardano, perché è ovvio che quando un bambino piange è colpa della madre.

«Col cazzo che lo rivedi ancora il tuo coccodrillo di merda», le sussurro, e butto quella schifezza bagnata nel carrello.

La mail di Greenpeace trilla nella borsa, mentre, fradicia di sudore, valico la porta di casa, col passeggino e le borse della spesa che, nonostante i miei buoni propositi, anche stavolta sono raddoppiate. La bambina ha finalmente chiuso occhi e bocca. Non la tocco, la lascio in ingresso, i colori del supermercato e il caldo dovrebbero averla stancata abbastanza, potrebbe dormire anche un’ora, se sono fortunata.

Sistemo la spesa senza sbattere né ante né barattoli, lavo il coccodrillo, lo disinfetto, poi zampetto fino al bagno e, mentre l’acqua si scalda, sbircio il video in allegato, senza volume, tanto è in inglese. Il greggio è leggero e appiccicoso, la scia nera tracciata nell’acqua si espande, sembra volersi appropriare di tutto. Entro in doccia e lascio che l’acqua tiepida mi scivoli addosso, e il bagnoschiuma, e il suo profumo. Non ho nemmeno risciacquato lo shampoo quando il suo pianto mi interrompe.

«Ecco il tuo coccodrillo di merda» le dico «ora la mamma deve mettersi le sue cazzo di mutande». Mia figlia prende il coccodrillo senza convinzione e lo lancia in salotto, spalanca le braccia verso di me: «Ma-ma-ma». La libero dalle cinghie e la cullo al petto, svuotando l’omogeneizzato nel pentolino. Quando si è calmata, la lascio a gattonare e, finalmente, infilo le mie cazzo di mutande. Il pomeriggio passa caldo e lento, come tutti i pomeriggi. Stendo una coperta sul poggiolo; i ferri della ringhiera sono abbastanza fitti da non far cadere niente di sotto, ma noi ci abbiamo aggiunto anche una rete a trame strette. Costruisco torri che lei fa crollare un centinaio di volte, mi annoio.

All’ora in cui uscivo dall’ufficio, guardo l’orologio appeso in cucina. Mio marito non è solito ritardare e ha avvisato. Mi decido a chiamare una mia ex collega: «Perché non ci raggiungi? Dai, siamo tutti al Fuori Porta», mi invita. Valuto quanto ci metterei a organizzare quello che serve per uscire: pannolino, salviette, biberon, biscotti, anti-zanzare, dopo-puntura, e infine considero la stoppa dei miei capelli e le mise da ufficio delle mie colleghe. «Guarda, oggi proprio non riesco», concludo con voce gioviale «ma raccontami: ci sono novità?» «Nessuna novità, sai, è estate», mente, ma sa adulare. «Quanto ci manchi! E la piccola? Cresce?»

Racconto con entusiasmo i progressi della bambina: un dentino che siamo certi stia per spuntare, camminare ancora no ma gattona, il pediatra dice che è nei percentili. Poi mi interrompo perché si sa che dei figli degli altri non interessa un cazzo a nessuno e lascio che lei mi confidi di uno dell’ufficio: «Sai quello carino del terzo piano», sussurra «proprio ora mi sta guardando». «Ma non è sposato?». «Sì infatti, sono così stanca di queste relazioni, voi neo-madri invece, siete così fortunate a esservi lasciate alle spalle tutto questo tira e molla». La ascolto lamentarsi della sua vita da single.

Le conoscevo anch’io le madri dell’ufficio: diventavano inaffidabili sul lavoro e non partecipavano mai alle uscite aziendali, come se avessero una vita più importante di quello stare lì a raccontarsi di viaggi e pettegolezzi sorseggiando un prosecco al bar. O un Negroni. O un Mojito. O vari, quando si andava per le lunghe. L’avevo invidiata quella vita segreta che non conoscevo, come ora invidio il vuoto nel letto della mia collega.

Mio marito torna e dice: «Dov’è Anna? Dov’è la mia bambina? E dov’è la sua bellissima madre?». Mi bacia su una guancia. Gli metto la bambina in braccio che non si è ancora tolto le scarpe: «Gliela dai tu la mela?», non è una domanda. Riempio un bicchiere col vino, poi aggiungo ghiaccio, acqua gassata e abbastanza Campari da farlo diventare rosso. Esco sul balcone. La ringhiera è fresca sotto la mia mano. Mi siedo sulla sdraio, allungo la schiena e stendo le gambe. Appoggio il bicchiere su una guancia e poi sull’altra, come fossi in spiaggia: l’ombra lunga dell’ombrellone, il mare liscio e io in costume, un telo leggero sulle spalle. L’ora più bella.

Là c’è il mare e… ci sono dei ragazzi… avranno vent’anni. Immagino di alzarmi, lentamente, il telo ha i colori dell’anguria. Li raggiungo dondolando un poco il bacino e la testa, la schiena invece è dritta. È il passo con cui ho sedotto il mio primo fidanzato e il secondo e il terzo, fino ad arrivare a mio marito, lo stesso passo che usavo in ufficio, con la gonna fasciata e la camicia pulita, ampia, sbottonata fino al pizzo del reggiseno. Arrivo alle dune, selvatiche come le ho viste quell’inverno che sono andata col treno a trovare Yuri. Ero all’università. Cercavamo un posto per fare l’amore tra le eriche e i giunchi che precedono la pineta. Siamo scappati ridendo, con le gambe e le braccia graffiate, i vestiti uncinati dagli aghi dei pini marittimi.

Damiano mi interrompe: «Vieni, Anna soffoca!» ed è vero, per un attimo non sento più la bambina. C’è un grandissimo silenzio. Posso perfino concentrarmi sul ghiaccio che tintinna nel mio bicchiere.

Provo a tornare ai ragazzi delle dune, che mi indicano il mare: è azzurro, da copertina, ma nel mezzo si è formata una scia nera. Corrono lì, in stivali e guanti gialli, sollevano bestie morte dall’acqua putrida e mi chiamano perché vada ad aiutarli: «Mamma di Anna! Abbiamo bisogno di te! Mamma di Anna!».

«Vieni!!!», grida Damiano. «È rossa!!!»

Rientro. Lui ha già le chiavi della macchina in mano. Tolgo la bambina dal seggiolone, le assesto tre colpi interscapolari, si mette a piangere. La consegno a suo padre e torno al mio calice. Fuori non è ancora buio. Sento la brezza leggera che viene dai giardini intorno e profuma di rosmarino. Una vampata di aria calda mi si scaraventa contro, e odore di plastica bruciata, come di manici di pentole che colano. Mio marito si affaccia:

«Valeria?».

«Sì?».

«Ho spento il fornello».

«Sì».

«La cena è bruciata».

Annuisco.

«Hai finito?», mi chiede.

Guardo il mio bicchiere: è vuoto. In casa, nostra figlia sta sbattendo un cucchiaio di legno sul vassoio del seggiolone. «Arrivo», rispondo. Invece mi giro, affondo i piedi nella sabbia, che è calda ma non scotta, non entro in casa, non raggiungo neanche i ragazzi: cammino oltre le dune.


Francesca Zoppei vive a Verona dove lavora nel teatro ragazzi come attrice e narratrice. Organizza eventi culturali e corsi con diverse associazioni, è lettrice per bambini e adulti. Le piace leggere, ascoltare e raccontare storie. Ha pubblicato Aurelio mio nonno, albo illustrato per Jaca Book/Grandir 2009. Suoi racconti sono apparsi su Letterate Magazine/Luglio 2020 e l’antologia Una storia al giorno, Erudita/Perrone 2020


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